A cura di Roberta Baldi
Abstract
Il tema trattato nel presente articolo prende le mosse dall’esperienza lavorativa delle persone migranti come processo di attraversamento identitario. La scelta del tema coglie a pretesto l’esperienza professionale dell’autrice presso una fondazione privata come consulente ed orientatrice in progetti di inserimento lavorativo di persone straniere, richiedenti asilo o rifugiati.
In questo elaborato si prende in prestito il costrutto di ‘disidentità’, e lo si articola con quella che viene definita una ‘frattura narrativa’. L’ipotesi è che vi sia, nel vissuto esistenziale delle persone migranti, una difficoltà ad articolare gli anelli costituenti l’asse verticale passato-presente-futuro caratterizzante il rapporto tra transpersonale e soggetto.
Si parte dal presupposto che questa disarticolazione abbia a che fare con una “discontinuità narrativa”, ovvero con una difficoltà a narrarsi e, dunque di esistere in merito ad una storia trascorsa, una storia presente ed una futura.
A fronte di questa difficoltà ci si chiede quanto l’esperienza professionale può rappresentare per gli individui un’ancora dell’identità̀, un elemento capace di dare continuità̀ alla storia di sé.
Seguendo un disegno di ricerca psicoscociologica, vengono analizzati i testi trascritti delle quattordici interviste di persone migranti, ci si interroga su quale è la funzione dell’esperienza lavorativa rispetto alla possibilità di una costruzione o ri/costruzione identitaria.
L’obiettivo della ricerca non è quello di confermare un’ipotesi attraverso dei dati, ma di costruirne delle altre partendo da intuizioni, osservazioni, dati di realtà che ci toccano in qualche maniera. La realtà osservata, pensata, la risposta dell’altro aiuta il ricercatore a lavorare sull’ipotesi, a svilupparla o a confermarla, a dare senso all’ipotesi stessa ed alla tematica a cui si riferisce.
Parole chiave: migranti, narrazione, frattura identitaria, lavoro, ricerca
Il tema del presente articolo prende le mosse dall’esperienza professionale presso una fondazione privata senza fini di lucro che offre percorsi di educazione ed istruzione al lavoro a persone in situazioni di svantaggio (rifugiati politici, donne con percorsi di violenza, persone con disabilità, N.e.e.t.), i quali hanno difficoltà a trovare un’occupazione.
I diversi progetti di inserimento lavorativo sono avviati insieme a soggetti privati (imprese e realtà del mondo no-profit) e a soggetti pubblici (enti locali, istituzioni), a livello locale e nazionale, con l’obiettivo di sostenere le persone ed organizzare e supportare l’incontro con il mondo del lavoro. Nell’incontro tra enti di formazione e domanda di formazione e inserimento, la Fondazione gioca il ruolo di ente terzo che organizza, struttura e facilita questo incontro.
Dal 2018 svolgo la funzione di orientatrice e tutor in progetti di accompagnamento al lavoro di persone straniere, titolari di protezione internazionale o richiedenti asilo, occupandomi della selezione, dell’orientamento, del monitoraggio, del raccordo tra servizi per l’accoglienza, le aziende che offrono tirocini formativi, gli enti di formazione attuatori dei tirocini ed i beneficiari dei progetti. Una parte del mio lavoro consiste nell’individuare le persone idonee a partecipare a progetti formativi di tirocinio in aziende partner. Il processo di individuazione iniziava con la segnalazione da parte servizi territoriali di accoglienza che mi inviano i dossiers dei beneficiari con il loro curricola affinché io possa incontrarli e valutare la loro candidatura da proporre alle aziende.
La lettura dei cv costituisce il primo incontro con una storia riassunta nelle esperienze lavorative. Tra le prime righe leggo spesso: “aiuto cuoco”, “cameriere”, “bracciante”. Capitava poi che, scorrendo più in basso nella pagina, mi imbatto nella descrizione di esperienze più lontane nel tempo: “tecnico di post-produzione cinematografica”, “imprenditore e responsabile”, “sarto”, “insegnante”, “commerciante” etc… La lettura del curriculum rappresenta il primo step di un racconto, di una storia con una “frattura”, un viaggio che sancisce un “prima” e un “dopo”. Cosa facevi prima, nel tuo Paese? Cosa hai fatto in Italia? Cosa vorresti fare nel tuo futuro? Questi sono i quesiti attorno ai quali si strutturavano gli incontri.
