GLI PSICOLOGI TRA RELAZIONI, CONTESTI E NARRAZIONI
A cura di Giuseppina Ruggieri e Marialaura Gargano
Abstract
La pandemia e la guerra in Ucraina rappresentano condizioni emergenziali che attivano percorsi psichici di grande portata. Si tratta infatti di eventi drammatici, presieduti e sostenuti da narrazioni e metafore che accompagnano i nostri vissuti. Affrontare queste due tematiche, può sembrare azzardato e, per certi versi, impossibile, considerando la specificità dei fenomeni e i diversi scenari implicati. Adottando un’ottica gruppoanalitica però, è possibile cogliere nessi e legami, non tanto nella concretezza degli eventi, quanto nella trama narrativa. Il vertice gruppoanalitico ci consente, infatti, di aprire interrogativi importanti sul ruolo della funzione psicologica nella narrazione pubblica, diffusa nell’attuale contesto emergenziale. Nello stesso tempo, entrando nel merito delle implicazioni nella comunità relative allo stato di emergenza costante, questo approccio può rappresentare per gli psicologi l’opportunità di promuovere ambiti di riflessione, offrendo così non solo azioni ed interventi indirizzati alla “cura” riparativa prevalentemente individuale, ma anche “spazi di pensabilità” nel contesto sociale complessivo per contribuire a “prendersi cura” della comunità nel suo insieme.
Parole chiave: Narrazione, emergenza, contesto, gruppoanalisi
È una guerra. Siamo in guerra. Combattiamo. Dobbiamo vincere il nemico. Da oltre due anni viviamo immersi in un clima di emergenza continua e di terrore che, come una morsa, si interseca alle nostre vite attraverso due fenomeni complessi e dalle narrazioni correlate. Il Covid e la guerra in Ucraina rappresentano, infatti, gli eventi con cui abbiamo e dobbiamo “fare i conti” da molteplici punti di vista. La pandemia ha scosso gli equilibri mondiali investendo e imponendo radicali modifiche nel tessuto sociale, economico, politico. Nondimeno, ha comportato rilevanti implicazioni nella sfera psichica, emotiva e relazionale, colpendo al cuore gli affetti e l’equilibrio psichico di ognuno di noi. Immagini di sofferenza, fatica, sacrificio e vissuti di perdita, incertezza, paura si sono intrecciati costantemente a sentimenti di unione, forza e solidarietà fino all’esplosione di rabbia ed agiti in direzione opposta. Il trauma, evocato, richiamato a più voci è un termine diventato d’uso comune e, molto spesso, parte integrante dei vissuti interiori di molti, con connotazioni diverse nei vari momenti e nelle varie epoche della vita. Fiumi di parole, analisi, “dati”, previsioni, hanno accompagnato le nostre giornate rappresentando il sottofondo narrativo per un’emergenza sanitaria, divenuta ben presto anche economica, sociale e psicologica a secondo del prevalere – o dell’accento posto – sui vari aspetti contingenti e le narrazioni considerate. La fase “post pandemia” fatica ad imporsi, nonostante il venir meno di molte restrizioni, forse perché il “nemico” circola ancora o anche perché tornare a un “pre” come se nulla fosse accaduto non è poi così scontato né probabilmente realistico, pur con tutte le negazioni possibili.
Prima di addentrarci nell’emergenza e nelle narrazioni che ne derivano, centrate sul virus o sulla guerra, occorre però fare un passo indietro e annodare i fili di una storia che tenta di farsi strada, di rie-mergere nel contesto mondiale, focalizzandosi sull’uomo coinvolto in situazioni estreme, sottolineando l’importanza di un sostegno qualificato non solo materiale ma anche psicologico.
