DALLE MATRICI SATURE AI GRUPPI ALLARGATI
A cura di Federica Aloi
Questo lavoro pone le sue basi nel desiderio di trattare l’istituzione attraverso uno sguardo gruppoanalitico che permetta di leggerne le dinamiche e i precipitati alla luce di una matrice meno satura. Il lavoro nelle istituzioni permette di toccare con mano la fatica che si sperimenta nel maneggiare la complessità della società senza farsi imbrigliare in categorie rigide che sembrano utili a mantenere un ordine stabile nel tempo, ma che si rivelano poco funzionali nella gestione della diversità con cui ci si relaziona. Viene quindi messo così in risalto il valore del gruppo allargato e dello spazio bianco come strumenti di ragionamento politico, dove le differenze si incontrano producendo nuovi schemi mentali e modelli interpretativi della realtà; dove le matrici possono essere riconosciute e risignificate producendo nuove forme di cultura. E dove dunque si può dare un senso nuovo alla realtà che ci circonda, attraverso quella capacità simbolopoietica che secondo la gruppoanalisi è propria del soggetto.
Le istituzioni sono una sfida difficile per la gruppoanalisi, soprattutto dove non si è ancora creata quella frattura che permette di riorganizzare la confusione partendo dalla possibilità di ripensarla.
Parole chiave: Istituzioni, Spazio bianco, Spazio senza, Gruppi allargati
Viviamo in una società complessa. Una società che esclude e mette alla prova i nervi e le progettualità di chi la vive, perchè da tempo i servizi alla persona lavorano sulle emergenze e hanno le risorse per concentrarsi solo su quelle più urgenti.
In questo contributo si vuole portare un ragionamento sull’istituzione in quanto garante culturale e sociale; che riproduce nel proprio agire il portato valoriale inscritto in una determinata cultura, condividendo con i membri che ne partecipano all’esistenza lo stesso sistema di credenze, che guida lo scambio tra soggetti e attraverso cui si struttura la propria percezione di sé nel mondo. E quando l’istituzione si pone come organizzatore della realtà può essere anche spazio di cambiamento e trasformazione politica della cultura.
Fornari (2011) definisce le istituzioni come meccanismo di difesa, individuale e sociale, nella misura in cui protegge i suoi membri dalla confusione e dall’ignoto, garantendo cornici identificatorie solide e stabili nel tempo e nello spazio, per il mantenimento delle quali risulta imprescindibile operare una certa resistenza al cambiamento. Il bisogno dei membri di usare l’organizzazione nella lotta contro l’ansia porta allo sviluppo di meccanismi di difesa socialmente strutturati, che appaiono come elementi intrinseci alla società, alla cultura, al modo di funzionare dell’organizzazione. Aspetti che si tramandano nella vita degli individui attraversandoli e in qualche modo prescindendoli. Ed è qui che entra in gioco il concetto di transpersonale, che può essere definito come la condivisione fondamentale dell’esperienza umana, un insieme di relazioni che attraversano il singolo senza che questo riesca a riconoscerle come effettivamente collegate alla propria identità. Si può definire come l’impersonale collettivo che orienta la costruzione delle nostre parti più intime e profonde, sulla base delle relazioni inconsce che strutturano specifici modi di essere e sentire (Menarini, 1986; Ibidem). Il gruppo familiare è il luogo elettivo del transpersonale, dove si sedimentano attraverso la storia transgenerazionale, valori e temi culturali che orientano e organizzano il pensiero; è la “trama simbolica che organizza le strutture cognitive e le investe di affettività” (Pontalti, 1996), tramandando codici condivisi per la lettura della realtà. Come afferma la gruppoanalisi, caratteristica tipica della specie umana è tendere verso la rivisitazione dei codici, secondo le proprie esperienze, rimodellando i sistemi simbolici non più funzionali; ma per assecondare tale attitudine l’individuo non può agire da solo, bensì necessita della partecipazione della sua comunità di riferimento. Accade quindi che tali gruppi di riferimento non sempre siano disponibili alla rivisitazione dei propri modelli simbolici, anzi si mostrino chiusi nella loro matrice, non permettendo il fluire del potenziale trasformativo. I gruppi all’interno del quale si sperimenta l’indisponibilità al rimodellamento, sono caratterizzati da matrici sature, ovvero quei contesti in cui l’eccessiva presenza di strutture rigide o la totale assenza di trame simboliche, pone l’individuo a farsi portatore di una sofferenza che è propria di tutto il gruppo di riferimento. Nell’ottica gruppoanalitica, infatti, non esiste la persona malata, ma si parla di “sistemi in crisi”, in cui le trame della rete non riescono a tenere una comunicazione sana tra i punti nodali (Lo Verso, Di Blasi, 2011). La psicopatologia assume quindi senso solo se letta all’interno dei contesti in cui si manifesta, essendo espressione di un disagio del sistema più allargato, che non riesce a rispondere alle esigenze dei suoi membri.
