A cura di Federica Aloi e Antonella Colazzo
Abstract
Con il presente contributo si desidera proporre una riflessione sul tema della supervisione clinica contestualizzata all’interno della cornice pandemica emergenziale causata dalla diffusione del Covid-19 a partire da Marzo 2020. Le restrizioni previste hanno obbligato la figura dello psicologo a ripensare, entro confini e setting diversi, le modalità di attuazione della prassi clinica. Il medesimo processo si è attivato nelle istituzioni formative, come la scuola di specializzazione in psicoterapia gruppoanalitica ITER, all’interno della quale si colgono le premesse del presente elaborato. Quest’ultimo prende spunto, nello specifico, dall’esperienza di un gruppo di supervisione costituito da specializzandi di terzo e quarto anno che, attraverso i casi portati, ci hanno permesso di sviluppare un pensiero sulle dinamiche agite in relazione al cambiamento imprevisto, attivato da una modifica di setting necessaria per rispettare le norme di distanziamento fisico e di cogliere l’opportunità di riflettere sul distanziamento sociale come configurazione delle resistenze poste in atto all’interno della relazione terapeutica.
Parole chiave: Supervisione, cambio di setting, covid-19, resoconto, gruppi
Il lavoro che ci accingiamo a presentare è essenzialmente il racconto di un’esperienza, una narrazione, che, come ci insegna la gruppoanalisi, è strumento fondamentale per fare memoria e costruire la storia a cui si partecipa. Il potere della narrazione sta proprio nel suo essere “generativa” di senso e significati, e nell’aprire spazi di ragionamento su quanto accade nella realtà circostante: la narrazione non svela la realtà, ma la costruisce ed orienta le azioni da fare al suo interno.
Con Montesarchio e Venuleo (2009) definiamo la narrazione generativa come il prodotto dello scambio/negoziazione tra i soggetti appartenenti a uno stesso ambito sociale, che si qualifica come rete di significati orientati entro uno specifico contesto di vita.
Ci sono narrazioni che restituiscono agli eventi un tempo, uno spazio, insomma un contesto, consentendo agli eventi non di essere dimenticati, ma utilizzati, compresi nel valore che possono avere nel presente. “Ri-narrare” vuol dire quindi darsi la possibilità di pensare ciò che accade, di riorganizzare e riproporre storie nuove, diverse e plurali, da cui si generano nuove prospettive e punti di vista; significa aprirsi all’esperienza dello scambio, a riconoscere l’altro nella sua autonomia e differenziazione da sé, e quindi riconoscere la pluralità dei mondi di significato. Attraverso la ri-narrazione è possibile guardare ad uno specifico episodio, o ad una più complessa fase di vita, mediante nuovi punti di vista e nuovi contributi, che non negano necessariamente quelli precedenti in una logica o/o, ma ne forniscono di nuovi e diversi – consentendo di uscire dalla dicotomia saturante – che sono il prodotto delle relazioni e di molteplici letture del contesto. Proprio perché “fuori dalla relazione e senza contesto, l’evento non ha significato, e il passato è un fardello di cui nel migliore dei casi non si sa che farsene.” (Montesarchio, Venuleo, 2009).
Queste le premesse da cui partire per dare senso a questa ri-narrazione, che ha l’obiettivo (forse ambizioso) di generare ulteriori spazi di pensiero per riflettere sul periodo sui generis di pandemia globale che il mondo ha vissuto in quest’ultimo anno e continua a vivere. E per fare ciò sembra necessario partire dalla nostra esperienza gruppale, ri-narrando quanto esperito dagli specializzandi di un gruppo di supervisione della Scuola di specializzazione ITER.
Ci sembra importante precisare che l’obiettivo organizzativo dello spazio di supervisione è quello di sviluppare un’attenzione sulle dinamiche collusive. In primo luogo, quelle messe in atto nel rapporto tra specializzando e cliente, ma soprattutto quelle giocate nella stessa relazione di supervisione.
