APPRENDERE LA CONVIVENZA CON L’ALTRO
A cura di Marta Vernai
Attraverso un vertice gruppoanalitico, che ha consentito di dare una lettura a più livelli rispetto alla complessità del sistema di accoglienza, il lavoro si pone l’obiettivo di presentare un’esperienza all’interno di un contesto organizzativo di accoglienza. Tale contesto viene preso a pre-testo per portare un’ottica trasformativa e di sviluppo, attraverso un lavoro complesso di desaturazione di spazi di pensiero e di costruzione di narrazioni generative nuove. Viene utilizzato il modello della complessità per leggere la convivenza nelle istituzioni volte ad accogliere l’Altro, dal punto di vista della diversità culturale degli ospiti e da quello della complessa differenziazione di ruoli all’interno dei gruppi di lavoro. Nella convinzione che la gruppoanalisi possa offrire strumenti teorici e pratici per realizzare il necessario cambio di passo, in ottica di promozione di cambiamento, vengono presentate delle possibili proposte di cambiamento, per poter sviluppare un senso altro del contesto di accoglienza, che si presenta come un sistema complesso.
Parole chiave: Convivenza, comunità, Noità, estraneo, sviluppo, gruppo
Il presente articolo si presenta come il racconto di un’esperienza, una narrazione scritta e pensata attraverso il modello gruppoanalitico, adottato come strumento principe di analisi di uno specifico contesto di centri di accoglienza, da me sperimentato ed abitato nel ruolo di psicologa.
Il mondo dell’accoglienza viene a presentarsi oggi, a livello nazionale, come un luogo nuovo ed emergente, ancora scarsamente definito e regolamentato da chiare indicazioni, quindi un contesto che potrebbe essere visto come una opportunità generativa per provare a fondare una comunità che sappia pensarsi ed eventualmente ripensarsi, come un luogo dove è possibile una co-costruzione ed una continua ridefinizione, anche alla luce degli ultimi scenari di guerra ai quali siamo partecipi.
Il vertice di osservazione e di lettura dal quale ho potuto guardare il fenomeno migratorio e attraverso il quale ho potuto stare all’interno dell’organizzazione di accoglienza pone l’accento sulla possibilità di utilizzare il modello della complessità come strumento di lettura dei fenomeni intersoggettivi, che utilizza le categorie mentali della molteplicità, della diversità, per poter elaborare quella quota di sofferenza che teme l’esplosione dei confini geografici e mentali nel confronto con lo straniero. La dimensione gruppale è il vertice di lettura principale per provare a leggere tale contesto di accoglienza, che risulta composto, al suo interno, da una molteplicità di gruppi (reali, immaginari e simbolici) di riferimento, di appartenenza, di identificazione culturale all’interno di un contesto di accoglienza. La natura di tali gruppi riguarda molteplici livelli: quelli etnico-culturali, quelli religiosi, nazionali, relativi alle matrici istituzionali, quelli di riferimento professionale. Per ciascuno di questi gruppi, ogni altro gruppo può essere potenzialmente estraneo, straniero, ma può essere vissuto anche come arricchente, perché nel rapporto con esso diventa possibile riconoscere i nostri gruppi di appartenenza e di identificazione e pensare la nostra stessa matrice culturale (Profita et al., 2007). Per questo, mi sembra adatto l’utilizzo del termine “lavoro gigantesco”, utilizzato da Napolitani (2006) per indicare un continuo e dinamico flusso di spostamento sul terreno “dell’attualità” di ogni anteriorità possibile di conoscenza sistematizzata.
1.1 L’utilità del modello gruppoanalitico per stare all’interno di un contesto di accoglienza
L’organizzazione in cui ho operato per alcuni mesi come psicologa, per alcuni tratti, si presenta come caratterizzata da matrici sature, così ho provato, in queste pagine, ad aprire spazi di pensiero su possibilità altre che potessero avere il carattere di trasformatività. Nelle istituzioni, il cambiamento e la possibilità di ripensarsi sono processi lunghi e non sempre di facile attraversamento, che attengono alle matrici culturali dei gruppi che vi partecipano. All’interno di tali contesti, la presa in carico del problema etnico diventa comunitaria, nell’idea per cui la comunità è condivisione di mura, di strutture e contenuti, di individui e relazioni che si vanno a definire tra loro.