Possiamo dire che le istituzioni, anche quelle preposte al sostegno e al benessere dei cittadini, rispondono ad un ordine predefinito che sembra avere come fine il buon funzionamento di certe dinamiche di potere. Nel periodo storico che ci troviamo ad attraversare, tali dinamiche rispondono ad un modello economico, sociale e politico chiamato liberismo, fondato sulla libertà di produzione e il libero mercato. Un modello economico che poggia la sua dottrina sulla competizione generalizzata e feroce, sullo sfruttamento senza limiti delle risorse umane e naturali, e tutto a discapito delle relazioni interpersonali. Un potere così invasivo e penetrante che entra nella vita privata delle persone, da un lato proponendo supporto e cura, dall’altro agendo un’azione di controllo sui corpi.
2. Dentro l’istituzione
Durante il tirocinio svolto per la scuola di psicoterapia ho avuto modo di osservare il lavoro all’interno di un Centro di Salute Mentale (CSM) di una delle ASL della capitale, in uno dei municipi più vasti e complessi della città. Il CSM, tra le altre cose, riceve richieste di valutazione di detenuti che, arrivati all’attenzione dell’unità psichiatrica del carcere, vengono poi inviati ad ulteriori approfondimenti per la presa in carico da parte del CSM per la strutturazione di progetti più adeguati al singolo. Alcuni di questi utenti hanno un passato di istituzionalizzazione e sono seguiti dall’ASL sin da prima dell’arresto, altri invece, mai saltati all’occhio del sistema, vengono attenzionati proprio durante la reclusione, dove emergono situazioni a limite, in un “pot-pourri” di esperienze di violenza, marginalizzazione e consumo di sostanze, in cui i livelli tra la tossicodipendenza e la psicopatologia sono fortemente intrecciati. Molti di questi utenti, infatti, accedono primariamente al Ser.D dell’istituto, ammettendo storie di abuso di sostanze sin dall’adolescenza e, in molti casi in cui si riscontrano sintomatologie psichiatriche, vengono indirizzati al comparto di salute mentale, dove, se emerge un’incompatibilità col carcere, si richiede l’intervento dell’istituzione esterna per un progetto differente. C’è da precisare che nell’Asl in cui mi trovo, a differenza di altri contesti del territorio, regionali e nazionali, gli ambiti delle tossicodipendenze e della salute mentale sono stati divisi per ragioni di tipo economico e organizzativo/aziendale. Ogni ambito fa capo quindi a unità organizzative differenti che sembrano non comunicare tra di loro, rimbalzandosi gli utenti in base al settore di competenza specifica. E in questo ping pong, essendo il CSM già sovraccarico, si tenta di evitare la presa in carico di utenti che la dirigenza definisce di altra pertinenza (perché anche tossicodipendenti), al netto invece dell’evidente necessità di collaborazione ricercata tra i professionisti che lavorano sul campo. Si evince quindi che a monte l’istituzione si sia data dei protocolli da seguire, dividendosi a tavolino non solo gli ambiti di competenza, ma anche l’utenza, attraverso categorie rigide che poco corrispondono alla realtà dei fatti. Risulta infatti impossibile (e forse anche poco utile), a fronte di situazioni così stratificate e multifattoriali, capire “se sia nato prima l’uovo o la gallina”, ovvero avere una visione precisa sui nessi causa-effetto tra abuso di sostanze e sintomatologia psichiatrica, anche se in realtà questo sembra essere uno dei principali tarli del CSM per capire di chi sia effettivamente la competenza. A questo livello l’argomento della discussione sembra perdere di vista l’utente in quanto soggetto che necessita un supporto, relegandolo alle sole definizioni di detenuto o tossicodipendente che totalizzano e condensano una varietà di aspetti, alcuni dei quali profondamente culturali e connotati simbolicamente, ponendo prioritariamente