Attenzione alle dinamiche collusive che si esplica nella funzione di chi è chiamato a svolgere la competenza di supervisione nella relazione con chi sta analizzando la domanda: ovvero chiedersi qual è la domanda proposta dal collega e non colludere con le richieste agite di aiuto e controllo, ma esplicitare, all’interno della relazione, le modalità di espressione di tale dinamica, per renderla pensabile.
2. Come, cosa e perché
Il presente elaborato si sviluppa a partire dalle riflessioni maturate entro un contesto di supervisione gruppale in cui la discussione si avvia a partire dai resoconti proposti dagli allievi. La supervisione in questione è stata svolta da remoto, da un gruppo di specializzandi di terzo e quarto anno della Scuola di specializzazione in psicoterapia gruppoanalitica ITER.
L’aspetto corale della supervisione gruppoanaliticamente orientata permette di farsi una domanda e dunque di sollecitare una riflessione sulle modalità che stiamo portando all’attenzione del gruppo e sulla loro funzionalità o disfunzionalità, sulla loro capacità di aprire e non chiudere, sulla possibilità di considerare nuove prospettive grazie allo scambio che si genera nella discussione di gruppo.
La scelta di usare il gruppo come strumento generativo della supervisione risiede nell’intenzione di creare uno spazio di analisi della domanda gruppale dove il caso portato serva come stimolo e pre-testo per analizzare le domande formative e riflettere sulle specificità del modello proposto (Grasso, Montesarchio, 1993).
Montesarchio G. e Venuleo C., nell’articolo A lezione da Fornari (2006), indicano che:
“ il compito del gruppo di supervisione è quello di facilitare la costruzione di categorie per leggere l’esperienza e quanto avviene entro il rapporto nel qui ed ora e formare a competenze trasversali di autodiagnosi, relazione, confronto, che consentano di individuare/ripensare il percorso più idoneo al proprio progetto di formazione e di intervento, attraverso una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie emozioni, delle proprie motivazioni ma anche delle relazioni e dei contesti istituzionali in cui sono inserite” (p. 6).
Nella supervisione di e attraverso il gruppo, che si svolge all’interno della ITER, si ha la possibilità di portare un caso che, utilizzato a pretesto, attiva, e dunque rende osservabili e passibili di ulteriore riflessione, le diverse dinamiche relazionali che ogni membro del gruppo sperimenta nei propri contesti di attivazione professionale, che a loro volta sono portatrici della domanda formativa di cui ognuno si fa carico rispetto all’istituzione Scuola di psicoterapia.
Il gruppo di supervisione utilizza come strumento il resoconto. Resocontare permette di rintracciare i diversi livelli di narrazione: la “narrazione alla seconda” è costituita dal resoconto del caso portato dal formando; la “narrazione alla terza” si definisce come resoconto del resoconto e riporta le narrazioni e gli spunti di riflessione che il caso ha generato nello scambio gruppale; la “narrazione alla quarta” si definisce invece come resoconto dei resoconti poiché rappresenta una metanarrazione dell’insieme delle storie portate, rintracciando i temi centrali, palesi o latenti, che attraversano le comunicazioni e quanto avvenuto nel qui ed ora del contesto gruppale.
Questi dispositivi permettono al formando di spostare la propria riflessione clinica da un piano personale a un piano gruppale in cui riuscire a rintracciare come i propri contenuti e i propri vissuti siano parte del processo di funzionamento del gruppo.
Proprio il resoconto alla quarta della giornata di supervisione, svolta durante il mese di aprile 2020, è stato generativo rispetto alla possibilità di fare un pensiero su come il periodo di quarantena, causato dalla pandemia Covid-19, abbia attivato cambiamenti e resistenze laddove è stato necessario ripensare l’esercizio della pratica clinica.
Il periodo in cui, causa Covid-19, è stato necessario ripensare le modalità di lavoro è stato un attivatore per il gruppo di supervisione che, cogliendo la possibilità di ri-pensarsi, ha potuto aprire anche nuovi spazi di pensiero e approfondimento sulle direzioni che il setting di gruppo, nella sua valenza dinamica, ha percorso.