La lettura che si tenta di fare del contesto, che presenterò successivamente in maniera sintetica, riguarda il piano organizzativo e quello istituzionale. La gruppoanalisi, infatti, connette la dimensione organizzativa e la dimensione istituzionale, vedendole entrambe caratterizzanti un’istituzione. L’organizzazione è la dimensione che si mostra visibile attraverso i ruoli, le funzioni e gli obiettivi, mentre l’istituzione attraversa la dimensione organizzativa essendo la traduzione emozionale e condivisa dell’organizzazione, pertanto consente di operare inferenze sul modo di essere contemporaneamente implicito ed esplicito, razionale ed irrazionale, dei sistemi psicosociali (Di Maria, Lavanco, 2004).
La possibilità di far parte di tale contesto di accoglienza, in termini professionali, mi ha permesso di osservarne la funzionalità organizzativa, di confrontarmi con le diverse figure professionali presenti e di intercettarne le risorse e le mancanze. Tali mancanze, come si evincerà proseguendo nella lettura dell’articolo, vengono da me intese come dei pre-testi per pensare all’utilità della sospensione dell’azione in termini psicologico clinici, permettendo la possibilità di fare un pensiero su (Montesarchio, 2002), che permetterebbe una nuova organizzazione di ruoli e azioni maggiormente funzionale e soprattutto pensabile e parlabile. Il contesto di accoglienza “Arci Lecce” viene utilizzato da me come pre-testo, dal momento che riconoscere le matrici culturali su cui si poggia la struttura dell’identità delle organizzazioni attorno cui si ruota diventa un importante elemento per provare a portare un’ottica trasformativa e di sviluppo, attraverso un lavoro complesso di desaturazione di spazi di pensiero, volta a permettere che essi vengano attraversati dal cambiamento.
Secondo il modello della complessità, la convivenza in un’istituzione come quella dei centri di accoglienza può essere letta ed appresa sia dal punto di vista della diversità culturale degli ospiti, appartenenti a culture differenti, sia da quello della complessa differenziazione di ruoli nei gruppi di lavoro, andando a sottolineare la necessità di svolgere un lavoro di costruzione di senso, condizione fondamentale per avviare il dialogo e porre le basi di costruzione di un nuovo spazio reale e simbolico condiviso. Il mio lavoro di costruzione di un senso nuovo, all’interno di tale istituzione, ha riguardato proprio la possibilità di interessarmi, proponendo delle possibilità di sviluppo, alla diversità culturale degli ospiti migranti e alla composizione dei gruppi di lavoro, verso i quali propongo delle possibilità “altre”.
Il rapporto con lo straniero viene qui letto facendo luce sulla dimensione dell’estraneo dentro il noto, il familiare, il perturbante, alterità sconvolgente che appare nel profondo dell’intimità. In tale ottica, riprendendo le parole di Morin (Lo Verso, Di Blasi, 2011) e la sua differenziazione tra ordine e disordine, provo a concepire l’organizzazione come un sistema attivo in continua ridefinizione e riorganizzazione, all’interno della quale il conflitto e il disordine diventano elementi strutturali dell’organizzazione stessa. Risulta che ogni volta che un soggetto entra in un gruppo si fa portatore di novità e di disordine, spingendo il gruppo verso una nuova e continua riorganizzazione. Raggiungere una convivenza multietnica significa attraversare le differenze, tradurle in segni, simbolizzarle e metabolizzarle nelle relazioni sociali, tramite la costruzione di un Noi che lavori sull’ambiente di riferimento, tramite l’attenzione alle relazioni tutte costruite all’interno dell’istituzione.
Provo a cogliere il passaggio da un iniziale funzionamento dell’istituzione completamente all’interno di una condizione dicotomica di cultura di coppia ad un successivo e graduale tentativo di aprirsi alla comunità più ampia, andando ad includere le altre istituzioni, processo che permette di pensare ad un bisogno sempre maggiore di rete, che spingerebbe la comunità a guardare oltre sé stessa attraverso la creazione di nuove esplorazioni volte al cambiamento. Provando invece a scorgere uno spazio mentale, dove pensare i modi d’essere dell’Alterità non implica necessariamente rinunciare alle proprie certezze di fondo, diventa allora possibile creare nuove categorie di pensiero dove il nuovo e il diverso assumano una loro significatività esperienziale, ossia diventino occasione di esperienze culturali condivise (Lavanco et al., 1999). Una peculiarità di tali contesti è la difficoltà di aprirsi alla comunità: in un contesto di lavoro come il centro di accoglienza è utile uscire da una cultura di coppia (Di Maria, Lavanco, 2004), che è una cultura dicotomica, caratterizzata da una collocazione dell’Altro esclusivamente in una dinamica di tipo amico/nemico. Il contesto di lavoro, nel momento del mio arrivo, mi sembrava fortemente chiuso e poco disponibile al confronto con l’esterno, quasi fermo nella difficile distinzione degli operatori fra loro in quanto tutti operatori sugli utenti e non per o attraverso la relazione con gli utenti.
