A cura di Agnese Cannistraci, Roberta Baldi, Linda Borra
Abstract
Franco Fornari propone un modello psicoanalitico con un carattere rivoluzionario che scardina le logiche di potere insite nella relazione terapeutica. Riprendendo tali contributi si vuole porre il focus sulla necessità di ripensare la funzione psicologica in un momento storico caratterizzato da sconvolgimenti e dinamiche emozionali emergenziali a causa del Covid-19. Tutto ciò si contestualizza in un periodo storico definito da Kaës iper-moderno, in cui gli eventi si susseguono in forma accelerata ed il precipitato emozionale non lascia spazio al pensiero. Ne consegue un disorientamento ed un’impossibilità dialettica tra un prima e un dopo, tra alterità e identità che influenza la capacità dei soggetti di mantenere la continuità e l’integrità dell’Io, nonché la possibilità di pensare e dare senso agli eventi traumatici.
L’obiettivo di questo scritto è quello di ripensare, attraverso un’ottica gruppoanalitica, il ruolo dello psicologo all’interno di questo contesto, affinché non si configuri come detentore di un sapere in virtù del quale elargisce buone prassi, ma come creatore di “spazi” in cui sostare nella confusione emozionale propedeutica al pensiero generativo. Ci si sofferma, inoltre, sulla terapia online, nella maggior parte dei casi l’unica soluzione possibile, in modo che si generi la possibilità di elaborare un pensiero sugli strumenti di cui si dota lo psicologo, materiali e metodologici, esterni ed interni, con particolare attenzione al setting, non inteso solamente come delimitazione delle condizioni fattuali, bensì come cornice di lettura e di ri-narrazione clinica.
Parole chiave: Covid-19, Setting, Ipermodernità, Gruppoanalisi, Psicologo, Ri-narrazione.
Il presente articolo nasce dall’esigenza di ripensare la funzione psicologica alla luce degli eventi pandemici che hanno caratterizzato l’attuale momento storico, stravolgendo contesti, assetti relazionali ed organizzativi.
Il contributo si pone l’obiettivo di offrire una meta-lettura, leggendo in chiave gruppoanalitica le dinamiche emozionali che hanno maggiormente caratterizzato, e caratterizzano tutt’ora, il momento storico emergenziale.
Riprendendo i contributi di Fornari rispetto al contesto terapeutico e ponendo l’attenzione su quanto affermato da Montesarchio e Venuleo (2006), i quali mettono in luce la contaminazione vicendevole tra soggetto e oggetto conoscitivo, il ruolo dello psicologo è ripensato all’ interno del periodo storico in cui è chiamato ad intervenire, data l’emergenza per Covid-19, non avulso dalle dinamiche che caratterizzano lo stesso.
Freud fondò la psicoanalisi proponendo un modello unipersonale e biologista dell’apparato psichico. Il suo modello, che viene definito “pulsionale”, è basato sui concetti di pulsione, energia ed istinto. La dinamica nell’apparato psichico è descritta come l’esigenza di creare equilibrio nella distribuzione delle cariche pulsionali, attraverso delle operazioni volte alla scarica (Salvatore, 2004).
Nel 1975 Franco Fornari pubblica l’opera “Genitalità e cultura”, opera in cui riprende la tripartizione della mente teorizzata da Freud nella prima topica (conscio, preconscio ed inconscio) e pone le basi per una nozione di inconscio che segue leggi sue proprie differenti da quelle del sistema del pensiero “scientifico”.
Con il suo contributo (Fornari, 1979; 1983) la teoria psicoanalitica si libera dei riferimenti biologistici e topico-strutturali della prospettiva classica e l’inconscio viene definito come un dispositivo semiotico capace di alimentare la tensione del soggetto a significare sé stesso. L’inconscio diviene una facultas signatrix (Fornari, 1975; 1983) con una funzione di significazione affettiva del funzionamento della mente.
Coscienza ed inconscio rappresentano entrambi processi di rappresentazione e di attribuzione di senso (semiosi). Quello che li distingue non è il differente grado di coscienza, come nella formulazione topica freudiana, né le istanze mentali che li veicolano, come nella formulazione strutturale, bensì le qualità semiotiche dei processi che operano.
L’inconscio è, quindi, un processo di simbolizzazione dotato di una propria logica. Secondo la teoria di Fornari, la “teoria coinemica”, la simbolizzazione affettiva è una forma di pensiero che si dispiega parallelamente alla categorizzazione operativa propria del pensiero razionale diurno. Mentre la categorizzazione operativa mobilita codici pubblici convenzionali (i concetti, le categorie linguistiche), la simbolizzazione affettiva tratta gli oggetti della realtà – e il linguaggio – come significanti che l’inconscio satura di un significato emozionale generato da un codice affettivo primitivo, costituito da coinemi, che danno forma psichica all’esperienza, connotandola nei termini delle fondamentali dimensioni vitali (corpo, relazioni parentali, vita, morte) (Salvatore, 2004).