la questione della pertinenza e del rispetto del protocollo deciso. Appare quindi visibile la necessità dell’istituzione di ragionare attraverso un piano puramente organizzativo, che porta a perdersi nei meandri della burocrazia, utile a difendersi dal rischio di affrontare le più profonde questioni istituzionali che muovono la macchina aziendale. D’altronde ci troviamo in un contesto dove chi lavora sul campo è ben lontano da coloro che prendono decisioni e formalizzano protocolli e procedure, ma entrambe le parti sembrano “tirate” dai differenti contesti in cui operano: gli uni dalle urgenze dell’utenza, gli altri dalle necessità di far rientrare i bilanci. Infatti, sebbene quella presa a pretesto sia un’istituzione che ha come obiettivo la cura territoriale, essa ha assunto nel corso degli anni la configurazione di un’azienda, che quindi ha come priorità per la propria sopravvivenza questioni di carattere economico e il rispetto della burocrazia. Nella sua trattazione Sulla violenza, Hannah Arendt (1970) definisce la burocratizzazione come il dominio di Nessuno, spiegando che il dominio di un intricato sistema di uffici in cui nessuno può essere ritenuto responsabile, è uno dei meccanismi più violenti e tirannici, dal momento che non vi è nessuno che si può chiamare a rispondere di ciò che sta facendo. Secondo l’autrice questo stato di cose rende impossibile localizzare la responsabilità e il nemico comune, generando così uno stato caotico di inquietudine, rivelando la tendenza a sfuggire dalle forme di controllo, anche attraverso gesti di rottura violenta.
3. Prendere le distanze
Secondo Fornari (2001) l’unico modo per gestire tali ansie depressive e persecutorie è attraverso la distanza, ovvero quel rapporto tale per cui è possibile prendere il calore, la parte nutriente dell’istituzione, senza però lasciarsi fagocitare, permettendo così di controllare tali angosce. La ricerca di tale distanza ottimale però è legata ad una funzione di adattamento dell’Io, funzione che diventa valida alla luce del rapporto con gli altri membri del gruppo. È quindi un Io gruppale ciò che permette agli individui di solidarizzare e condividere la stessa modalità di soluzione spazio-temporale dalle angosce relazionali di base, in quanto come afferma l’autore, ogni membro si sostituisce nei confronti dell’altro come fonte del bene e del male (Fornari, 2011). Ci si chiede dunque cosa succede se l’istituzione va in crisi e non riesce più ad assicurare gli individui nella certezza della sua potenza. Fornari immagina tale scenario ipotizzando la crisi dell’istituzione -guerra, nel momento in cui non assolve più alla sua funzione di distinguere nettamente i ruoli di dominanti e dominati. C’è da aspettarsi, secondo l’autore, da un lato il venire a galla delle ansie depressive e persecutorie, e dall’altro l’emergere di una nuova istituzione alternativa, volta alla ristrutturazione dei ruoli con uno sguardo differente. Fornari chiama Collective behavior (Fornari, 2011) quel moto rivoluzionario per cui si abbattono i pilastri della vecchia istituzione per accedere a nuove sintesi culturali e a differenti letture del mondo; a possibili alternative per costituire nuove norme e nuovi valori. Il movimento collettivo sembra spostare l’oggetto persecutorio dall’esterno al proprio interno, identificando come male la vecchia norma, o i simboli della vecchia istituzione. Nel fare ciò è come se tale movimento si ponesse nei confronti dell’istituzione da superare come valore alternativo, svolgendo una funzione di Super-Io. In questo moto rivoluzionario si scoprono nuovi valori di base alla luce dei quali si ristruttura il rapporto con l’autorità. Esplicative a questo proposito i movimenti di protesta, che cercando di superare gli antichi codici con nuove norme e valori, si pongono come Super- Io dei genitori.