Per poter comunicare in tale scenario poli-dimensionale, probabilmente è necessario un movimento tra i codici ed i significati costruiti da ogni sistema culturale portato nell’istituzione, sostando sul confine tra ciò che ci appartiene e ci contiene e ciò che appartiene e contiene l’ospite, ovvero tra le rispettive e diverse visioni del mondo.
2. Presentazione del contesto
Il contesto di accoglienza presentato è attinente allo scenario del SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati), che ha sostituito lo SPRAR, il quale ha rappresentato la seconda accoglienza per i soggetti migranti fino al Decreto Salvini del 2018. Con il decreto Lamorgese, il SIPROIMI dovrebbe assumere un nuovo nome, Sistema di Accoglienza e Integrazione.
Rispetto alla dimensione organizzativa dell’istituzione di lavoro, ARCI Lecce è un’associazione di promozione sociale, sita nella provincia di Lecce, in Puglia, organizzata su base territoriale in diversi progetti. I vari SIPROIMI gestiti attualmente da Arci Lecce sono rivolti a beneficiari ordinari e vulnerabili (minori non accompagnati, nuclei monoparentali) e prevedono l’accoglienza di singoli e/o famiglie in appartamenti e lo svolgimento di una serie di attività per favorire la loro integrazione sul territorio. Per tutto il territorio della provincia, esistono diversi progetti, ognuno dei quali ha un gruppo di operatori ed un referente. La presidente e l’equipe multiprofessionale appaiono trasversali a tutti i progetti della provincia. In sintesi, l’organigramma vede una persona nell’area dirigenziale, che si avvale costantemente dell’aiuto dell’equipe multiprofessionale, composta da supervisore di progetto, nove persone nell’area professionale, che include psicologi, supervisori e assistenti sociali. Vi è una divisione interna tra psicologi e assistenti sociali rispetto ai diversi progetti da seguire. Tale contesto di lavoro si presenta come un sistema complesso: il tentativo di tenere in considerazione le diverse parti di cui è composto il sistema mi spinge a tenere in mente la complessità dei diversi elementi che lo compongono, seppur con fatica, provando quindi a coniugare l’utenza con l’organico. Rispetto al contesto, il vertice gruppoanalitico, che tiene conto della complessità delle reti di gruppi che interagiscono in un sistema, spinge a tenere insieme i diversi livelli, riguardanti le relazioni con l’utenza e quelle con l’organico.
3. Possibilità di sviluppo
3. 1 Un nuovo modo di essere comunità per le equipe di lavoro
Emerge, fin dall’inizio del mio operato, come i gruppi di lavoro operassero sulla base della logica dell’urgenza, sulla base di un fare tradotto in “agito”, oltre al fatto che il lavoro dell’equipe multidisciplinare, il lavoro degli psicologi, molto diretto al fare, si era orientato fino a quel momento esclusivamente sul rapporto con i richiedenti asilo, quindi focalizzando la loro attenzione sull’utenza, tralasciando la dimensione organizzativa e quella istituzionale. Da gruppoanalista, provo a coniugare la dimensione di presa in carico dell’utenza e l’attenzione all’organizzazione, osservandola nel complesso, anche dal punto di vista della strutturazione delle equipe di lavoro. Dal punto di vista del gruppo di lavoro, la considerazione della diversità di cui si è portatori, elemento utile per porre le basi di costruzione di un nuovo modo di essere comunità, può passare attraverso il riconoscimento della specificità e competenza professionale di ciascun ruolo: nello specifico, tale tentativo è avvenuto, da parte mia, tramite la verbalizzazione della specificità professionale degli psicologi che non operano nell’urgenza. Nell’ottica degli operatori, mi rendo conto di come spesso i colloqui clinici avessero il senso di coprire delle “ore di buco”, nell’idea di risolvere e gestire l’emergenza. Le emergenze possono essere lette come situazioni che nascondono bisogni emotivi non verbalizzati, spesso a fronte di carenze di risposte istituzionali, portando ad un agire rapido e onnipotentemente capace di risolvere i problemi. Tale modalità emergenziale di risposta potrebbe essere motivata da un “vissuto di pericolo” avvertito dagli operatori che, carenti nel bisogno di sicurezza, delegano, nel caso specifico allo psicologo, il compito di gestione, contenimento e controllo delle parti malate o pericolose, come nel caso di una richiesta di colloquio clinico con un ospite che si oppone alle regole della struttura. Il mio lavoro è stato di definizione dell’operato dello psicologo, che si pone non come fautore di interventi correttivi nelle emergenze, ma come elemento di trasformazione e cambiamento all’interno del contesto (Lavanco, Novara, 2006; Di Maria, 2004).