L’inconscio da luogo immaginario diventa un modo di essere, ponendo l’accento sulla valenza relazionale. Si passa da una visione individualista della mente, incentrata sulle vicende del mondo interno in relazione alle pulsioni, al funzionamento emozionale del rapporto con la realtà esterna all’individuo.
Questa visione pone le basi per una teoria psicoanalitica del processo decisionale attraverso la quale vengono letti in modo nuovo anche i conflitti e le vicende che portano alla guerra, come radicalizzazioni ideologiche di scelte, che diventano pericolose nel loro porsi come assolute (Leonelli Langer, 2017).
Il contributo di Fornari porta in sé un carattere rivoluzionario: l’istituzione di un codice di lettura delle interazioni sociali sostituisce una logica inconscia, ad una logica ideologica e moralistica.
Allo stesso modo, in ambito psicologico vengono ridefiniti i parametri con cui si discerne la normalità dalla patologia che, in un certo senso, destituiscono lo psicoanalista dal ruolo di detentore di una “verità”, diventando co-costruttore di una relazione. L’esperienza psicoanalitica non viene configurata come un rapporto asimmetrico tra lo psicoanalista-esperto e l’analizzando-profano, ma una come “esperienza radicale e privilegiata di conoscenza e di libertà, che si dispiega tra analista e analizzando attraverso il coinvolgimento affettivo del transfert e del controtransfert” (Leonelli Langer, 2017).
Riprendendo il sopracitato contributo di Montesarchio e Venuleo (2006), in merito alla contaminazione vicendevole tra soggetto e oggetto conoscitivo, vediamo come, nello specifico, gli autori affermano che “I processi di identificazione proiettiva e introiettiva […] non costituiscono qui […] un fattore di disturbo, ma un termine essenziale nella comprensione e nell’elaborazione della storia che il formando [cliente in questo caso] chiede di analizzare”. In linea con ciò, lo psicologo non può porsi come “spettatore neutrale” rispetto alla narrazione, ma vi partecipa portando all’interno della relazione con l’altro i propri vissuti, la propria simbolizzazione affettiva.
Tenendo in considerazione quanto detto, in particolar modo sul superamento attuato da Fornari rispetto alla concezione psicoanalitica di un approccio terapeutico “asettico”, vorremmo mettere in luce come vi possa essere la necessità, in questo periodo storico, di adottare la visione generativa di Fornari sia rispetto al ruolo, che rispetto al setting terapeutico, facendo parallelamente un pensiero sul cambiamento che la pandemia per Covid-19 ha comportato.
L’emergenza sanitaria (ormai un’emergenza prolungata) avviene in un periodo storico definito da Kaës (2012) come “iper-modernità”, un periodo caratterizzato graficamente dal prefisso “-iper” ed emozionalmente/fattivamente da un eccesso e sovradimensionamento di ogni cosa, che ha portato alla polverizzazione dei limiti: iper-modernità che risulta caratterizzata dall’eccesso di velocità, dall’urgenza e da uno spazio delocalizzato, virtuale.
Le caratteristiche sopra elencate, in aggiunta al concetto di “malêtre” di Kaës e ai saggi sulla civiltà e società moderna proposti da Freud, conducono ad una visione instabile e pessimistica del futuro, al senso generale di straniamento dell’uomo e ad un conseguente smarrimento collettivo ed individuale in cui vi è il dubbio su come orientarsi in questa odierna società.
Il rischio è quello che si generi una “scordatura” nei rapporti, una forma nuova, incerta e caotica nell’iper-modernità, elemento che Kaës, nel suo noto saggio “Il malessere”, riconduce alla rapida trasformazione dei legami tra le generazioni, ai profondi cambiamenti degli ultimi dieci anni inerenti i sessi ed al mescolamento delle culture, tre elementi che hanno messo in discussione le fondamenta dell’identità e la permanenza dell’essere psichico dei soggetti. La difficoltà nascente è quella di pensare ad un futuro senza potersi basare su un passato, il soggetto pensante/il pensiero è per questo in bilico tra l’impotenza e l’ipercontrollo.