3. Ma soprattutto quando…
Nel 1948 Foulkes afferma:
“La vita è una totalità complessa. Solo artificialmente essa può essere divisa in parti, analizzata. L’organismo sano funziona come una totalità e può essere descritto come un sistema in equilibrio dinamico. Dinamico significa che non è mai in uno stato di riposo, deve costantemente adattarsi in modo attivo alle circostanze che cambiano costantemente, all’ambiente e alle condizioni in cui vive.” (Foulkes,1948; trad. it 1991, P. 3)
Sergio Salvatore (2004) sottolinea quanto sia fondamentale l’elemento contestuale nell’esercizio della competenza psicologico clinica, poiché il contesto rappresenta la cornice di senso emergente dall’interpretazione intersoggettiva della situazione.
Il lavoro di supervisione clinica in questione si situa in un contesto di pandemia globale che ha costretto gran parte della popolazione nelle proprie case, impossibilitandoci nel contatto con l’altro, non solo sul piano fisico ma soprattutto intaccando la sfera sociale ed affettiva.
È stata più volte evidenziata dalla letteratura clinica l’importanza del contatto e della vicinanza nella formazione delle più basilari funzioni vitali, delle capacità affettive e relazionali degli individui, dimostrando come la loro mancanza possa comportare strutturazioni disfunzionali della personalità e nel funzionamento sociale. Ricordiamo le ricerche di Spitz nella prima metà del 900 che, attraverso la depressione anaclitica sviluppata dai neonati privi del contatto materno, mettevano in luce la necessità delle interazioni sociali nello sviluppo dei bambini. E ancora gli studi degli anni 60 di Harlow condotti in laboratorio su cuccioli di macao, che tendevano naturalmente alla ricerca del calore e del contatto con i propri simili, in misura maggiore rispetto alla ricerca di cibo.
Su questa scia, durante il lockdown sono state proposte diverse interpretazioni delle ripercussioni del distanziamento sociale sugli individui, soprattutto per quanto riguarda l’impossibilità di toccare l’altro, di percepirne il calore corporeo. Il contatto pelle a pelle stimola il nostro cervello, inducendo sensazioni di benessere, proteggendo il nostro sistema immunitario. Quella che è stata chiamata “fame di pelle” (Medde, 2020) influenza il nostro tono dell’umore, ma anche il rapporto con il cibo e il ritmo del sonno.
La variegata produzione teorico psicologica pubblicata negli ultimi mesi e, non da meno, il nostro lavoro nei contesti clinici e non a cui facciamo riferimento nell’ambito di supervisione ci hanno dato modo di riflettere sulle ripercussioni che tali stravolgimenti hanno potuto causare sulle dinamiche relazionali e di quanto effettivamente la “mancanza del corpo” abbia generato sentimenti di rabbia, frustrazione e impotenza difficili da gestire sia nei contesti personali che professionali. E, ci sembra importante sottolinearlo, non solo da parte dei clienti/utenti, ma anche nei terapeuti specializzandi, che portano i loro vissuti di smarrimento davanti allo stravolgimento di quello che è solitamente il frame metodologico entro cui ci muoviamo, non solo nell’ambito della pratica clinica, ma anche durante lo spazio di supervisione.
Il modello teorico a cui facciamo riferimento posa le sue premesse a partire dalla comprensione delle dinamiche relazionali, portate dal cliente e giocate nel rapporto con il terapeuta, che i formandi della scuola imparano a riconoscere per non attivare processi simmetrici e collusivi, nella ricerca di una “soluzione” o di una risposta alla domanda “come si fa?”, ma piuttosto costruendo narrazioni altre, che permettono nuove prospettive.
I professionisti a cui si fa riferimento in questa sede sono, nello specifico, gli psicoterapeuti in formazione del III e IV anno della Scuola di psicoterapia gruppoanalitica ITER, nello spazio di supervisione clinica offerto dalla scuola, in cui gli allievi possono discutere dei loro casi rileggendoli attraverso il gruppo portando il vissuto e manifestando le dinamiche relazionali giocate nello spazio terapeutico.