I colloqui conoscitivi che seguono diventano veri e propri spazi narrativi in cui si tentava di costruire un senso di continuità tra un lì e allora ed un qui ed ora per convergere in una progettualità. Una progettualità tutt’altro che lineare in termini di continuità con il lavoro svolto nel “prima”. Per chi arriva da un altro Paese, infatti, spesso è impossibile dare un seguito alla propria attività̀ lavorativa, perché́ i titoli non vengono riconosciuti, o per mancanza di leggi comuni che regolano la professione, o anche perché́ nel viaggio si è perso il pezzo di carta che certifica il percorso di studi o lavorativo. Per citare le parole di un operatore dell’accoglienza durante un focus group sul tema del lavoro:
“Io conosco persone, e questa purtroppo è la realtà dei richiedenti asilo che salvano magari la ciabatta in cui hanno nascosto i documenti ma non la ciabatta in cui hanno nascosto i titoli di studio e questo è totalmente random ed è assolutamente ingiusto e difficile da ingerire. Io non so se ci riuscirei, perché poi di fatto queste persone arrivano qui e ripartono dalle impronte digitali, ripartono da un livello di spersonalizzazione e se ognuno di noi pensa a quanto ha investito nel proprio titolo di studio capisce cosa vuol dire questa cosa”.
Ma quello che ai miei occhi si presenta come una ‘frattura narrativa’, non attiene solo all’esistenza di un “prima” ed un “dopo” il viaggio, ma ad una difficoltà di narrarsi mantenendo un rapporto continuativo e lineare tra i due termini: tutte le persone che ho incontrato avevano già dovuto attraversare, nel Paese d’arrivo esperienze in cui hanno dovuto raccontare di sé, della propria storia, (davanti ad una commissione, davanti ai responsabili dei servizi per l’accoglienza), per acquisire o mantenere il diritto di asilo e di accoglienza, esperienze in cui la manipolazione della verità sembra l’unica strada verso la possibilità di acquisizione dei diritti (Castellano, 2008) e la narrazione di sé e della propria storia viene, inevitabilmente compromessa.
In questo contesto, cha ruolo gioca l’esperienza lavorativa nel Paese ospitante?
Può il lavoro costituire un’esperienza di “ri-definizione identitaria”?[1]
1. L’identità in una a prospettiva gruppoanalitica
Secondo Napolitani (1987), l’identità psicologica è il risultato dell’aver assunto parti psicologiche altrui nel proprio Sé, o meglio, in quella che prima ancora di diventare il proprio sé possiamo descrivere come una naturale disposizione ad apprendere tratti mentali, affettivi e comportamentali del proprio ambiente originario.
Nell’identificazione/introiezione, l’introietto conserva la sua identità originaria e la sua attitudine a legarsi in modo conflittuale con altri introietti.
Questo processo di identificazione comporta un ribaltamento dell’evidenza fenomenica tale per cui non è più l’individuo a formare il gruppo, ma è l’individuo ad essere formato dal gruppo. Per questo non possiamo parlare di individualità ma di gruppalità interne. In questo senso la conflittualità intrapsichica si configura tra un soggetto nascente e un’alterità assunta come propria.