Bollas (2015) propone l’idea che il Sé del XXI secolo sia programmato in un mondo “Fastnet” che richiede la velocità (dall’Inglese Fast = veloce e net = rete) a discapito della possibilità di riflettere, giudicare e valutare; si è infatti, secondo l’autore, passati da un pensiero riflessivo ad uno procedurale, dove bisogna sviluppare e fornire delle operazioni-azione, dei comandi che rispondano alla domanda di soluzione rapida di un qualsiasi problema. Tutto questo sottende alla fantasia inconscia che la mente sia una generatrice di problemi e che il sistema complesso del pensiero sia visto in maniera implicita come un ostacolo che va organizzato e risolto in una struttura di formule e programmi[1]. Ne consegue uno svuotamento di senso nel pensiero e nelle cose, e ad una progressiva perdita del sé, di un vero e proprio smarrimento dell’essere umano.
Di fatti, ad essere in difficoltà è il processo di soggettivazione: parlare di individuo comporterebbe il rischio di ridurre il soggetto ad atomo sociale, o monade, sprovvisto di legami, il che avrebbe conseguenze sia sulla strutturazione della vita psichica, che sull’attività di simbolizzazione.
Tale visione potrebbe rimandare al concetto di matrice[2] eccessivamente insatura Ferraro e Lo Verso, 2007), ovvero riferito a quelle matrici prive di vincoli ed incentrate sui vissuti familiari che estremizzano stili relazionali non differenziati, caotici o abbandonici, da cui emergono condizioni di sofferenza psicologica che si esprime attraverso profondi sentimenti di assenza e di vuoto.
L’ipotesi è che questa incertezza dei vincoli possa avere a che fare con una discontinuità narrativa, un’impossibilità a narrarsi – per via dell’accelerazione generata nel contesto dell’iper-modernità – e, dunque, esistere in merito ad una storia trascorsa che rende difficile il processo di identificazione con i gruppi sociali, i quali rappresentano la memoria collettiva di valori, credenze, norme, miti e riti, comportando una difficoltà a reinventarsi creativamente.
Nel saggio “Il disagio della civiltà” (1929), Freud parla di una trasformazione radicale della vita civile ed introduce la psicoanalisi come parte costitutiva delle questioni che suscitano le articolazioni tra psiche, cultura e società. Inoltre, egli avanza una concezione in cui le formazioni della cultura sono il riflesso dei conflitti tra le istanze ed i processi dell’individuo, per cui si crea una tensione universale tra le esigenze di soddisfacimento pulsionale, le costrizioni della vita sociale e le esigenze della sublimazione e del lavoro di civiltà. Freud afferma, inoltre, che la sofferenza psichica non è solo psicogena, ma ha un’origine sociale, nella civiltà, la quale proviene dalle “reciproche relazioni degli uomini”. E qui ci sembra giusto riportare l’importante differenza che Kaës evidenzia tra il termine “disagio” adoperato da Freud e quello di “malessere” da lui ritenuto più pertinente. Il malaise (il disagio) è un concetto relazionale della causalità tra disturbi psichici ed aspetti sociali e culturali, ma è troppo riduttivo: sarebbe più corretto parlare di malessere, di sofferenza, per dar voce ad una situazione in cui la capacità di essere è violentemente messa in discussione. Per tale motivo la prospettiva di Freud deve essere rivista e ripensata alla luce dell’inscrizione del soggetto nella soggettività, acquisizione nota grazie al lavoro gruppale, secondo il quale la realtà psichica non è solo realtà interna, ma anche realtà comune, condivisa negli insiemi e nei gruppi.
Quanto finora espresso è particolarmente evidente in questo periodo di emergenza sanitaria per Covid-19, durante il quale si sta attraversando un senso di precarietà, incertezza ed il rischio è quello di sviluppare una “cultura fobica” della relazione con il mondo.
La pandemia per Covid-19 sembra aver generato un nuovo ed improvviso trauma nella società, società che ha dovuto confrontarsi con l’impotenza e la non preparazione rispetto a tale evento; in merito a ciò, possiamo fare riferimento al pensiero di Kaës (2012) sui “traumi collettivi”. L’autore li ricollega alla categoria dell’inumano, categoria che esclude, appunto, l’esperienza umana in cui sono inserite esperienze come genocidi, la Shoah e altre grandi violenze che generano un male che estranea e distrugge. Le ultime generazioni di uomini sono state esposte a immagini sempre più crescenti di violenza senza però una adeguata contestualizzazione e/o spiegazione, ad un pensiero pessimistico e sfiduciato sull’avvenire, ad un’instabilità ed incertezza legate al crollo delle istituzioni tradizionali, di sentimenti di paura, insicurezza, angoscia, violenza, senso di precarietà, sconforto e come Kaës (2012) ci ricorda: “l’impensabile e l’impensato di queste esperienze, sepolte di diniego, isolate dalla scissione” divengono traumi collettivi che generano un male che estranea e distrugge. Risulta importante per l’autore integrare nella categoria dell’umanità, la capacità di essere “inumano” (Kaës, 2012), cioè di rifiutare una parte dell’umanità con cui non ci si può identificare.