Sembra utile evidenziare quanto possa essere insita nella domanda di formazione, la fantasia di poter rispondere al “come si fa”, che si esplica anche nella ricerca di ancoraggi e punti di riferimento teorici e rassicuranti, che spesso però saturano la possibilità di aprire lo sguardo e leggere, attraverso la relazione presente con il cliente, ciò che sta effettivamente accadendo nel qui ed ora della terapia.
Cosa succede dunque quando il contesto più ampio pone davanti alla nostra pratica clinica e formativa un dato di realtà non ignorabile, ma pervasivo e stravolgente delle nostre abitudini e modalità relazionali? Un dato di realtà che impone di rileggere la presenza dei corpi, l’investimento relazionale, le difese messe in campo, ma che soprattutto esige la rinegoziazione dei setting.
Succede, tra le altre cose, che la possibilità di ancorarsi a quei punti di riferimento si allontani e che le incertezze su quanto andiamo a fare aumentino, facendoci sperimentare impotenza e incapacità di fornire setting protettivi e sufficientemente contenitivi. La modalità online che ha permesso di mantenere, in un certo qual modo, i contatti e gli scambi, ci ha resi immobili, relegando i differenti spazi di vita ad uno unico, non sempre privato o rassicurante.
La prima rinegoziazione di setting che è necessario evidenziare riguarda proprio lo spazio di formazione, svoltasi attraverso uno scambio di mail che ha interessato tutti i componenti della scuola, con diversi gradi di partecipazione. Già i mesi precedenti avevano visto gli allievi impegnati nella produzione di resoconti gruppali, attraverso scambi da remoto, per aprire spazi di ragionamento sulla supervisione all’interno della scuola, e sulle dinamiche di formazione e confronto tra formatori e formandi.
È stato possibile notare come l’incertezza, che prende sempre più spazio nelle nostre vite in questo periodo storico, abbia fortemente caratterizzato anche il processo di cambiamento del setting, determinando nel gruppo dei formandi l’attivazione di differenti dinamiche nel relazionarsi anche con la costruzione di una domanda formativa.
Le dinamiche giocate nel gruppo in formazione ci hanno dato modo di osservare uno spaccato delle reazioni e modalità relazionali agite davanti al venire meno dei punti fermi, come le stesse giornate di formazione in presenza, e all’impossibilità dell’istituzione formativa di garantire quell’organizzazione che per gli specializzandi è, in un certo qual modo, “data”. Si è trattato di ridefinire insieme le possibilità di incontro con nuove modalità, navigando tutti, formatori e formandi, a vista in una situazione sconosciuta, che in un certo senso ha accorciato le distanze tra allievi e docenti. La relazione con l’incerto ha messo in discussione la dinamica adempitiva attraverso la quale molti formandi formulano, pensano e agiscono la domanda formativa nei confronti dell’istituzione scuola di specializzazione. Questa rottura ha generato l’attivazione di ruoli diversi, per cui alcuni hanno visto l’opportunità di riformulare il proprio rapporto con la scuola in una modalità attiva nella negoziazione del nuovo setting da co-costruire insieme all’istituzione-scuola, (anch’essa immersa nell’incertezza), mentre un’altra parte si è cristallizzata su una posizione passiva e adempitiva rimandando all’istituzione la funzione decisionale di definire spazi, tempi e modalità. Sembra interessante quindi, mettere qui in luce, come le reazioni dei formandi si siano situate su due polarizzazioni opposte ma complementari: delega e controllo. Sono emersi aspetti deleganti, come parti del gruppo dei formandi quasi “addormentate” nel demandare gli aspetti istituzionali alla direzione, ponendosi in una posizione passiva; contrapposta invece alla posizione di altre parti del gruppo più attive che, si può dire in senso lato, hanno giocato il ruolo di “controllori”, nella misura in cui dove una parte delega, l’altra sente la necessità di controllare.