Ma se da un lato, attraverso il processo di identificazione l’essere umano apprende, (nel senso di prendere stabilmente dentro di sé quanto i propri genitori e il proprio gruppo di appartenenza intendono insegnarli), dall’altro egli dispone di una tendenza alla rivisitazione creativa della dote psichica originaria. A queste due disposizioni, Napolitani (1987) si riferisce con i termini di Idem e Autòs. L’Idem fa riferimento alla ripetitività e replicabilità dei codici, al bagaglio di conoscenze già acquisite che trova espressione nella predisposizione dell’individuo ad apprendere come fossero originariamente proprio i segni dell’intenzionalità, degli affetti, dei modi relazionali che il proprio mondo intende trasmettergli (Napolitani, 1978 pp.). L’ Autòs è espressione della creatività che lo spinge a liberarsi dai vincoli della cultura istituita, della predisposizione ad una conoscenza trasformativa del mondo. Esso è ciò che spinge l’uomo alla rivisitazione dei codici istituiti attraverso l’esercizio di dis/connessione (negazione) e ri/connessione (affermazione) degli agglomerati simbolici di cui è inconsapevolmente equipaggiata la psiche.
Idem e Autòs rappresentano dunque le due vocazioni della psiche umana. L’identità psicologicamente intesa implica l’embricazione del processo di identificazione (ascrivibile all’
Idem) e quello di trasformazione ascrivibile all’ Autòs. Il primo sedimenta tutto un intero mondo di persone, affetti, luoghi, codici, simboli e tradizioni del contesto culturale di appartenenza nel tessuto disposizionale dell’individuo, che diventa subito “mondo interno”. Il secondo è indotto a penetrare l’evento, a denudarlo, a sospenderlo in un limbo di significati possibili e scomporlo, per procedere ad un autonomo ri-assemblaggio delle rappresentazioni di Sé, del mondo, nel mondo. Il processo di rivisitazione della cultura istituita ad opera dell’Autòs si chiama simbolopoiesi. Possiamo definire quest’ultima un’attitudine creativa insita in ciascun individuo, che permette di ri-significare il rapporto tra le cose del mondo secondo un senso proprio e peculiare, consentendo una modulazione demiurgica del Se, del Mondo e del Sé nel mondo.
2. ‘Disidentità migratorie’
Ferraro e Lo Verso (2007) utilizzano “Disidentità”, il neologismo introdotto da G. Lai (1999) estrapolandolo dal contesto relazionale delle parole dette tra due interlocutori e applicandolo all’articolazione, possibile o impossibile, tra i poli dialettici Idem e Autòs. Può capitare che questi due poi dialettici siano disarticolati o che vi sia un’inefficacia dell’attitudine trasformativa a fronte di una carenza di codici istituiti. Se infatti la creatività è espressione dell’attitudine ad una conoscenza trasformativa del mondo, a fronte di una carenza nella trasmissione di tale conoscenza (Idem) la possibilità del soggetto di ricomporre il rapporto tra le cose del mondo secondo un ordine proprio e peculiare (simbolopoiesi) fa cortocircuito proprio con l’assenza dei codici ripetitivi e ripetibili da rivisitare.
Il sentimento di mancanza rappresenta l’effetto dello scollamento dell’individuo dalla matrice gruppale, con il conseguente dissolvimento degli intrecci della vita psichica (Ibidem, 2007).
“Disidentità” non sta per contrario di identità, bensì per il suo solvente (Lai, 1999). È un termine coniato per rendere conto di una mutazione antropologica degli ultimi anni che va pensata in un’accezione di indefinitezza, vacuità, mancanza di progettualità che, pur essendo espressione di una più vasta condizione di precariato esistenziale, non può rinunciare al bisogno di ex-sistere (operare trasformativamente sui contenuti della matrice gruppale). In particolare ex-sistere esprime la possibilità di porsi non soltanto come continuità, ma anche come discontinuità rispetto al pensiero gruppale familiare, cioè alla possibilità di essere al di là delle parti psicologiche altrui e degli interventi imperativi dell’ambiente presenti nell’individuo in formazione. (Ibidem, 2007)
Secondo gli autori, dunque, “dianzi ai vincoli incerti rispetto alle matrici d’origine, qualora cioè l’interiorizzazione e il ri-concepimento degli aspetti familiari, culturali, biologici, ecc che segnano fin dall’inizio l’identità individuale, dovesse rivelarsi estremamente fragile, conflittuale e/o impraticabile, in sostanza psichicamente invivibile per il soggetto che la sperimenta e soffre, è possibile affermare che “ogni insulto ad essi è esperienza di rottura della propria stessa identità” (Napolitani, 1987).