2. Breve storia di un’ e-mergenza
La storia dell’umanità è ricca di conoscenze e riflessioni sui temi dei disastri e delle emergenze. «Il confronto con le forze della natura, la distruttività umana, l’inaffidabilità delle stesse tecnologie create dall’uomo[1] hanno permesso di accumulare saperi di ogni tipo sulle cause, i processi e gli esiti degli eventi devastanti ed improvvisi. Dal punto di vista umano, inoltre, ogni emergenza rappresenta un’intensa esperienza esistenziale, che scaturisce dall’incontro tra un evento inatteso e drammatico e alcune persone, che cercano di fronteggiarlo» (Sbattella, 2009, p. 9). La Protezione Civile Italiana considera «l’urgenza come una condizione improvvisa di danno o pericolo alle persone o cose, temporaneamente stabilizzata, tale per cui è indispensabile intervenire al più presto, ma nella quale vi è ancora il tempo perché l’intervento venga eseguito secondo la procedura più corretta e idonea. Qualsiasi indugio espone al pericolo di trasformare l’urgenza in emergenza» (De Felice, Colannino, 2003, p. 15).
Emergenza diventa dunque un’irruzione improvvisa di un caos all’interno del cosmos, un caos che destruttura profondamente quello che prima, fino ad un attimo prima, era un cosmos ordinato provocando una frattura nella continuità temporale, che sconvolge non solo i ruoli e le procedure, la capacità di reagire ed i saperi, ma anche i ritmi del quotidiano, le agende e le immagini del futuro. La parola emergenza, su questa strada, richiama al pericolo, al disastro, all’incontrollabile e sembra che la solo pronuncia, attivando uno stato di allarme, sia già in grado di crearla.
Se andiamo indietro nel tempo, alle origini del termine, ci rendiamo conto che il significato è mutato, in quanto gli eventi non sono interpretabili in maniera statica e definita una volta per tutte, ma vanno legati al modo in cui i soggetti interpretano e usano, dunque costruiscono, il proprio sistema di significati e anche la costruzione del/sul proprio mondo (Montesarchio, Venuelo, 2009). La parola emergenza indica: circostanza o eventualità imprevista, pericolosa; deriva dal latino emersus, – venire alla superficie dell’acqua, composto da e: fuori di e mergere: affondare, tuffare, «come movimento dinamico di portare alla luce, di venire a galla di cosa fatta, di venire allo scoperto» (Mancini, 2016, p. 53). I vocabolari italiani ne danno esempi fin dal Settecento, con il significato di “circostanza, per lo più seria, che interviene inaspettatamente”. Nel corso del tempo, poi, l’accezione è diventata quella di “urgente necessità, pericolo”, attestando così la forte influenza dell’analogo uso inglese “emergency”, allarme. L’accento sul pericolo imminente e la catastrofe possibile hanno posto in secondo piano, se non oscurato, la possibilità che ciò che affiora possa essere o portare sì una crisi, intesa come rottura di un ordine precedente, ma anche cambiamenti e trasformazioni. Le fragilità dell’uomo, delle sue opere e dei suoi saperi si confrontano sia con il Covid che con la guerra, a livello individuale e collettivo con forze obiettive e con fantasmi di morte, ingaggiando spesso impegnative battaglie, per la sopravvivenza fisica ed emotiva (Lavanco, 2003). «Nello stesso tempo, di fronte a scenari d’emergenza entrano in campo le risorse migliori dell’umanità, quali l’intelligenza previsionale, la capacità organizzativa, la solidarietà interpersonale» (Sbatella, 2009, p. 10). Basta osservare, in tal senso, la macchina organizzativa della solidarietà, che ha livello internazionale e nazionale si è messa in moto, repentinamente, per aiutare i profughi, donne e bambini ad attraversamento il confine geografico ma non solo, che ha caratterizzato le prime fasi della guerra in Ucraina.