Nel caso del Covid-19, ulteriore criticità è la possibilità/impossibilità di identificarsi con l’inumano perché non vi è un “nemico” concreto, bensì un virus, un’entità non visibile ad occhio nudo e poco conosciuta, in continuo cambiamento – che apre a possibili aspetti paranoici – di cui si soffrono gli effetti sia fisici che psicologici.
Si pensi al passaggio continuo dei numerosi feretri, alle residenze sanitarie assistenziali (RSA) identificate come “focolai”, alle case vissute come carceri – alla “cabin fever”[3] (Rogers, 2020) – alle carceri che invece di contenere “intrappolano”, alle convivenze che distruggono legami, alle Forze dell’Ordine che da “protettrici” diventano “secondini controllanti”.
Detto ciò, se ricolleghiamo suddetti aspetti e li contestualizziamo all’interno del vissuto nell’assenza di limite e percezione di vuoto causate dall’eccesso e dall’esasperazione generate dall’iper-modernità, possiamo osservare quanto attualmente vi sia terreno fertile per la formulazione di teorie non scientifiche, ma fondate su base emotiva, in merito alla diffusione su scala mondiale del Covid-19. Tra queste, molto dibattuta è stata ed è tuttora, quella per cui all’origine della pandemia vi sia l’uomo, qualcuno che abbia consapevolmente e volontariamente messo in circolo il virus per scopi sconosciuti. E se pensiamo ai movimenti emergenti, come i “negazionisti”, ovvero coloro che rifiutano l’idea che vi sia una pandemia in corso, negandone la sua reale distruttività o la sua esistenza, può essere utile fare un pensiero su quanto i meccanismi difensivi della negazione e del diniego (Anna Freud, 1936), per cui l’oggetto del trauma viene drasticamente espulso dalla realtà, siano in questo periodo utilizzati inconsciamente per proteggersi da una fragilità psichica individuale, gruppale e sociale.
In questo turbine caotico la sofferenza psichica, causata dall’incapacità di mantenere la continuità e l’integrità dell’Io, avendo sperimentato un’impotenza primaria, fa sì che le identificazioni fondamentali vengano minacciate, che si perda l’autostima e che la fiducia scompaia lasciando il posto ad una sfiducia che rende il sé e l’altro non più affidabili.
Ne può conseguire il timore del contagio o, nello specifico, la coronaphobia (Asmundson e Taylor, 2020), che si caratterizza con paura della morte e della malattia, incertezza incontenibile, necessità di nuove pratiche di evitamento sociale, perdita di fiducia nella sanità, sconcerto nel vedere l’ammalarsi di Capi Stato. Parallelamente si parla di infodemia[4] “una sovrabbondanza di informazioni – alcune accurate, altre no – che rende difficile alle persone trovare fonti affidabili e una guida sicura quando ne hanno bisogno” (Arora et al., 2020) e, tutto questo, interferisce con la quotidianità delle persone. Come ogni fobia, si esigono misure difensive di negazione, diniego, rimozione, spostamento, scissione e proiezione delle parti fobogene all’esterno, nel tentativo di ridurre, svalutare ed allontanare da sé il pericolo e la conseguente sofferenza generata. Tale sofferenza che circola e contamina le relazioni sociali come il virus in questione, necessita un riconoscimento ed una conseguente significazione.
In riferimento alla teoria di Napolitani (1987), consideriamo che l’individualità della persona è composta dall’unione di segni altrui introiettati che formano la cultura, il background su cui il soggetto con le sue invenzioni può porre le basi per definire la propria esistenza. Postulando l’idem, come comprensivo di quelle conoscenze acquisite alla nascita che dipendono dalla predisposizione dell’individuo ad apprendere, e l’autós, cioè la creatività, la predisposizione ad una conoscenza trasformativa del mondo che spinge l’uomo a rivedere i codici e le conoscenze date, Napolitani sostiene che sia necessario un equilibrio tra essi per permettere la nascita della soggettività. Infatti, l’autore afferma che “essere” corrisponde a “essere in relazione con” e, dunque, se idem e autós non dialogano, non si relazionano, ma uno dei due assorbe o annienta l’altro, l’identità non può esistere. (Ferraro, Lo Verso, 2007). Passaggio ulteriore è l’approfondimento che Di Maria (1992) propone in merito al concetto di accadimento[5], ovvero quel fenomeno che necessita una creazione di significati attorno ad esso e che tramite la combinazione di questi, il fenomeno diventa invento: esso è dunque il risultato dell’incontro tra il dato sensibile e il soggettivo della persona che inventa, con il suo pensiero, una molteplicità di significati.