Prendendo spunto dalla teoria delle neo-emozioni di Carli e Paniccia (2003), il controllo si attiverebbe nel momento in cui viene a mancare la certezza della relazione; quindi se una parte del gruppo non partecipa alla relazione nella ricostruzione del setting, bensì delega all’altro tutto il processo decisionale, e quindi anche il potere, l’altra parte si sentirebbe “costretta” a farsi carico anche del lavoro delle parti assenti, agendo quindi maggiore controllo.
In maniera diversamente partecipata dunque, concordando modalità e “tecnicismi”, e con normali difficoltà nella creazione di un nuovo setting, ha preso avvio la supervisione in modalità virtuale.
4. A proposito di una giornata di supervisione…
I casi portati durante la supervisione ruotano, non a caso, attorno a questioni di setting, alle sue regole, alla sua negoziazione. Emerge forte la necessità di trovare punti fermi a cui ancorarsi, a regole e metodologie, per sentirsi meno smarriti in questo momento di incertezza. La domanda che pervade il gruppo è “che cosa stiamo facendo?”
Gli spunti portati interrogano il gruppo sulle “capacità” delle video-relazioni e offrono l’occasione per rinarrarsi e rinarrare il nostro lavoro ai tempi del COVID-19. Emerge la frustrazione nel percepire la grande assenza del corpo, dove questa implica la difficoltà ad accedere al non verbale dell’altro e ad entrare in connessione con l’altro. Questa insofferenza che percepiamo però non sembra estendersi a tutti. Come viene messo in luce dal lavoro terapeutico di questi mesi, alcuni clienti mostrano un vissuto differente, di comodità e maggior tranquillità legate alla possibilità di vivere queste relazioni da remoto, funzionali a mantenere la distanza, dove l’assenza del corpo permette anche una minor implicazione all’interno dello scambio con l’altro, veicolando la sensazione di poter esercitare un maggiore controllo sulle relazioni. Ma è davvero così? E come questo vissuto parla della relazione tra cliente e terapeuta? Vediamo come in alcuni casi la provocazione di interrompere la terapia possa essere uno strumento per rimandare all’altro che qualcosa non sta funzionando, che è necessario uscire dalle dinamiche stagnanti, in qualche modo troppo comode. Non per tirarsi indietro, ma piuttosto per non lasciarsi entrambi invischiare in loop improduttivi e masturbatori, rilanciando all’altro la possibilità di intraprendere una dinamica nuova, con una nuova narrazione di sé.
Anche il mondo onirico dei clienti, che si ritrovano scoperti, vulnerabili, con corazze scassate o pareti invisibili, ci parla di quando possa essere intensa la paura che le proprie parti, soprattutto quelle “scassate”, che causano vergogna, possano essere viste dagli altri, tra cui il terapeuta. E le nostre di parti più visibili?
Le video-relazioni ci permettono di entrare nelle case dei clienti, ma al contempo mostrano anche parti delle nostre case: quanto è necessario oscurarle o neutralizzarle ai fini della relazione terapeutica?
Il disorientamento sperimentato in questa nuova situazione dirige e focalizza il pensiero del gruppo sulle ansie e incertezze che il cambiamento del setting produce. Ora più che mai è messa in luce la necessità di pensare la situazione per contestualizzare il tipo di servizio erogato.