3. Il linguaggio bellico come narrazione prevalente
Le catastrofi, più di ogni altro evento, hanno la capacità di far e-mergere il livello psico-sociale degli equilibri umani, il tessuto che lega in modo diffuso e profondo la mente del singolo alla mente della collettività (De Felice, Colannino, 2003). In questi momenti, le aree emergenti, «possono diventare occasione di riflessione e azione per un intero sistema di convivenza, nonché opportunità di attraversare cambiamenti alquanto profondi, alla ricerca di nuovi equilibri e di nuovi sviluppi di convivenze possibili» (Mancini, 2016, p. 53). «Infatti nella storia, disastri e catastrofi, sono stati motori di sviluppo culturale: sfidando l’intelligenza umana e gli assetti politici e organizzativi delle comunità, hanno suscitato discussioni e provocato il sorgere di nuovi campi del sapere» (Sbattella, 2009, p.10).
Usciamo dalla pandemia con enormi ferite individuali che probabilmente non stanno trovando un terreno condiviso per essere bonificate mentre, nel contempo, siamo spinti ad “entrare” in un altro scenario collettivo di combattenti e combattimenti. Lo smarrimento provocato dall’esplosione del Covid è stato schiacciato o ha trovato contenimento – seppur temporaneo – nelle limitazioni, nel distanziamento, nel tracciare realmente e psichicamente confini tra sani e malati, giovani e anziani, fragili e in salute, presenza e distanza: un dentro e fuori di movimenti psichici a fronte di un fermo generalizzato di attività. Molto si è detto e scritto sugli effetti derivanti dalle restrizioni che l’emergenza sanitaria ha provocato nella vita sociale, relazionale, lavorativa di individui, gruppi, organizzazioni, sistemi consolidati. Contenere il virus è stato l’imperativo categorico per combattere un “nemico” subdolo e foriero di angosce profonde. Contenere, dal latino continere (composto di cum “con” – “tenere”) indica frenare, reprimere, trattenere, ma anche comprendere in sé, racchiudere nel proprio interno. Questi verbi sono in un certo senso complementari e indicano processi, movimenti, passaggi, grovigli, circolarità, attraversamenti di pensieri, dolori, emozioni per poter essere in qualche modo trasformativi e generativi e necessitano, ovviamente, di un contesto in cui trovare spazio per declinarsi. Potremmo dire una narrazione dove il narrare è inteso come un processo di costruzione dei significati entro relazioni e contesti in cui le persone costruiscono il senso della loro esperienza.
Winnicott ha utilizzato il termine transizionale per ipotizzare che «la narrazione costituisca un’area intermedia di esperienza in cui contribuiscono sia la realtà interna che la realtà esterna, in cui codici consci, volti ad un’organizzazione coerente, articolata e differenziante dell’esperienza, convivono con codici inconsci volti ad un’assimilazione affettiva dell’esperienza» (Freda, 2008, p. 4).
Il ricorso al linguaggio bellico, mutuato dall’ambito sanitario, da un lato è sembrato essenziale per fronteggiare un evento critico altamente destabilizzante, ma anche per semplificare, razionalizzare, tracciare confini di attribuzione di senso, di delimitazione di campo da possibili “letture” diverse degli eventi, eterogene e a volte contradditorie, comprensive di un et –et piuttosto che solo di aut aut. Le narrazioni sono molto più che il racconto, la storia di un’esperienza e Smorti (2007) ne parla infatti come «la moneta contante che i membri di una società si scambiano per accordarsi o dissentire, insomma per creare cultura….Attraverso le narrazioni le persone divengono compiutamene umane, perché dispongono di un modo per riflettere su quello che hanno dentro di sé propri raccontandolo agli altri».
La narrazione, secondo il punto di vista che qui si vuole assumere, è un processo sociale basato sulla negoziazione di significati all’interno di relazioni sociali ed è vincolato a un contesto, in quanto, i significati assumono un diverso senso in ragione del contesto in cui sono inscritti. Il carattere mediato della realizzazione linguistica e lo scopo comunicativo implicano l’articolazione di due livelli: uno discorsivo e uno narrativo. Il primo ha a che fare con l’enunciazione, in altre parole, con il modo della narrazione; il secondo corrisponde all’enunciato, cioè, il racconto.