Partendo da quanto detto, si potrebbe ipotizzare che, ad oggi, nella situazione di pandemia, la necessità sia quella di dare un significato a ciò che si sta esperendo, con la possibilità di rendere conosciuto lo sconosciuto, l’estraneo, così che la relazione tra l’Io e l’Altro diventi un invento, come accade all’interno della relazione terapeutica.
2. Come si configura il ruolo dello psicologo in questo contesto?
Nel disorientamento emozionale, derivato da questa pandemia, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) pubblica un vademecum in cui gli psicologi sono chiamati ad intervenire sulle reazioni che le singole persone manifestano davanti ai fatti. In questa visione, il problema del contagio si configura come problema “soggettivo” in relazione al vissuto psicologico, alle emozioni e alle paure che il tema suscita nelle diverse persone e la cui percezione distorta del rischio può sfociare nel panico e in reazioni non elaborate da un pensiero. In linea con il vademecum sopracitato, in questo contesto lo psicologo dovrebbe aiutare coloro che si trovano in particolare difficoltà a conformarsi alle buone pratiche elargite dalle autorità (CNOP, 2020) e, dunque, proporre pensieri “corretti” e parametri per mezzo dei quali definire un livello “accettabile” di allarme, che rientri nel range del “non patologico”.
Queste proposte di intervento sembrano voler mantenere un’asimmetria “tecnico/profano”, in cui il possibile trauma da pandemia appartiene al mondo emozionale dei pazienti-profani e da cui lo psicologo è immune.
In questo articolo si vuole invece assumere un altro vertice, in cui, richiamando il sopra citato pensiero di Fornari, lo psicologo non si pone come “spettatore neutrale”, ma compartecipa emozionalmente alla relazione con l’altro, mettendo in gioco i propri vissuti, la propria simbolizzazione affettiva.
Anche la relazione terapeuta-paziente attraversa una riconfigurazione in questo contesto, non solo perché si rende necessario ripensare gli spazi ed i tempi della terapia, ma perché fallisce ogni “routine” emozionale con cui si connota la realtà, di conseguenza, la relazione terapeutica stessa.
Da un giorno all’altro, le normative anti-contagio hanno decretato la chiusura dei luoghi di lavoro, degli uffici, degli ambulatori. Il vissuto di emergenza, l’assenza di tempo per pensare, per riprogettare, hanno imposto una trasformazione delle attività lavorative in “smart working”, dove la parola “smart” pone l’accento sul significato della componente tecnologica lasciando in sordina tutte le dimensioni di carattere relazionale ed emotivo (APS, 2002). Senza direttive specifiche sul come riorganizzarsi, ogni professionista in ambito psicologico ha dovuto improvvisare strategie adattive per tutelare i clienti e le relazioni terapeutiche, riadattandosi in fretta, concependo nuovi spazi e nuovi assetti.
Oltre a suscitare ansie e fobie, l’emergenza sembra quindi accelerare riorganizzazioni di processi e attività: nuovi luoghi e ruoli, riformulazioni di rapporti tra professionisti, tra terapeuti e clienti.
La questione dei confini, dei contenitori, del setting è una questione pregnante nell’ambito del lavoro psicoterapeutico: come ascoltare in un setting che richiede un distanziamento fisico, mediato da un monitor? Come ripensare la presenza, le parole ed i silenzi che si ritrovano all’interno di un setting che si virtualizza?
La terapia online, nella maggior parte dei casi l’unica soluzione possibile, sembra essere frutto di un precipitato emozionale che risponde ad un’urgenza riorganizzativa piuttosto che una possibilità di ripensamento sugli strumenti di cui si dota lo psicologo, materiali e metodologici, esterni ed interni.
In psicologia il setting si configura come la cornice entro cui il processo ha modo di svilupparsi: un insieme di condizioni materiali e mentali, processo esso stesso, luogo dove la relazione può essere analizzata (Grasso, Cordella, Pennella, 2004). In tal senso, il setting non è solamente riducibile alla delimitazione delle condizioni “fattuali” adeguate all’attuazione delle operazioni “tecniche”, bensì è anche il modo di reagire all’istituzione di tali condizioni, i comportamenti e gli agiti, per cui occorre organizzare un pensiero intorno a tali comportamenti e favorire la loro trasformazione in elementi trattabili. Come scrivono Montesarchio e Venuleo (2006): “il passaggio da setting come fatto a setting come metodo, passa attraverso la considerazione di un duplice livello che investe le costanti del setting: uno reale, manifesto, visibile, fatto di tempi, di luoghi, di costi; l’altro simbolico, mentale, che fa riferimento all’uso che il cliente fa del tempo, dello spazio, dell’onorario e alla proposta di un pensiero, di una riflessione che lo psicologo fa su questo.”