L’apprendimento alla convivenza ha rappresentato costantemente nel mio operato il fatto di scontrarsi ed incontrare la diversità portata dagli altri, con riferimento all’ospite e anche al gruppo di lavoro, e ciò rappresenta una condizione fondamentale per avviare il dialogo e porre le basi di costruzione di un nuovo modo di essere comunità. Osservo una tendenza alla settorializzazione per progetti: ciò che ho l’opportunità di osservare è lo svolgimento di riunioni interne tra referenti ed operatori per progetto, che esclude però la componente degli psicologi e degli assistenti sociali interni a quel progetto. Il mio lavoro inizialmente è stato quello di impostare delle occasioni di incontro per ogni progetto, che comprendessero tutto l’organico effettivamente attivo in quel progetto. Questo, ossia la connessione di tutte le parti, posso dire che, da un punto di vista dinamico-ambientale, ha significato fondare un’epistemologia del territorio comune. Proprio la possibilità di una maggiore strutturazione della riunione ha reso possibile far parlare, non solo agire. E soprattutto la possibilità che nelle riunioni ci fossero anche altri ruoli ha rappresentato la possibilità di costruire una Noità, un primo essere comunità (Mancini, 2016). La riunione quindi maggiormente strutturata, a cadenza fissa, che risultava assente al mio arrivo, ha iniziato a rappresentare una sorta di finestra simbolica dalla quale il gruppo poteva osservare il proprio modo di stare in relazione tra loro e con gli ospiti. Ciò avvenne tramite anche la verbalizzazione di quanto accadeva all’interno del progetto, fornendo la possibilità di far emergere i conflitti, che erano rimasti poco parlati e parlabili. Anche le assenze rappresentavano elementi significativi che rimandavano allo stato dei rapporti interni al gruppo del lavoro. Il dialogo sulle diversità, anche rispetto al modo di ciascuno di stare dal punto di vista lavorativo all’interno della sede, rappresenta la possibilità di aumentare la consapevolezza sul modo degli altri di rappresentarsi e di attribuire valore e significato alla realtà esterna comune, permettendo una maggiore accettazione reciproca (Profita et al., 2007).
Dopo un’osservazione iniziale, mi rendo conto di come sia presente lo strumento della riunione d’equipe nella significazione dell’esperienza lavorativa dei diversi operatori, ma con poca frequenza e soprattutto difficoltà di mantenere una regolarità. Soprattutto, ho la sensazione che tale spazio sia secondario e subordinato alla vita del progetto e alle attività interne ad esso, con la conseguenza di far saltare riunioni per motivi pratici e definiti “non prorogabili”. Il mio operato, sviluppatosi ed espresso tramite le riunioni con l’equipe multidisciplinare che opera quindi al di sopra rispetto ai singoli progetti, e tramite confronti con la dirigenza, è consistito nel proporli come delle realtà stabili e calendarizzabili, che potessero permettere ai vari gruppi di lavoro di assumere un’entità relazionale, esistente al di là rispetto alle problematiche d’equipe. Anche rispetto alla supervisione, essa, inizialmente chiesta come strumento potenzialmente risolutivo di momenti di crisi e di superamento di un problema, viene da me proposta come attività stabile, dopo un lavoro di negoziazione e di contrattazione con la dirigenza di un senso diverso da dare a tale strumento, provando a creare un setting mentale strutturato, sviluppando l’idea che la stabilità possa essere un elemento da pensare per generare e promuovere cambiamento. Una proposta implica la possibilità di apportare delle innovazioni, laddove si possono vedere delle mancanze, intese come pretesti per costruire modalità altre di svolgere competentemente il nostro impegno. Tra queste proposte, la possibilità di inserire negli spazi di rinarrazione gruppali, quindi negli spazi di supervisione, anche l’equipe psicosociale e la dirigenza, che ancora spesso si mostra resistente a tale cambiamento.