La narrazione «comporta una sequenza di eventi ed è dalla sequenza che dipende il significato» (Bruner, 1992, p.135), funziona, quale modalità di costruzione del significato degli eventi, dunque acquista significato all’interno di una “cornice di senso” e produce un’influenza sulla definizione stessa del contesto da parte degli attori. Da questa angolazione, parlare di “contesto” significa non solo fare riferimento al luogo, all’ambiente in cui si situano le pratiche discorsive, ma anche considerare quegli elementi che strutturano e organizzano implicitamente e simbolicamente le relazioni (Carli, 2003, 2004). Contesto e narrazioni nascono, si sviluppano, si ri-negoziano e acquistano senso all’interno di relazioni, perché «ci si forma nelle relazioni, ci si ammala nelle relazioni, ci si cura nelle relazioni. In termini estremamente sintetici, questo è il presupposto epistemico guida del modello gruppoanalitico» (Di Maria, Lo Piccolo, 2005, p. 29).
4. Attraversando narrazioni fra Covid e guerra
Ma di che intreccio e fra quali narrazioni possiamo parlare a proposito della pandemia e ora della guerra in Ucraina?
Paradossalmente, stiamo forse uscendo da una (metaforica) guerra mondiale che ha colpito l’umanità intera entrando – senza soluzione di continuità – in una guerra “reale” in cui ancora non capiamo quanto ne siamo davvero partecipi, in che termini, con quali “armi” combattiamo e per quale vittoria. Un (altra) situazione drammaticamente urgente e di nuovo popolata da angosce di distruzione, sofferenza e crisi. In questo passaggio cruciale siamo alle prese con ulteriori dilemmi di fronte ad uno stato di emergenza certamente non concluso, nel nostro mondo interno, con la formalizzazione di un provvedimento. Due narrazioni per un’emergenza, due emergenze per una narrazione non rappresentano quindi un titolo bizzarro ma intersecano interrogativi e piani di senso a fronte di massicci processi di semplificazione e riduzionismo.
Stiamo forse affrontando un altro paradosso che, d’altra parte, trova le sue radici proprio nelle diffuse narrazioni emergenziali. Infatti – a tutti i costi – da una parte aboliamo le distanze per riavvicinarci, tornare ad essere “presenti” a noi e agli altri e provare a vivere “come prima”, anelando il ritorno – individuale e sociale – allo statu quo ante. Nello stesso tempo, un’altra emergenza sta scandendo, forse intralciando, questo faticoso ritorno alla normalità, termine che mai ci è sembrato così granitico e stabilmente rassicurante. Un’altra guerra, dove le armi non sono vaccini o il distanziamento, ma armi-armi, “oggetti” altamente e altrettanto evocativi, in uno scenario di morte e morti agghiacciante. Nemici e/o non amici, difesa-attacco, confini-aperture, guerra-pace, fantasmi di morte (nucleare) e morti su un campo di battaglia che non riusciamo, forse, a considerare vicino e lontano insieme, sono solo alcune dicotomie che cercano di sostenere – di nuovo – una narrazione in cui dovremmo posizionarci, atrofizzando così la possibilità che la narrazione possa diventare generativa. Ricollegandoci a Montesarchio (2009) la intendiamo come «il prodotto dello scambio/negoziazione tra i soggetti appartenenti ad uno stesso ambito sociale, che si qualifica come rete (o repertorio) di significati entro uno specifico contesto di vita. La narrazione da un lato è generata da discorso e, dall’altro, è generativa in quanto si pone quale intermediario dell’acquisizione di ulteriore conoscenza e sviluppo degli schemi interpretativi dei soggetti» (Montesarchio, Venuleo, 2009, p. 51). Considerando l’etimologia della parola, contesto viene dal latino contexére (contessere) e rimanda ad un significato del tessere, dell’intrecciare: il contesto dovrebbe diventare anche spazio condiviso di “pensabilità” rispetto alla costruzione del senso di quanto accade (Freda, 2008).