Prendiamo ora in prestito questo costrutto, ed articolandolo con le questioni accennate in introduzione, facciamo l’ipotesi che, nel caso delle persone migranti, questa incertezza dei vincoli abbia a che fare con una “discontinuità narrativa”, ovvero con una difficoltà a narrarsi e, dunque di esistere in merito ad una storia trascorsa, una storia presente ed una futura.
In altri termini, il presupposto alla base è che vi sia, nel vissuto esistenziale delle persone migranti, una difficoltà ad articolare gli anelli costituenti l’asse verticale passato-presente-futuro caratterizzante il rapporto tra transpersonale e soggetto. Lo stesso connette e riconduce la vicenda personale a fatti reali ed emozionali, trascorsi e contingenti, che completano e talvolta determinano il senso del vissuto individuale (Lo Verso, Ferraro, 2007).
Tale “frattura” rende difficile il processo di identificazione con i gruppi sociali (appartenenza a nazionalità, etnie, religioni) i quali rappresentano la memoria collettiva di valori, credenze, norme, miti e riti. Cioè comporta, conseguentemente una difficoltà a reinventarsi creativamente.
Scrive G. Lai (1999): “Disidentità è la compresenza sotto lo stesso nome di due persone incommensurabili l’una rispetto all’altra, ciascuna rispetto all’altra, disidentiche. Perdendo i termini di riferimento – “chi ero”- rende difficile la possibilità di articolazione tra una storia, un gruppo con cui ci si è identificati e la conseguente possibilità di ri-creazione.
A fronte di questa difficoltà, l’esperienza professionale può rappresentare per gli individui un’ancora dell’identità̀, un elemento capace di dare continuità̀ alla storia di sé (Manuti, 2006)?
Quale è la funzione dell’esperienza lavorativa rispetto alla possibilità di una costruzione o ri/costruzione identitaria?
3. La ricerca
Al fine di poter esplorare il tema, pensato attraverso una problematica di ricerca, sono state realizzate 14 interviste che hanno coinvolto uomini e donne titolari di protezione internazionale.
Il campione è così composto:
-Uomini: 9 -Donne: 5
-Attualmente occupati :12
-In cerca di occupazione: 2
-Paesi di provenienza: 1- Pakistan, 1-Ghana, 2-Costa d’ Avorio, 1-Libia, 1-El Salvador, 1-Honduras, 1-Repubblica Democratica del Congo, 1-Afganistan, 1-Siria, 1-Iran, 1-Nigeria, 1-Egitto, 1-Gambia.
L’indagine si è avvalsa degli strumenti di analisi qualitativa più adeguati a rilevare la narrazione degli attori coinvolti e, nello specifico, la narrazione biografica delle persone coinvolte. La scelta dell’approccio qualitativo è stata guidata dalla necessità di dar voce alle esperienze, così come ai vissuti, alle rappresentazioni rispetto all’ esperienza ed al percorso di vita e lavorativo di un lì e allora del Paese di origine ed un qui ed ora nel Paese di arrivo.
Gli strumenti di ricerca utilizzati si collocano all’interno di uno specifico inquadramento teorico psicologico clinico che vede l’intervista non è come mera raccolta di informazioni, ma vero e proprio spazio narrativo e di co-costruzione di senso tra intervistatore e intervistato che assimila l’intervista al colloquio clinico. I discorsi prodotti sono stati registrati e ritrascritti per poter essere analizzati. La trascrizione apporta una distanza utile alla riflessione e fornisce il materiale ‘grezzo’ da cui estrapolare cluster di senso. Le frasi, al di fuori del contesto da cui vengono enunciate acquisiscono pertanto una potenzialità di significati vastissima.
Le interviste, nel loro contenuto, si configurano dunque come un racconto di vita, con un focus particolare sulla dimensione lavorativa.