4. Un’altra istituzione
Scelgo di raccontare l’esperienza nel contesto associativo di una Casa delle Donne perchè mi sembra un pretesto favorevole per sviluppare il ragionamento su altre forme di istituzione possibile, dove per istituzione si intende ciò che ci conferma (o sconferma) nei valori e codici per leggere la realtà, che orienta le relazioni dei soggetti entro i contesti. Un luogo che cerca di darsi dei paradigmi meno saturi e rigidi, attraverso pratiche relazionali e professionali meno aprioristiche e dettate dal potere della burocrazia, ma più esperienziali e guidate dalla lettura contestuale della complessità che si attraversa. Uno spazio dove si può stare nella confusione non evitandola, ma cogliendone le potenzialità generative che emergono dall’incessante scambio gruppale. Sta infatti nello spazio insaturo la possibilità di realizzare quello che in gruppoanalisi descrive il funzionamento del livello politico-ambientale, ossia la possibilità del singolo di interagire efficacemente nella costruzione e trasformazione della propria comunità, all’interno della quale soggetti diversi pensano e realizzano trasformazioni dello stato di cose presenti.
Nel corso dell’esperienza portata avanti in questi anni, l’Associazione ha avuto modo di lavorare in diversi contesti, istituzionali e non, ricevendo richieste di sostegno sempre più complesse e diversificate che hanno evidenziato la necessità di strutturare risposte adeguate che tengano conto delle specificità dei contesti entro cui si situano. Per questo, nel lavoro decennale condotto dall’Associazione al fianco delle donne, è stata immaginata una strutturazione complessa dell’intervento che va dalla prevenzione e sensibilizzazione all’accoglienza delle emergenze fino alla costruzione dei percorsi di autonomia delle donne prese in carico attraverso l’orientamento alla professione. La condizione alla base dei singoli interventi è di costruire percorsi personalizzati, che tengano conto delle condizioni di partenza e che non abbiano standard predefiniti nel raggiungimento degli obiettivi legati all’autonomia, per cui ogni donna possa costruire il proprio progetto in modo libero e autonomo, coadiuvata da personale specializzato che privilegia la relazione tra donne, libera da stereotipi e pregiudizi socio-culturali. Un progetto volto al contrasto della violenza di genere che, tra le altre cose, si occupa dell’accoglienza di donne fuoriuscite da situazioni di violenza, offrendo sia un servizio di sportello antiviolenza che una vera e propria casa rifugio per donne e minori.
5. Il gruppo come ancoraggio
Negli ultimi anni appare evidente come il fenomeno della violenza di genere stia emergendo sempre più massicciamente, smettendo di rimanere chiuso tra le mura domestiche, prendendo sempre più risonanza e richiedendo anche uno studio e un approfondimento per trattare la complessità di tale questione che sottende sistematicamente tutta la società entro cui viviamo. D’altra parte, si può inoltre osservare che le azioni di contrasto alla violenza di genere da parte delle istituzioni non sembrano essere effettivamente sufficienti a sopperire alla richiesta che negli ultimi anni è diventata sempre più vasta e stratificata, in virtù del riconoscimento di un fenomeno troppo spesso coperto e invisibilizzato. Sul territorio romano, infatti, si trovano solo 32 posti per l’accoglienza in casa rifugio, a fronte dei 300 stimati per un territorio vasto come Roma.