5. Uno sguardo gruppoanalitico come orizzonte di senso nell’emergenza
La prospettiva da cui si guarda, pone al centro dell’attenzione non il singolo soggetto, ma lo studio dei complessi processi dinamici che si sviluppano all’interno dei contesti sociali, in quanto le persone si narrano utilizzando le categorie cognitive e affettive che trovano disponibili entro il contesto e che utilizzano in ragione del proprio essere parte di un sistema di appartenenza, di un gruppo sociale. I significati affettivi, d’altra parte, non si costruiscono nella mente degli individui, ma nella contingenza delle relazioni in cui sono iscritti. È infatti «agendo, parlando, producendo segni, che gli attori costruiscono il senso da attribuire all’ambiente condiviso. Ne è la sorgente perché è il contesto (affettivo-simbolico) a regolare il significato da attribuire a un ruolo, una regola, un compito, un obiettivo, e a guidare l’individuo nella scelta dei modi di relazionarsi e di interpretare l’ambiente con cui interagisce» (Montesarchio, Venueleo, 2009, p. 80). In questa direzione, il soggetto attribuisce un senso alla realtà e a sé stesso utilizzando le risorse di senso (categorie cognitive e affettive) che trova disponibili entro il contesto a cui partecipa, che diventa quindi un criterio ermeneutico per la comprensione di quanto accade in termini di atti discorsivi e comportamentali (Carli, Paniccia, 2003, 2007).
Il modello gruppoanalitico, che guida questo lavoro, concepisce l’individuo come essenzialmente determinato dal mondo in cui vive, dai gruppi di cui fa parte, dalla comunità a cui appartiene e dalla convinzione che è impossibile prendersi veramente cura della sofferenza psichica se non connettendola alla cultura e alle caratteristiche storiche del contesto sociale (Zizzo, 2013).
Tale dimensione relazionale fa sì che «la scelta metodologica narrativa all’interno di questo lavoro non agisca modelli appresi calati dall’alto, ma che provi a istituire una “riflessione su” per accedere» (Canonico, Tomo et al., 2021, p. 36) a una «costruzione di un PENSIERO sull’accadente […]» (Montesarchio, 2004, p. 12).
«Costruire un processo di pensiero sull’accadente, di là dal già pensato e oltre l’utilizzo di categorie universali, pertanto acontestuali, ha la finalità di leggere e sviluppare domande sociali alla luce delle trasformazioni che caratterizzano oggi» (Canonico, Tomo et al., 2021, p. 36) la comunità mondiale, colpita dal Covid direttamente e dalla guerra indirettamente (per ora). In quest’ottica, si possono considerare le tante “crisi” che aleggiano come sottofondo (grano, energetica, commerciale…) costrette dentro macro-trasformazioni relazionali, sociali, economiche, sanitarie.
6. Lenti gruppali per una comunità in E-mergenza
Quale contributo la psicologia clinica e la psicoterapia a vertice gruppoanalitico possono offrire ad una comunità colpita dal Covid e poi dalla guerra?
La competenza della psicologia, secondo quanto qui sostenuto, è di sollecitare una riflessione sui contesti di convivenza. È qui che il pensiero psicologico s’interseca a quello di altre discipline, nella possibilità di produrre un pensiero sulla dimensione sociale che possa diventare una risorsa per individui-gruppi-comunità.
Il mondo – costruito – in cui viviamo non è né dentro la nostra testa, né fuori, piuttosto, come afferma Bruner (1992) la mente e il Sé fanno parte di questa realtà “distribuita”. I modi di vivere dipendono dai significati e dai concetti condivisi, ma anche dai modi del discorso, altrettanto condivisi, che hanno la funzione di negoziare le differenze interindividuali di significato e d’interpretazione all’interno di contesti di vita.