E la rinegoziazione del setting nella situazione emergenziale sembra chiederci una certa flessibilità metodologica, e in qualche modo di mettere in discussione alcune forme di ortodossia di tradizione psicoanalitica. Il dato di realtà irrompe e invade lo spazio terapeutico spingendoci a riflettere sul senso del lavoro clinico in questo momento. Si tratta sempre di psicoterapia? O è piuttosto un contenimento? Alla luce di ciò, per leggere le dinamiche giocate, è necessario stare nella relazione col cliente, e osservare come le resistenze già esistenti, ora si trasformino, senza trascurare l’enorme dato di realtà che caratterizza gli scambi attuali. Il gruppo sembra spaventato dall’avvento di un futuro non troppo distopico, dato che le terapie online sono già presenti, ma ci si muove con diffidenza tra le nuove forme di comunicazione che le persone potrebbero preferire in virtù della comodità e a discapito della presenza. Ma è possibile che il lavoro clinico prescinda dalla presenza? Siamo invitati a riflettere sulla necessità di partire da noi stessi, dal nostro modello, che è quello gruppoanalitico, per instaurare la relazione terapeutica. Starà poi al cliente accettare la nostra proposta relazionale rispetto al setting, o eventualmente scegliere la soluzione che preferirà. Nostro compito rimane riflettere sulle dinamiche giocate nella relazione e portate dall’altro per evitare di colludere rispondendo con modalità simili a quelle proposte dal cliente. Per non cadere nella dinamica manipolativa e di urgenza che ingabbia il cliente stesso nelle sue relazioni, riproponendo il mantenimento di uno status quo, per rimandare lo sviluppo di modalità più funzionali, meno invischiate e più autonome. La relazione con clienti manipolativi che basano il rapporto sull’urgenza, sul bisogno immediato di contenimento, magari per contenere a loro volta le intrusioni esterne, provoca rabbia e senso di svalutazione nel terapeuta; se non pensate queste, finiscono con l’essere agite, avanzando maggiore disponibilità, tentando di soddisfare l’urgenza, nella fantasia collusiva di poter così contenere le intrusioni. Darsi la possibilità di pensare le emozioni controtransferali nello spazio di supervisione, senza censurare quelle più spiacevoli, da modo dunque di rivedere la proposta relazionale e ripensare le regole del gioco messe in campo, nell’ottica di sviluppare dinamiche più funzionali e uscire dalla rete delle matrici sature.
Reti che ci incastrano e bloccano il nostro lavoro, perché non permettono di pensarlo, né di ripensarlo alla luce degli stravolgimenti di setting relativi al periodo che stiamo vivendo. È il caso di terapie dove le narrazioni sono sempre statiche e ripetitive, o di organizzazioni così rigide e strutturate da immobilizzare qualsiasi spinta verso l’evoluzione.
La modalità virtuale e le problematiche che porta con sé, danno inoltre la sensazione di non riuscire ad offrire un setting protetto, efficace, che non faccia imbrigliare nella rete del “come si fa”, nel loop di lamentele sterili, in cui è faticoso ripensarsi e desaturare le narrazioni.
Vediamo infatti come in alcune situazioni di povertà narrativa, in cui a fatica si esce dal circolo vizioso dei racconti immobili e sterili, l’attenzione al non verbale è fondamentale per costruire una relazione terapeutica. Con l’assenza del corpo però, che spesso rimane fuori dall’inquadratura virtuale a cui ha accesso il terapeuta, le piccole conquiste fanno passi indietro, e in diversi casi si rimettono le dinamiche relazionali su un piano di delega e reiterazione.
Compito del terapeuta che si interfaccia con tale povertà narrativa può essere fornire strumenti al cliente per imparare a costruire nuove relazioni, partendo da una nuova narrazione di sé. Il modello gruppoanalitico basa il cambiamento sulla possibilità di costruire nuove narrazioni e quindi diverse rappresentazioni di sé; e il compito del terapeuta può essere quello di stimolare nuove modalità che il cliente ha di raccontarsi, anche per non cadere in dinamiche che mirano a trovare una soluzione, una risposta al “come si fa”.
La “soluzione” è quello che si cerca anche per ciò che riguarda il lavoro all’interno di organizzazioni sature, dove la difficoltà di costruire un pensiero su quanto si sta facendo ci spinge a cercare ancoraggi a criteri per orientare il lavoro clinico verso il benessere degli utenti.