Nella pratica dell’esperienza portata, nodo fondamentale è l’organizzazione gruppale che l’Associazione si è data, strutturandosi in una molteplicità di gruppi di lavoro ed equipe che si occupano dei differenti aspetti del progetto. Ogni sportello antiviolenza, casa rifugio e casa di semiautonomia è costruita su piccole/medie equipe di lavoro formate da operatrici, coadiuvate dalla collaborazione di avvocate, psicologhe ed educatrici che periodicamente si riuniscono per discutere dei percorsi in essere e valutare i passaggi futuri. Bimestralmente le diverse equipe si interfacciano tra loro e con altre componenti del collettivo per condividere le situazioni più complesse, per cui è necessario un ragionamento collettivo più ampio, o per ipotizzare invii nel percorso di fuoriuscita dalla violenza, all’interno del circuito CAV-Casa rifugio-semiautonomia, oppure usufruendo dei collegamenti con le realtà territoriali limitrofe. Di fianco, l’obiettivo di promozione culturale viene costruito mediante altri gruppi di lavoro che portano avanti progetti di sensibilizzazione nelle scuole e sul territorio, occupandosi degli aspetti comunicativi e artistici mediante la realizzazione di eventi culturali. Si giunge così al gruppo allargato del collettivo che riunendosi con cadenza settimanale, affronta gli aspetti più politici del contrasto alla violenza di genere, portando avanti riflessioni sul contesto istituzionale di riferimento, e mettendo insieme le varie anime del progetto.
Come esplicita Profita (2007), il gruppo si incontra nelle difficoltà della democrazia, nel tentativo di gestire conflitti che hanno origine nella perdita di un centro riconoscibile, nella crisi delle istituzioni; la società spersonalizza l’individuo e lo priva della definizione di un proprio ruolo, una posizione definita e stabile in un certo ambiente e rispetto all’altro. Le regole del gioco sempre in discussione, proprie della ipermodernità in cui viviamo, determinano conflitti sociali sempre più incomprensibili, ma conducono anche ad uno smarrimento dell’identità, attraverso un irrisolto processo di costruzione di senso. Per tale ragione il gruppo sembra essere punto di ancoraggio, luogo di incontro e scontro di una perenne delocalizzazione del sè, terreno fertile per riscoprire gli elementi non convalidati della personalità, e per co-costruire una nuova socialità.
6. Gruppi allargati e dialogo
I gruppi di appartenenza, con la loro funzione di socializzazione, trasmettono e rinforzano l’interiorizzazione dello spazio e del tempo propri della cultura che veicolano, e per questo, svolgono un ruolo strutturante della psiche e del soggetto, favorendo processi di interiorizzazione e identificazione. A questo proposito i gruppi vengono definiti da Rouchy (1998) come spazi transizionali, in quanto rendono possibile l’articolazione tra la psiche e la realtà sociale: il gruppo è il luogo relazionale di apprendimento culturale, che contiene, collegandole, la dimensione socioculturale, individuale e intrapsichica (Profita et al., 2007). I comportamenti programmati e non mentalizzati che strutturano le interazioni dei soggetti appartenenti ad una stessa cultura vengono definiti incorporati culturali (Rouchy, 1998), e sono ciò che organizza lo spazio relazionale e il tempo vissuto. Sono processi di cui non si ha consapevolezza, in quanto si caratterizzano per automatismo, mancanza di mentalizzazione e oggettivazione. Da questo attaccamento culturale che si struttura grazie al gruppo procede l’individuazione del singolo, l’elaborazione dello psichico, dei pensieri e delle emozioni (Ibidem). A questo proposito il gruppo allargato può essere preso dalla gruppoanalisi come oggetto di osservazione e analisi delle dinamiche interpersonali tra individuo e società, dove ciascun membro, portando la propria soggettività, si ritrova a metterla in connessione e discussione con le altre e con la cultura di appartenenza. Il dispositivo di gruppo allargato funge da spazio-campo mentale in grado di far emergere tematiche e processi socioculturali che permettono di osservare l’individuo in relazione con l’ambiente sociale e organizzativo, nel rapporto con la dinamica istituzionale, e nelle modalità di trasmissione di forme di cultura, di pensiero e di relazione che determinano l’identità collettiva e individuale (Profita et al., 2007).