La psicologia – nell’ottica che si assume in questo lavoro – si occupa di processi simbolici che organizzano e definiscono i sistemi di interazioni delle attività a vari livelli, dal micro-sociale al macro-sociale (Salvatore, 2006).
Seguendo questa prospettiva l’evento pandemia o guerra, si configura come “atto” che porta l’uomo a dialogare «con il cambiamento attraverso la dialogica resistenza-trasformazione» (Di Maria 2000); ma questo cambiamento improvviso, cosa provoca all’interno di una comunità, visto che il gruppo-comunità non è regolato da una realtà statica, bensì dinamica in quanto nasce, si sviluppa, si disperde, confligge? Infatti, un gruppo esprimendo un modo di stare insieme (Di Maria, 2007), esprime, a sua volta, modelli culturali «aggregati di idee, concetti e opinioni sovraindividuali che hanno la funzione, in quanto condivisione simbolica dei rapporti, di orientare la relazione sociale» (Paniccia, 1989).
La comunità è intrecciata al luogo fisico da trame profonde, antiche e trasmesse da generazioni in generazioni che ne sostanziano il suo essere e quindi un cambiamento di una parte della città produce mutamenti in altre parti dello stesso, perché la polis (città) è un ecosistema (Di Maria, Lavanco, 2002), nella quale si creano delle interazioni reciproche in un equilibrio dinamico.
Crediamo allora, che la funzione psicologica, in questo contesto, sia quella di occuparsi delle “domande non quantificabili” di quei segni che portano a prendere decisioni “spesso calate dall’alto” senza considerare l’impatto che possono avere sulla comunità, sollecitando una riflessione sulla relazione con l’Altro, sui contesti di convivenza e su come la dimensione sociale possa costituire, in un’ottica di intervento, una risorsa per l’individuo, i gruppi e la comunità.
«Sia nell’ottica della Gruppoanalisi che in quella della Psicologia di Comunità, è il gruppo il setting considerato più idoneo a ristabilire un circuito virtuoso fra l’individuo e la comunità di appartenenza (Di Maria, 2005) e a trovare soluzioni operative a problemi comuni. Secondo Kaes (1987) nelle situazioni di crisi caratterizzate da una frattura della continuità fra un prima e un dopo, il gruppo si configura come “spazio transizionale”, cioè come uno spazio psichico in cui grazie alla condivisione, al rispecchiamento ed al sostegno reciproco diventa possibile rivisitare e donare senso alla propria storia per rintracciare le cause della propria sofferenza, rendere pensabile la crisi, ristabilire una continuità fra il vecchio ed il nuovo» (Zizzo, 2013, p. 25). Il gruppo: «non è la sommatoria di individui dialoganti, ma il fitto intreccio di eventi intrapsichici e interpsichici, di emozioni, di mondo interno e mondo esterno, di relazioni, una dimensione a tratti riconosciuta a tratti invisibile, che costruisce le relazioni intersoggettive» (Montesarchio, 1993, p. 29).
Partendo dalla tesi che nella comunità sono presenti molteplici risorse ed energie sopite di cui i soggetti sono portatori, perché non ripartire dai gruppi nell’ottica di attivare quella capacità dell’individuo di costruire/ricostruire il mondo in cui vive (Amerio, 2000) per mettere in atto un rinnovamento della vita sociale? (Zizzo, 2013).