3.1 Narrazioni diffidenti
Nell’enunciare la problematica della ricerca esplorativa si faceva riferimento ad una difficoltà presunta di articolare in maniera armonica i tasselli dell’asse passato-presente-futuro caratterizzanti il rapporto tra transpersonale e soggetto. Questa difficoltà sembra generare una “frattura” che rende difficile il processo di identificazione (Idem) con la memoria collettiva di valori, credenze, norme, miti e riti. Cioè comporta, conseguentemente una difficoltà a reinventarsi creativamente, funzione incarnata nell’ Autos.
Ma a cosa attiene questa discontinuità, questa frattura?
Una prima questione può essere abbordata da un punto di vista narrativo e narratologico. La condizione legata all’essere rifugiato-richiedente asilo impatta sulla ri-costruzione identitaria nella misura in cui queste persone attraversano un lungo “spazio limbico” fatto di attese, di luoghi incerti e dinamiche destrutturanti e paradossali all’interno delle quali si ricostruisce la propria storia. Vediamone di seguito alcune nello specifico.
Per avere diritto all’esistenza sul territorio italiano, i migranti devono darne prova, dire alcune cose, non dirne altre e spesso la menzogna si rivela una strategia per la sopravvivenza. In questo contesto il migrante guadagna diritti superando prove. Esclusa dalle leggi la motivazione economica, e diventate le situazioni di rischio e persecuzione l’unica motivazione di accesso all’Italia, ne deriva che deve esibire sofferenza e vittimizzazione, e anche che sia “sincero” e che le prove siano “affidabili” (Castellano, 2008). Per essere attendibile e credibile, la storia raccontata deve rispondere a dei criteri di logicità e coerenza, con codici culturali ed espressivi appropriati non necessariamente noti e condivisi tra chi deve narrare la propria esperienza e chi deve ascoltarla. Ne risulta che l’esperienza viene stilizzata, il discorso costretto in schemi prestabiliti (Sorgoni, 2011) e la propria storia assomiglia ad un plot rispondente a dei criteri prestabiliti dalla commissione, divenendo così, un’altra storia, come riportano alcune delle persone intervistate:
“La commissione non è una cosa facile, perché andare in commissione e raccontare la tua storia a tutti senza scordare nulla… devi dire tutto, tutto preciso, date, giorni, che ora… tutto… non era una cosa facile, anche i commissari, per esempio la signora che mi faceva le domande… era una persona un po’ rigida. Ad un certo punto mi voleva fermare. Le ho detto ‘signora, io non ho finito, ho ancora la mia storia, lasciami finire la mia storia ti prego ’ (…) non capivo niente di italiano, c’era un traduttore gambiano, l’inglese nostro e l’inglese loro è diverso. Ho detto che ero nigeriana ed avevo bisogno di un traduttore nigeriano. Lei ha detto “non c’è, se non vuoi lui devi tornare un altro giorno quando troviamo tempo per te. Ho continuato. Ho raccontato comunque tutta la mia storia”.
“È stato difficilissimo (…) perché quella che stava quel giorno ha detto che non avevano capito delle cose della storia …in quel momento non capivo bene come spiegarmi in italiano, quello che ha fatto la traduzione non lo so come lo ha fatto, anche per lui c’erano delle incomprensioni. Poi alla fine ho parlato in italiano ed in inglese, senza traduzione ed in quel momento ho spiegato chiaramente, mi hanno capito e lì hanno detto ok abbiamo avuto quello che volevamo. (…) Io parlavo la nostra lingua, ho parlavo fula e mandinga, ma tutti e due capivano male l’italiano e dicevano altre cose”.
L’ipotesi avanzata è che, davanti ad una ‘frattura narrativa’, viene inficiata la funzione dell’Autòs inteso come espressione della creatività, della predisposizione ad una conoscenza trasformativa del mondo, ciò che spinge l’uomo alla rivisitazione dei codici istituiti attraverso l’esercizio di dis/connessione (negazione) e ri/connessione (affermazione) degli agglomerati simbolici di cui è inconsapevolmente equipaggiata la psiche (Ferraro, Lo Verso, 2007).
La difficile articolazione tra Idem e Autòs nel caso delle migrazioni può essere dunque letta nei termini di rottura a più livelli.