E’ possibile mettere in connessione il funzionamento dell’istituzione e i gruppi allargati nel loro compito di proteggere gli individui dal caos e dal disordine, garantendo un’organizzazione che struttura lo spazio e il tempo dell’esistenza. In questo modo si vengono a creare legami di interdipendenza che da un lato offrono sicurezza e si costituiscono come difesa dal caos, ma dall’altro restringono la libertà individuale e la possibilità di creare un nuovo ordine e nuove forme di pensiero (Triest, 2003). Così come nell’istituzione, il gruppo allargato mette l’individuo di fronte al rischio di esporsi, di portare la sua soggettività, senza ottenere nessun riscontro o conferma (Ruvolo, Di Stefano, 2002). Ma se il gruppo allargato è una proiezione in qualche modo delle dinamiche gruppali istituzionali, può anche essere lo strumento attraverso cui la sofferenza istituzionale viene resa visibile e parlabile. La struttura del gruppo allargato è molto diversa da quella del piccolo gruppo che tende a rassicurare i suoi membri nella loro identità e visibilità; al contrario i sentimenti e le emozioni che attraversano i gruppi allargati sono inibenti, frustranti e violenti. È così che i suoi membri sperimentano ansia e difficoltà ad esprimersi ed esporsi, generando sentimenti di odio e di aggressività. Come aggiunge De Marè (1991) modalità gruppali così ampie possono favorire l’insorgenza di meccanismi psicotici, e al suo interno vengono adottati meccanismi di difesa arcaici come scissione, proiezione, spostamento e regressione. Al suo interno si muovono energie non direzionate e caotiche, che sfuggono al controllo generando pertanto frustrazione. Emergono così vissuti persecutori alimentati dall’odio. Il fenomeno particolarmente evidente e caratteristico dei gruppi allargati viene definito da De Marè (1991) come trasposizione: i membri sarebbero portati a leggere le dinamiche caotiche e destabilizzanti attraverso categorie simboliche proprie del sistema familiare di appartenenza, meccanismo che si rivelerebbe inadeguato in quanto genererebbe semplificazioni estremizzate e significazioni che attengono a modalità arcaiche. Il transito verso un contesto sociale e mentale destrutturato, quale è il gruppo allargato, genera angoscia perchè non offre codice culturali e relazionali definiti a cui ancorarsi, deprivando l’individuo di quelle “leggi” che gli garantiscono sicurezza. Venendo così a mancare i punti fermi propri dell’identità del singolo, che deve costruire ex novo modelli e codici relazionali, si cerca riparo nell’ordine simbolico delle istituzioni che offrono strade conosciute nella costruzione di senso che è stata già condivisa con altri gruppi e altre istituzioni. I membri del gruppo allargato non strutturato però sperimentano l’angoscia derivante dalla privazione di tali vincoli e confini protettivi, istituiti aprioristicamente e implicitamente condivisi. Per superare tale angoscia il gruppo deve sviluppare nuove capacità di tollerare la frustrazione e il disorientamento, riconoscendo come l’istituzione pre-determina parti fondamentali dell’identità e scegliere di “andare oltre” attraverso la ricerca del dialogo, come unico strumento per reindirizzare i sentimenti di odio e aggressività (Profita et all., 