Come porsi nei confronti di utenti con enormi vissuti abbandonici e rabbiosi legati alla presenza di figure genitoriali instabili e indifferenti? Come fare a riempire il vuoto lasciato dalla mancanza di padri-contenitori quando anche la struttura che li ospita non si pone come contenitore sufficientemente efficace soprattutto per le emozioni più difficili e distruttive? Ma soprattutto, come si gestisce l’impotenza nel sentire di non poter essere efficaci in quella relazione?
Anche qui l’obiettivo può essere quello di veicolare all’altro nuovi modi di narrarsi, di dargli la possibilità di “fare memoria”, nell’ottica di conquistare sempre più pezzetti di autonomia e combattere la paura dell’annullamento cambiando prospettiva.
Conclusioni
Le particolari contingenze rispetto alle quali il gruppo di supervisione ha dovuto organizzare le proprie modalità di svolgimento hanno messo in luce quale sia lo spazio di movimento che lo psicologo ha di ri-organizzare e ri-negoziare le regole del setting terapeutico come contenitore della pratica clinica. Centrali in questo senso sono il tema della collusione, intesa come fantasia prevalente che organizza la relazione, e la competenza psicologico-clinica a sviluppare un pensiero su. La competenza dello psicologo si definisce sulla base della scelta del modello, la riflessione sul setting e sulle dinamiche collusive che lo organizzano. Su queste basi lo psicologo ha la possibilità di aprire spazi di pensiero.
In tal senso, il gruppo di supervisione, ha colto l’opportunità di riflettere sul distanziamento sociale non solo come vissuto interno, ma anche come aspetto reale delle relazioni sociali, ponendo in luce come la fobia sociale, di cui tanto si è parlato, possa rappresentare per noi psicologi un aspetto interessante su cui lavorare se la consideriamo come la configurazione principale che hanno, in questo periodo, le resistenze poste in atto nella relazione terapeutica. Tale dinamica si è potuta osservare ricorsivamente nei casi portati in supervisione durante il periodo del lockdown, permettendo di notare come le restrizioni imposte abbiano generato una molteplicità di risposte e reazioni differenti, alcune più e altre meno, adattive al contesto.
Bibliografia
Carli, R., & Paniccia, R.M., (2003). Analisi della domanda. Bologna: il Mulino.
Foulkes, S.H. (1948). Introduction to group-analytic psychotherapy. London: Heinemann (trad. it. Introduzione alla psicoterapia gruppoanalitica, Roma: EUR, 1991).
Grasso, M., & Montesarchio, G. (1993). Dalla supervisione all’attenzione per le dinamiche collusive. Appunti su un’esperienza di formazione clinica di gruppo. In R. Carli (a cura di), L’analisi della domanda in psicologia clinica (pp 157-169), Milano:Giuffrè.
Montesarchio, G., & Venuleo, C. (2006). A lezione da Fornari. Psicologia scolastica, 4 (3), 217-244.
Montesarchio, G., & Venuleo, C. (2009). Colloquio magistrale. La narrazione generativa. Milano: Franco Angeli
Montesarchio, G., & Venuleo, C. (2011). Verso una Clinica Operativa: La Ri/Narrazione-Generativa. Psicologia di comunità, n. 1/2011, 103-115
Salvatore, S. (2004). Inconscio e discorso. L’inconscio come discorso. In M. B. Ligorio (a cura di), Psicologia e Cultura: Contesti, Identità ed Interventi. Roma: Edizioni Carlo Amore.
Le autrici
Federica Aloi: Psicologa Clinica laureata all’Università La Sapienza e psicoterapeuta specializzanda presso la scuola gruppoanalitica ITER. Vice coordinatrice di un centro antiviolenza del Municipio di Roma, esperta in contrasto alla violenza di genere. Formatrice in ambito scolastico e penitenziario
Antonella Colazzo: Psicologa Clinica e psicoterapeuta specializzanda presso la scuola gruppoanalitica ITER. Esperienza maturata in ambito psichiatrico, di sostegno alla genitorialità, con adolescenti e utilizzo di test di valutazione delle competenze genitoriali nei percorsi di affidamento e/o adozione.