Di fronte a questi scenari, la psicologia dovrebbe portare la sua competenza dentro l’emergenza insieme alle altre scienze, esplicitando il fatto che i fenomeni sono generati in una rete di relazioni e di rapporti di reciprocità. È necessario quindi posizionarsi in una zona di frontiera, in uno spazio altro, gruppale, ove modelli culturali diversi si possono incontrare; frontiera quale luogo in cui possono coesistere differenti prospettive in una situazione di scambio e d’interazione tra saperi e pratiche. Parlando poi di ri-costruzione, è compito peculiare della psicologia – dal punto di vista qui sostenuto – portare alla luce il valore trasformativo della dimensione narrativa mediante l’aggregazione di «elementi insaturi altrimenti incomunicabili [Ferro 2006] (…) rinunciare a codici interpretativi determinati in partenza» (Margherita, 2009, p. 53), ed aprire confini in cui si co-costruiscono possibilità in divenire. Se l’incontro con l’Altro è aperto a legittimare ciò di cui l’Altro è portatore, non può che generare una nascita (Stuto, 2010). In questo senso la psicologia clinica può essere concepita come scienza del contesto, dell’intervento, del cambiamento, della convivenza, interessata alla progettualità, alla pensabilità e alla realizzazione di trasformazioni dello status quo ad una dialogicità fra soggetti e diverse soggettività (Carli, 2000), in direzione di una teoria contestuale della mente verso il riconoscimento del carattere intersoggettivo dei processi mentali (Salvatore, 2004). «Senza il nuovo la polis non avrebbe futuro, ma con esso essa rischia di morire. La polis non si lascia distruggere ma solo trasformare» (Fiore, 2000).
In questa prospettiva è fondamentale l’apporto degli psicologi per promuovere necessari processi di rielaborazione, trasformazione e attraversamento, intendendo così la possibilità di costruire una permeabilità dei confini e delle frontiere in cui dinamicità e transazioni s’intrecciano. Ciò conduce a considerare «l’attraversamento non come una semplice condizione di transito, un andare lineare da qui a lì, ma piuttosto una condizione di naufragio e di smarrimento delle proprie matrici di significazione». Per questo motivo l’attraversamento di un cambiamento individuale, gruppale, comunitario «si presenta come un tempo, uno spazio in cui poter riconsiderare i propri codici e i valori che questi codici rappresentano» (Di Maria, Lavanco, 1998, p. 216).
7. Quali prospettive per gli psicologi?
Non pare questa la direzione presa in cui, di nuovo, l’urgenza di agire sembra non poter contemplare anche la possibilità di una cornice di riferimento comune in cui rendere trattabili e “parlabili” anche interrogativi, scambi divergenti, non detti, lasciando così spazio ad agiti in contesti e relazioni senza un tessuto connettivo che ne dia significato. Arcobaleni e bandiere della pace, possono essere simboli delle fatiche e speranze di questo periodo travagliato, tentativi di dare un senso che possono però svuotarsi se non inseriti in un processo più ampio. L’elaborazione di ciò che – a livello individuale e collettivo – si è perduto e di ciò che può essere trasformato – diviene centrale dopo qualunque guerra. Il contributo degli psicologi in questa direzione è fondamentale, ma lo è altrettanto attraversare le emergenze con un ruolo nei processi di significazione della realtà e non mera risposta ad una “chiamata alle armi” già connotata e veicolata verso il farsi carico prevalentemente delle macerie emotive sul piano quasi esclusivamente individuale.
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Giuseppina Ruggieri: Psicologa clinica e Psicoterapeuta gruppoanalista; si occupa di interventi clinici nei passaggi critici della vita delle persone, gruppi, organizzazioni con interesse ai processi narrativi, in particolare, nel contesto sanitario.
Marialaura Gargano: Psicologa clinica e Psicoterapeuta gruppoanalista, Dottorato di ricerca in Istituzioni, Mercati e Comportamenti conseguito presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale; docente a contratto presso l’Università degli Studi “Niccolò Cusano” – Telematica.
[1] Alcuni ricercatori hanno cercato di categorizzare i diversi eventi catastrofici in base alla concatenazione di cause che li generano. Si distinguono in questo senso “disastri naturali” (terremoti, uragani, ecc.), “disastri sociali” (bombardamenti, prognom, ecc) e disastri tecnologici (o man-made).