2007). Il “dialogo” per come lo intende la gruppoanalisi, è un percorso di processazione mentale che ha luogo nelle dinamiche del gruppo a livello verbale e non verbale, consciamente e inconsciamente, e tutti gli individui vi contribuiscono, intenzionalmente o meno. L’obiettivo non è quello filosofico della ricerca della verità, quanto piuttosto praticare un lavoro di ascolto di sè e degli altri, nel qui ed ora della relazione che è situata e contestualizzata attraverso un’incessante negoziazione emotiva e semantica tra le proprie esperienze e rappresentazioni, e quelle portate dall’altro (Ibidem). Il dialogo viene descritto da De Marè (1991) come strumento operativo che consente l’evoluzione a culture di compartecipazione, attraverso l’abbandono o la modifica degli assetti difensivi e delle barriere narcisistiche individuali, promuovendo il confronto con l’altro e la scoperta di somiglianze e differenze. Secondo l’autore il dialogo con l’esterno permette di rielaborare il dialogo con l’interno, conducendo al fine del gruppo allargato, dove si apprende a dialogare e a comunicare con l’altro in un’ottica di condivisione delle differenti microculture di appartenenza. Il gruppo allargato avrebbe infatti il valore aggiunto di far emergere le influenze socioculturali, che nel contesto duale rimandano a dinamiche intrapsichiche del singolo individuo e nel piccolo gruppo evidenziano dinamiche di tipo familiare. Al contrario di queste due formazioni, il gruppo allargato favorirebbe la costruzione di collegamenti tra dimensione micro e macrosociale dove i membri possono creare una nuova cultura della cittadinanza che mira alla costituzione di una responsabilità diffusa in quanto cittadini (De Marè, 1991). La potenzialità trasformativa del gruppo allargato risiede nella possibilità di attraversare e pensare il disorientamento e l’incomprensibilità, uscendo dalle dinamiche familiari per attivare forme di legame sociale su cui costruire rappresentazioni di identità di più ampio respiro. Il gruppo allargato può essere strumento di cambiamento culturale nella misura in cui permette il passaggio da un sistema di codici familiari a un sistema di appartenenza sociale e comunitaria, favorendo la connessione tra luoghi mentali e culturali differenti. Può essere dunque definito come dispositivo per riconoscere e riformulare i presupposti di base su cui si costruiscono gli scambi comunicativi, affettivi e simbolici, permettendo così di rendere visibile e lavorare direttamente sulle dimensioni culturali trans-soggettive. In questo senso il gruppo allargato permette di lavorare sulle matrici di base e sui contesti organizzativi e istituzionali di appartenenza che strutturano l’identità (Profita et al., 2007).
7. Lo spazio bianco
Ed è in questo senso che nell’esperienza della Casa delle Donne il gruppo allargato è lo strumento di riflessione più potente e generativo di trasformazione. È nell’incontro tra culture simili e differenti, che è possibile rendere parlabile e affrontabile la sofferenza istituzionale per rivedere come essa agisce anche attraverso e sui nostri corpi, offrendo la possibilità di ripensare i propri codici personali familiari, confrontandoli con quelli dell’altra, per ricreare ex novo nuovi modelli relazionali.