Questa rottura passa dall’impossibilità narrativa dettata dal mancato riconoscimento di un’identità a livello formale (pensiamo alle lunghe attese per i documenti, o alla perdita degli stessi), dalla necessità di distorsione di una “verità” che rischia di far perdere i parametri di riferimento di una storia, o dall’ estrema difficoltà a dare una continuità alle esperienze lavorative. Se è difficile identificarsi, diventa altrettanto difficile distinguersi, contrapporsi, individuarsi, soggettualizzarsi. Autorizzarsi a divenire soggetti (e non rimanere rappresentazioni di…) sia a livello inconscio, sul piano della dialettica relazionale interna all’individuo, sia a livello consapevole delle relazioni esterne.
4. Essere riconosciuti e ri-conoscersi
4.1 Il paradosso del riconoscimento dello status
‘Richiedente asilo’, ‘Rifugiato’, ‘Minore straniero non accompagnato’ sono termini specifici, definizioni con cui si articola il discorso umanitario contemporaneo, con finalità̀ di assistenza e protezione nei confronti di migranti cui vengono riconosciute situazioni di difficoltà, (Grisot, 2012) eppure «proprio il tentativo di riconoscere gli altri in fuga, attraverso le categorie dell’assistenza, porta con sé un disconoscimento dell’altro come uomo e come donna, una riduzione a umanità̀ impura da segregare nella mancanza di soluzioni politiche» (Grisot, 2012, pp 9-10). L’acquisizione dello status evoca, da parte della società ‘ospitante’ un immaginario che porta con sé una serie di stereotipi, come testimonia J: “Avevano già un’immagine di noi, un’immagine ‘pregiudicata’. Perché uno che viene tu non lo conosci, non conosci la sua cultura, non conosci il suo percorso, non conosci niente di lui, devi prima chiacchierare con lui, ti dirà cosa ha fatto, cosa sa già fare”.
Se da un lato il processo il riconoscimento di un diritto d’asilo è una lunga e tortuosa conquista, dall’altro rischia di vincolare la persona in una narrazione che lo simbolizza come “chi richiede” attribuendogli un’identità che fa riferimento ad una condizione giuridica ma che lo connota in funzione di richieste, mancanze, bisogni, necessità.
“Un rifugiato ha “bisogno”. Ti faccio un esempio: quando ho lavorato nel xxx, nella biglietteria con i colleghi italiani, erano bravi, ma anche loro alcune volte mi dicevano – Se hai bisogno di vestiti…- come se il rifugiato avesse sempre bisogno, ti danno gli avanzi del cibo della cena del giorno prima, perché il rifugiato chiede, e se non lo chiede, sanno che ‘i rifugiati chiedono’”.
Il lavoro, in questo senso, permette di affrancarsi dalle narrazioni dominanti che seguono la “logica della stigmatizzazione/mitizzazione del migrante in quanto vittima, testimone o eroe” (Grisot, 2012, p. 8) ed essere riconosciuti in quanto agenti, in quanto partecipi dell’attività economica e quindi produttiva.
“Io volevo inserirmi, essere parte dell’attività economica dell’Italia (…) ci sono altre storie perché come me ci sono tantissime persone che non soltanto stanno aspettando il mangiare, stiamo aspettando l’opportunità di inserirci nella società”.
“Io vorrei inserirmi nella comunità per dare qualcosa. L’autostima è quello, vivere e prendere solo aiuto, ricevere dall’altro, questo ti da dell’amaro di essere sempre in attesa di uno che ti aiuta, che ti dà qualcosa da mangiare. Non è questa la vita, una vita normale, per un padre, deve avere una dignità, alzare la testa, andare per strada e dire “sono come voi”, faccio il mio dovere e ho il mio diritto. Avere l’autostima, questo è molto importante. Ma dipende anche dagli altri come ti vedono. Io alcune volte mi metto nei panni degli altri dico, se in azienda arriva un rifugiato, ti vede prima come un problema. L’idea generale dei rifugiati è problema, ignoranza, chiedere tanto, sfruttare… tante cose negative. Ma noi siamo anche una risorsa”.