È stato quindi possibile, in ottica di promozione di cambiamento, presentare delle possibili proposte di cambiamento, per poter sviluppare un senso Altro del servizio di accoglienza, consapevole che pratica clinica e spazio riflessivo sono aspetti inestricabilmente intrecciati e reciprocamente ricorsivi della nostra attività.
3. 2 Un gruppo transculturale per i migranti
Sempre con un’attenzione rivolta sia al gruppo di lavoro sia all’utenza ospite dei centri di accoglienza, dopo aver delineato delle possibilità nuove per le equipe di lavoro, presento qui delle possibili strade da seguire, rispetto all’utenza dei servizi, come la possibilità di introdurre un gruppo transculturale rivolto ai migranti.
La proposta di sviluppo rivolta all’utenza è consistita nel proporre uno spazio gruppale, nell’idea per cui la narrazione delle storie di vita può essere uno strumento per attivare processi di inclusione nella temporalità della vita quotidiana e sociale. Il senso del dar vita ad un gruppo transculturale è quello di far dialogare non solo storie di vita, ma matrici culturali, con il tentativo di leggere i fenomeni del gruppo in un’ottica complementarista, in cui l’incontro non è solamente tra psichicità individuali, ma tra culture, cioè sedimenti stratificati gruppali in azione tramite i singoli. Mediante il gruppo, l’esperienza di migrazione può essere riconosciuta come esperienza che crea una nuova appartenenza, un nuovo spazio comune, in cui poter ripensare insieme ciò che si è lasciato, ma anche le opportunità che la nuova vita permette (Profita et al., 2007).
L’idea di dar vita ad un gruppo transculturale nasce dall’obiettivo di dare uno spazio di pensiero agli utenti in cui potersi ripensare come persone al di là del loro inserimento all’interno di un progetto di accoglienza, che spesso rischia di porsi come totalizzante, provando a dar valore alle proprie risorse personali, piuttosto che le dinamiche di mancanza che saturano diversi aspetti della loro vita. Il setting del gruppo a cui si è dato vita era costituito da un gruppo non omogeneo, dove le differenti esperienze e provenienze hanno permesso di interscambiare vissuti e ricordi in parte simili e in parte diversi. In tal modo, attraverso la trama intersoggettiva ed interdiscorsiva gruppale, arricchita di più voci, è maggiormente possibile che lutti e paure, bisogni e desideri vengano affrontati, aprendo spazi così possibili di pensabilità.
La lingua utilizzata è stata l’inglese, che per alcuni membri rappresenta la seconda lingua, mentre per altri la lingua originaria, andando a costituirsi per tutti i membri, in linea di massima, come un ponte simbolico, non sicuramente un ponte neutro. I partecipanti hanno tutti una storia di vita segnata dalla fuga per proteggersi da un contesto di violenza, familiare e sociale più ampio. C’è stata, per la prima parte della vita del gruppo, difficoltà a narrarsi, con una tendenza a creare racconti confusi, brevi e molto vaghi. Sembra che si parli di confini labili tra due culture, quella d’appartenenza e quella ospite. La maggior parte di loro non ha contato su appartenenze vissute come protettive all’interno del proprio paese d’origine e ha vissuto un’imposizione di partire, non vedendo altra alternativa: si parla quindi della difficoltà a costruirsi un nuovo modo di vivere. Sembra emergere, dai racconti e dalle narrazioni gruppali, un difficile rapporto con il passato, che rende anche difficile il processo di crescita e costruzione di una nuova identità, dal momento che la ricerca di una nuova identità implica l’esigenza di riconsiderare le radici di un’identità collegata al passato che deve trovare un legame nel presente. Tale spazio gruppale sembra aver rappresentato uno spazio di attraversamento, dove potersi riflettere nella condizione di individui in transito, uno spazio dove vengono poste le narrazioni di storie di migrazione, di vissuti legati alle rappresentazioni circa la propria posizione nel gruppo sociale di appartenenza e quella che si sta costruendo nel contesto italiano. Esso si presenta come uno spazio intermedio, dove la similarità e la condivisione di alcuni vissuti viene inizialmente vista come un deficit che taglia le gambe, ma successivamente anche come una condizione che ha a che fare con l’aver lasciato il proprio paese d’origine. La condivisione dei racconti, degli stati emotivi, sembra abbia gradualmente permesso un’integrazione delle parti. Nonostante i partecipanti provengano da contesti culturali e nazionali differenti, emerge una similarità di vissuti: il vissuto di depersonalizzazione e derealizzazione, la difficoltà di riconoscere se stessi all’interno di un contesto diverso ed altro. Il gruppo, molto gradualmente, passando da vissuti negativi ed emotivamente difficili da tollerare, si è trasformato nel tempo da non luogo a spazio riconosciuto, dove poter mettere e condividere le varie emozioni che circolano. Permettendo così nuove possibilità di muoversi verso l’integrazione e l’accettazione dei propri vissuti.