All’interno del collettivo e dello spazio portato sono poche le regole che normano le relazioni e tendenzialmente si basano tutte sulla pratica femminista di cura reciproca e verso il luogo. Una delle “pratiche” a mio avviso più funzionale e generativa di tale gruppo è la presenza costante di uno “spazio bianco”, ovvero uno spazio mentale e simbolico dove ci sia la possibilità di rivedere costantemente e in itinere le pratiche teoriche e metodologiche che si mettono quotidianamente in gioco, evitando così il rischio di cristallizzare pratiche esperienziali in teorie monolitiche. Lo spazio bianco non si definisce come un luogo o un tempo specifico, piuttosto come parte integrante della stessa metodologia e dei modelli che guidano la lettura dei contesti. Un modo di ragionare dunque, attorno al quale si organizzano riunioni, confronti, progettazioni e supervisioni. Lo spazio bianco rappresenta l’apertura costante al nuovo, all’imprevedibile e all’ignoto, che sebbene generi ansia è anche produttore di cambiamento; e ciò che ricorda l’importanza di non adagiarsi su certezze parziali o riduttive, che semplificano a discapito della complessità e dell’integrazione di tutti gli aspetti che intervengono in un ragionamento così articolato. Tale assetto mentale, dato come strumento metodologico, richiama quello che in gruppoanalisi viene definito spazio senza (Lo Verso, 1994, 2002), ovvero quella condizione di smarrimento che attraversa il gruppo nel momento dell’incontro e dello scambio tra soggettività differenti. I gruppoanalisti ne parlano rispetto ai gruppi terapeutici, intesi come luoghi di simulazione dove si agita un continuo confronto tra due esperienze, quella storica personale e quella orizzontale del gruppo, ma mi sembra un costrutto applicabile anche a quelle situazioni gruppali allargate in cui ci si da l’obiettivo di desaturare le matrici culturali rigide che ci istituiscono. È proprio il legame di gruppo infatti a permettere la creazione dello “spazio senza”, conducendo i suoi membri a stare in quel difficile momento di smarrimento che segna la fine delle certezze e l’avvento dell’ignoto, che passa attraverso il non sapere “chi sono”, rinunciando alle maschere che attraverso il rapporto con la società ci mettiamo, o ci vengono messe, a garanzia di una sicurezza immanente nel rapporto con se stessi e con l’esterno. Lo spazio senza si configura quindi come il punto di incontro/scontro tra le certezze del passato e l’ineludibilità del presente, che si manifesta anche con le sue potenzialità inesplorate. È quindi una fase di svelamento, in cui è possibile riconoscere il senso nascosto dietro alla ripetizione di schemi relazionali e all’agire rassicurante (Lo Verso, Di Blasi, 2011). Si potrebbe dire altrimenti, che è il momento in cui l’Autos ha la possibilità di manifestarsi e irrompere nell’Idem offrendo il suo portando trasformativo. Lo spazio senza, così come definito dagli autori è comunque un momento difficile, per via dell’angoscia che attraversa il gruppo e i suoi membri quando realizzano il senso di vergogna e sbigottimento per il passato, senza ancora avere strumenti chiari per progettare il futuro. È la fase spaventosa in cui si inizia a prendere consapevolezza di non poter più rimanere all’interno di quelle certezze familistiche che hanno guidato l’agire personale fino a quel momento, costringendo a rivedere le basi su cui poggia la propria identità. Come segnala De Martino (1977), l’aspetto caratteristico dello spazio senza è la fine di un orizzonte culturale, una fine che segnala nuove possibili strade percorribili e nuove prospettive di esistenza, basate su coordinate culturali più funzionali e realistiche del tempo presente (Ibidem).
Partendo da queste concezioni mi sembra possibile applicare il paradigma di spazio senza anche al gruppo allargato preso in oggetto, evidenziando il potere del gruppo di far emergere le trasposizioni delle culture, dei sistemi valoriali e normativi del contesto che esso abita. Potenzialità che si manifesta soprattutto quando ci si da la possibilità di stare nella confusione, standoci insieme, come gruppo.
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Federica Aloi: Psicoterapeuta con formazione gruppoanalitica presso la scuola di specializzazione ITER, da anni impegnata nel sociale, lavora nell’ambito dell’accoglienza per migranti e nel contrasto alla violenza di genere. Formatrice in ambito scolastico e penitenziario.