Assumere un ruolo proattivo, veicolato dal lavoro ha a che fare con il processo di soggettivazione descritta da Pierre Roche (2007) come un processo attraverso il quale l’individuo giunge ad occupare un posto “altro” rispetto a quello che gli è assegnato socialmente ed istituzionalmente. Questa emancipazione attiene da un lato, come abbiamo visto, ad una storia familiare, dall’altro ad un’identità assegnata nel Paese di arrivo, costruita dall’ immaginario rispetto al ruolo sociale del rifugiato.
4.2 “Un posto nel mondo”
Nelle autorappresentazioni di chi espatria, il lavoro è il terreno su cui spesso si giocano e si misurano le proprie fortune e progetti di vita, la propria “posizione nel mondo” e anche la propria identità (Freeman 2001).
In alcuni casi, il lavoro non rappresenta solo la possibilità di occupare un posto, una posizione lavorativa, ma di creare uno spazio esistenziale prima non pensato, non dato.
«Io questo lavoro non lo sto facendo per soldi, io lo sto facendo per il futuro, un giorno io, quello che sto facendo adesso sarà utile per me”, perché io lo so quello che ho passato».
La storia del giovane S. è eloquente a questo proposito. Nel suo trascorso, S. viene disconosciuto, non esiste più formalmente né per lo Stato, né per la famiglia. Nel suo racconto testimonia come il lavoro non sia stato solo ‘contenitore identitario’ ma ‘possibilità di esistenza al mondo’, di essere visti, essere riconosciuti ed ‘ex-istere’.
“Ci sono molte cose che spingono una persona a lasciare il suo Paese, alcune cose fondamentali, che una persona quando arriva un momento vuole dimenticare per andare avanti. Per me è solo quello. Oppure puoi uscire per lavoro. Ma per me non era per lavoro, perché avevo 15 anni, non era per lavoro (…) Mia madre e mio padre hanno lo stesso cognome, così il matrimonio si è potuto fare facilmente. Dopo però mio padre ha sposato un’altra donna con la quale ha fatto il matrimonio legale. Questo quando tu lo fai da noi, lo Stato lo sa che hai una donna ufficiale. Quando mio padre è morto lei ha preso tutto e io non ero riconosciuto. Prima non c’era una legge per cui non eri riconosciuto (…) Anche se hai il cognome di tuo padre, per la legge non esisti. Perché la mamma non è stata sposata».
Nell’ approcciarsi all’esperienza lavorativa, S. “scopre” di poter esistere in un modo inatteso, di poter avere quello che definisce ‘un posto nel mondo’.
«Non ho dormito per la contentezza perché mi sono reso conto che anche io potevo fare qualche cosa e che c’era un posto nel mondo anche per me’. Quando lavoravo non sapevo davvero. Io non credevo che avrei potuto fare questo lavoro. Quando sono entrato dentro l’azienda ho visto che avevo l’opportunità di fare tutto ciò che voglio (…)
Non avevo un obiettivo. Quando sono arrivato, ho visto le cose, ho pensato che non potevo fare niente, non ho la capacità di fare niente perché non sono andato a scuola, non sapevo che dovevo fare. Solo che quando sono arrivato qui a Roma e sono andato un po’ a scuola, dopo posso dire che ho fatto tutto anche per diventare maggiorenne (…)
Quello che ho imparato è questo: prima di iniziare questo corso, non c’era luce nella mia vita, nel senso che c’erano tante cose ma quando è iniziato questo è arrivata una luce”.
Conclusioni
“Quando ero piccola facevamo i film come i bambini, come il teatro, “questo è papà, questa è mamma”, giravamo dei filmi per giocare, così ho visto che mi interessava. La passione è nata quando ero bambina perché abbiamo vissuto una vita giocando in questo ruolo. Sono cresciuta e per fortuna ho incontrato un produttore di cinematografia quando sono andata in un negozio a stampare il mio progetto per la scuola (… ) usavamo una scatola bucata! Si chiude un occhio e facevamo finta di giocare al cinema (…) giocavamo ad inventare i film, per farci divertire”.