4. Conclusioni
Rispetto al gruppo transculturale ma anche rispetto all’organizzazione tutta, ho provato a perseguire l’obiettivo di raggiungere una ri-narrazione generativa, nei termini di possibilità per l’altro di riorganizzare diversamente e di proporre una storia di sé che sia altra (Montesarchio, Venuleo, 2009; 2010), quindi di Noi come comunità dell’accoglienza. Una narrazione nuova, un racconto nuovo di un contesto di accoglienza, che possa rappresentare le basi per uno sviluppo continuo e che possa essere preso a pre-testo per portare cambiamenti in contesti altri.
Il contesto dell’accoglienza potrebbe essere visto come una opportunità generativa per provare a fondare una comunità intesa come un luogo dove è possibile una co-costruzione ed una continua ridefinizione, anche alla luce degli ultimi scenari di guerra ai quali siamo partecipi. In queste pagine, provo a presentare l’idea per cui la differenza etnica, culturale, quella legata alle specificità professionale di ciascuno, possano essere una risorsa, una ricchezza, dal momento che il pensiero nomade, che accoglie l’Altro, permette di leggere le attuali vicissitudini storiche, che esitano in frequenti migrazioni culturali. Avvicinandosi concettualmente agli attuali mutamenti psico-sociali che ci vedono protagonisti, relativi alla guerra tra Russia e Ucraina e alla successiva emigrazione del popolo ucraino, condivido uno scambio di riflessioni avuto con colleghi operanti in centri di accoglienza, che attualmente stanno accogliendo nei loro servizi flussi di migranti ucraini. Convivenza che viene descritta, dagli operatori italiani del settore, come difficile, per la fantasia di normalizzare l’Altro e per una estrema rigidità di entrambe le parti sociali, che rifiutano lo scambio dialogico per la paura inconscia, collettiva, di perdere la propria individualità, la propria specificità culturale ed etnica. La fantasia è che, nella relazione con l’estraneo, si possa rischiare di perdere le proprie certezze di fondo. Tale posizionamento sembra generare la fantasia che lo straniero, il diverso da noi, abbia una sola possibilità di pacifica convivenza, quella di diventare “uguale a”, perdendo la propria diversità: ciò può generare la possibilità di movimenti violenti, dei quali siamo responsabili globalmente tutti. Una rete sociale rigida è maggiormente carica di tali episodi, mentre una rete flessibile e permeabile può permettere una riprogettazione comune del livello comunicativo inter-relazionale. Su tale rete diventa possibile lavorare per fondare una cultura della integrazione reale, una cultura comune di concittadini della polis globale (Di Maria et al., 1999).
Di Maria, F., Lavanco, G. (2004), Psicologia, gruppi, formazione. Idee e strumenti per promuovere il cambiamento e costruire le competenze. Milano: FrancoAngeli.
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Marta Vernai: psicologa clinica, psicoterapeuta ad orientamento gruppoanalitico. Ha operato, in qualità di psicologa, in diversi contesti di accoglienza. Attualmente supervisore d’equipe per organizzazioni che si occupano di integrazione scolastica, psicologa presso Istituti Comprensivi Secondari. Sociofondatore e segretario dell’Associazione di Promozione Sociale “Ariadne”.
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