In altre parole, possiamo definire setting la serie di regole e condizioni predefinite che permettono lo svolgersi del colloquio psicologico. Il set comprende il contesto di ambientazione, la periodicità e la durata, i fattori contrattuali, l’ossatura che rende disponibile lo spazio per il setting, ovvero il processo, l’azione nel suo svolgersi (Di Maria, Lavanco, Varveri, Montesarchio, 2002).
Le piattaforme online (Zoom, Skype, Whatsapp, ecc.) diventano in molti casi l’unico possibile strumento per istituire un nuovo setting. L’uso di colloqui online ha coinciso con differenti livelli di consapevolezza, a volte per tutelare la propria salute, altre per rispettare direttive dall’alto. Le normative nazionali hanno permesso alle professioni sanitarie di continuare a visitare in presenza quei pazienti/utenti/clienti con quadri clinici particolarmente rilevanti. Tuttavia, come riporta uno studio del gruppo di ricerca di Analisi Psico-Sociologica (APS, 2020), sono stati solo in pochi coloro che hanno adottato tali procedure. L’uso di queste strumentazioni ha aperto inaspettate possibilità e prospettive: alcuni clienti hanno apprezzato questi contatti a distanza, evidenziando una diminuzione dei loro disagi, altri hanno costruito il proprio setting ricavando spazi e tempi entro le mura domestiche[6].
Lungi dal voler incentrare la riflessione sulla pratica delle terapie online o sulla mera dimensione tecnica della costruzione del setting virtuale, in questo articolo si vuole, piuttosto, proporre un pensiero sulla competenza psicologica a stare nella confusione emozionale come condizione necessaria e propedeutica al cambiamento. Tale competenza investe innanzitutto la possibilità per gli psicologi di ripensare la propria funzione, di ripensarne le pratiche, le tecniche e gli strumenti che la connotano e che rendono possibile il dispiegarsi della relazione con i propri clienti.
La necessità di questa competenza si rende ancora più evidente in un periodo di emergenza pandemica in cui, come sopra descritto, il rischio è invece di colludere con la dimensione emozionale dell’urgenza, lasciando poco spazio al pensiero.
Adattarsi e stare nelle dinamiche del cambiamento implica il passaggio da una confusione emozionale e categoriale propedeutica al mutamento dei contesti culturali, un mutamento che si fonda su processi culturali caratterizzati da dinamiche collusive organizzate da “vecchie” e “nuove” categorie condivise (Carli e Paniccia, 2011).
Carli e Paniccia (1984) propongono il costrutto di spazio anzi per connotare la dinamica fondata sulla confusione categoriale che consente il cambiamento e fonda l’azione sociale. Lo spazio anzi è la “confusione categoriale [in cui] si realizza una congiunzione inestricabile tra passato, presente e futuro che orienta l’azione, conferendole questi significati di novità e insensatezza che così appaiono a chi non sia coinvolto nella fenomenologia in esame” (Carli e Paniccia, 1984; p.110).
Lo spazio anzi pone rilievo alla continuità che connota il cambiamento culturale; tale continuità è marcata da confusioni e incoerenze in cui possono coesistere modelli, ottiche di letture del reale, simbolizzazioni affettive contraddittorie e incompatibili. Ciò si contrappone alla tendenza ad assumere una posizione decisionale, operare una scelta, sancire una discontinuità che vuole marcare le differenze: il prima e il dopo entro sequenze temporali distinte, definite (Carli e Paniccia, 2011).
La funzione psicoterapeutica è qui concepita nella sua possibilità di istituire una relazione volta a pensare tutte le emozioni che vengono portate all’interno della relazione stessa. Lo psicoterapeuta può accogliere e trasformare in pensiero, le infinite emozioni di chi lavora con lui, solo se è sorretto dalla competenza a stare dentro una relazione di confusione categoriale e di spazio anzi.
Accettare la complessità emozionale della relazione significa, dunque, abbandonare le certezze tecniche, le certezze delle idee chiare e distinte, avventurandosi così nell’ambiguità emozionale (Carli e Paniccia, 2011) per lasciare spazio alla creazione, all’invento (Di Maria, 1992).