Uso questo frame di racconto di una ragazza intervistata per cogliere la metafora della ‘regia’ e spendere, in conclusione, un pensiero su come il modello gruppoanalitico abbia influenzato il modo di interrogare un tema, di questionarlo, e come, tutt’ora, orienti la pratica professionale dello psicologo clinico, in questo contesto declinata nella funzione dell’orientamento al lavoro di persone migranti.
Il lavoro di orientamento si configura infatti, in questo contesto, non solo come la ricerca di “coerenza” tra formazione, esperienze passate e future, come possibilità di un match tra domanda del mercato del lavoro e competenze tecniche, ma come vero e proprio spazio narrativo e di accompagnamento in cui la simbolopoiesi, l’articolazione tra Idem e Autòs si esprime nella possibilità di ri/scrivere il copione della metafora familiare, della propria storia passata, facendo il salto da attore a regista (Lo Verso, Di Blasi, 2015).
Per lo psicologo, ripensare entro questo spazio di confronto le proprie rappresentazioni rispetto ai costrutti di “lavoro”, “accompagnamento”, “inserimento”, “migrazione”, costruiti a partire dal prisma della propria identità professionale ha permesso non solo di confrontarle, ma di rinarrarle e di confortarsi con l’estraneità. Estraneità non solo rispetto all’utenza ed al cliente quindi ma anche rispetto alla propria identità professionale, un’estraneità che non ha a che fare con le appartenenze geografiche, ma con la possibilità di destrutturare le proprie categorie, rimetterle in discussione. L’ “estraneo” qui non è considerato solo come colui che non si conosce, (Carli, 2005). L’estraneità comporta una dura lotta con gli stereotipi, le conoscenze non fondate sullo scambio comunicativo, i pregiudizi, le anticipazioni di ruolo, i giochi di appartenenza, le credenze istituite, i legami fondati su condivisioni implicite di ideologie (Carli, 2003).
Accettare la complessità emozionale della relazione significa abbandonare le certezze tecniche, le certezze delle idee chiare e distinte, avventurandosi così nell’ambiguità emozionale (Carli e Paniccia, 2011) per lasciare spazio alla creazione, all’invento (Di Maria, 1992).
Questa competenza è risultata essere essenziale nel lavoro di orientamento in quanto condizione per la creazione di spazi che permettano alla persona di emergere; non solo dare spazio di ascolto, quindi, ma creare spazio di narrazione generativa (Montesarchio, Venuleo, 2011). Narrazione generativa può essere definita come la possibilità per il soggetto di riorganizzare diversamente e nuovamente riproporre una storia di sé: il prodotto dello scambio/negoziazione tra i soggetti appartenenti ad uno stesso ambito sociale, che si qualifica quale rete di significati orientanti entro uno specifico contesto di vita. La narrazione da un lato è generata dal discorso e, dall’altro, è generativa in quanto si pone quale intermediaria dell’acquisizione di ulteriore conoscenza e sviluppo degli schemi interpretativi dei soggetti. La narrazione generativa è per un possibile modo di descrivere il prodotto del colloquio psicologico clinico (Montesarchio e Venuleo, 2009; 2011) e può essere definita come la possibilità per l’altro, per il cliente di riorganizzare diversamente e nuovamente riproporre una storia di sé che, rispetto a quella proposta all’inizio per motivare la domanda ed il pretesto di incontro. Alla stessa stregua, in questo contesto ha significato per le persone migranti, la possibilità di proporre e costruire nuove storie di sé e su di sé.
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L’autrice
Roberta Baldi: Psicologa clinica e psicoterapeuta gruppoanalista. Ha conseguito in Francia il titolo di psicosociologa. Attualmente collabora con diverse organizzazioni ed ONG nell’ambito delle migrazioni e dell’orientamento lavorativo.
[1] Quadrio, Magrin , (2005) L’esperienza lavorativa degli immigrati come processo transculturale di ridefinizione e consolidamento dell’identità, in Identità e cambiamento