Riprendendo quanto sopra descritto, in merito all’impatto sociale che la pandemia ha generato, della fobia del contagio, della difficoltà di significazione ed integrazione del concetto dell’inumano, possiamo fare riferimento al testo “Gruppoanalisi soggettuale” di Lo Verso e Di Blasi (2011), in cui gli autori parlano di “trapianto” (interiorizzazione), fondamentale per la costruzione identitaria, di gruppalità interne, dell’innata capacità della psiche umana di “apprendere tratti mentali, affettivi e comportamentali del proprio ambiente sociale originario”. Allo stesso tempo, in questo periodo storico segnato dall’emergenza sanitaria, come anche all’interno della relazione terapeutica, potrebbe generarsi una sorta di “spazio senza”, quel momento difficile in cui “non è ancora possibile progettare e costruire il futuro, poiché ai sentimenti di sbigottimento e vergogna per il passato si associa ancora e soltanto l’angoscia per l’avvenire” (Lo Verso e Di Blasi, 2011). Spazio senza che, se attraversato, provoca alta sofferenza ed instabilità, ma che è fondamentale per un’evoluzione sia del processo di cambiamento in atto, che della terapia stessa.
In linea con ciò si può ipotizzare che la resistenza all’attraversamento dello “spazio senza”, sia maggiormente accentuata in un mondo che, come descrive Bollas (2015), si mostra senza ideali e che ha lasciato le popolazioni del XXI secolo vivere in un’era in cui il vissuto di smarrimento si pone come posizione difensiva. L’autore infatti afferma che, se non è possibile generare dei “buoni sogni” e quindi costruire il futuro come oggetto mentale che raccoglie quei sogni utilizzandoli come matrici vitali, allora come creature adattive si necessita fare riferimento a nuove strategie “per camminare sull’acqua”[7].
Questo pensare al futuro è, secondo Bollas, un mezzo per esercitare quella funzione mentale vitale per la sopravvivenza del sé e della specie, e richiama il pensiero di Heinz Hartmann, proposto in “La psicologia dell’Io e il problema dell’adattamento” (1938), per cui il processo di adattamento implica sempre un riferimento a una condizione futura.
Per concludere, si vuole proporre in questa sede una metafora al fine di narrare la competenza gruppoanalitica, una competenza che non solo ri-organizza e ri-orienta, ma che permette anche di attraversare la narrazione su molteplici livelli e, partendo dal racconto, genera la possibilità di comprendere cosa si sta proponendo all’interno di quello specifico contesto: una competenza generativa volta a ri-narrare le relazioni. Tale metafora può essere presa in prestito dal romanzo “Le vie dei canti”, in cui Bruce Chatwin (1988) racconta come gli aborigeni australiani si tramandino di generazione in generazione canti rituali come conoscenze iniziatiche e segrete. Secondo l’autore, questi canti rituali servono come mappe per orientarsi nel deserto, riprendono e disegnano dei percorsi utili quando un aborigeno parte in walkabout – camminate che possono durare settimane e mesi – al fine di permettere contatti e scambi con altre popolazioni separate da grandi distanze e percorso di iniziazione per i giovani autoctoni.
Bibliografia
APS (2020). Sviluppare pensieri per apprendere dall’esperienza – Individui, gruppi e organizzazioni di fronte all’emergenza. Da www.studioaps.it – consultato il 30/10/2020.
Arora, A., Jha, A.K., Alat, P., & Das, S.S. (2020), Understanding coronaphobia. Asian Journal of Psychiatry, 54, 102384.
Asmundson, J.G., & Taylor, S. (2020). Coronaphobia: Fear and the 2019-nCoV outbreack. Journal of Anxiety Disorders. 2020 Mar; 70: 102196. Published online 2020 Feb 10. Doi: 10.1016/j.janxdis.2020.102196.
Bollas, C. (2015). Psycoanalysis. The Age of Bewilderment: On the return of the oppressed. IPA Congress Papers. The International Journal of Psychoanalysis, Wiley Online Library. First published: 14 July 2015. Doi: 10.1111/1745-8315.12352.
Carli, R., & Paniccia, R.M. (1984). Per una teoria del cambiamento sociale: lo spazio-anzi. In Lo Verso G., & Venza G. (a cura di). Cultura e tecniche di gruppo nel lavoro clinico e sociale in psicologia. Roma: Bulzoni.
Carli, R., & Paniccia, R.M. (2011). La stavkirke norvegese e lo spazio anzi. Continuità e discontinuità nella rappresentazione sociale e nel mito. Rivista di Psicologia Clinica, 15 n.1/2020.
Chatwin, B. (1988). Le Vie dei Canti, Traduzione di Silvia Gariglio. Milano: Biblioteca Adelphi.
Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (2020). Vademecum psicologico coronavirus per i cittadini – perché le paure possono diventare panico e come proteggersi con comportamenti adeguati, con pensieri corretti ed emozioni fondate. Da www.psy.it – consultato il 26 febbraio 2020.
Di Maria, F. (1992). La relazione interpersonale fra accadimento ed invento. In S. Di Nuovo e P. Moderato (a cura di). La psicologia tra indagine sperimentale e ricerca sociale e clinica. Catania: C.U.E.C.M.
Di Maria, F., Lavanco, G., Varveri, L., & Montesarchio, G. (2002). Colloquio di gruppo: istruzioni per l’uso. In G. Montesarchio (a cura di). Quattro Crediti di Colloquio. Milano: Franco Angeli.
Ferraro, A.M., & Lo Verso, G. (2007). Disidentità e dintorni, Reti smagliate e destino della soggettualità oggi. Milano: Franco Angeli.
Fornari, F. (1975). Genitalità e Cultura. Milano: Feltrinelli.
Fornari, F. (1979). Il codice vivente: femminilità e maternità nei sogni delle madri. Bollati Boringhieri. Torino.
Fornari, F. (1983). La lezione freudiana. Milano: Feltrinelli.
Foulkes, S.H., & Anthony, E.J. (1957). Group Psychotherapy – The Psychoanalytic Approach. London: Karnac.
Freud, A. (1936). L’io e i meccanismi di difesa. Milano: Giunti Editore, 2012.
Freud, S. (1929). Il disagio della civiltà. Milano: Bollati Boringhieri, Saggi. Psicologia, quinta ed. 1985.
Grasso, M., Cordella, B., & Pennella, A.R. (2004). Metodologia dell’intervento in psicologia clinica. Roma: Carrocci.
Hartmann, H. (1938). Ego Psychology and the Problem of Adaptation. New York: International Universities Press, 1958.
Kaës, R. (2012). Il malessere. Roma: Borla.
Leonelli Langer, L. (2005). Note sul pensiero di Franco Fornari. Rivista di Psicoanalisi, LI,1 99-178.
Lo Verso, G. & Di Blasi, M. (2011). Gruppoanalisi Soggettuale. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Montesarchio, G., & Venuleo, C. (2006), (a cura di). Quattro crediti di colloquio. Milano: Franco Angeli.
Napolitani, D. (1987). Individualità e gruppalità. Torino: Boringhieri.
Rogers, K. (2020). Do I have ‘cabin fever?’ What it is, how to ‘cure’ it, CNN Health, Marzo 2020.
Salvatore, S. (2004). Inconscio e discorso. Inconscio come discorso. In Ligorio B. (a cura di), Psicologie e culture. Contesti, identità ed interventi (pp. 125-155). Roma: Carlo Amore .
Le autrici
Agnese Cannistraci: psicologa clinica, psicoterapeuta gruppoanalista, formatasi presso l’Ateneo La Sapienza di Roma, lavora come consulente e formatrice in ambito scolastico ed aziendale, con interesse nella psicologia in ambito organizzativo e focus sulle tematiche legate allo stress lavoro correlato e al burnout.
Roberta Baldi: psicologa clinica, psicosociologa e gruppoanalista in formazione. Ha lavorato per diversi anni in Francia nel campo della salute mentale e come formatrice per operatori sociali. Come ricercatrice si occupa in ambito internazionale del tema della partecipazione nei quartieri sensibili. Coordina diversi progetti per Onlus e ONG volti all’integrazione di giovani richiedenti asilo e orientamento professionale.
Linda Borra: psicologa psicoterapeuta gruppanalista. Laureata presso l’Ateneo patavino, si è’ interessata alla ricerca in psicologia clinica, sociale e cross-culturale. Attualmente lavora nel campo delle dipendenze comportamentali (DGA) presso il Ser.D dell’AUSL di Ferrara’.
[1] Da Bollas (2015): “the unconsciuos fantasy that the mind is a trouble-making entity that needs formulaic structuring in order to be updated by an android implant. […] and the complex processes of thought—are implicitly viewed as an impediment to the successful implementation of programmes that may be person dependent”.
[2] Il concetto di matrice è stato descritto da Foulkes come: “La rete di tutti i processi mentali individuali, il mezzo psicologico in cui s’incontrano, comunicano e interagiscono, può essere chiamata matrice. [La matrice] naturalmente è una costruzione, alla stessa maniera in cui lo è il concetto di traffico o, già che ci siamo, di mente” (Foulkes, Anthony, 1957, p. 24).
[3] Letteralmente “febbre da cabina”, quella condizione che le persone hanno sperimentato all’inizio del lock down, in cui si potevano presentare sintomi quali ansia, senso di irritabilità claustrofobica, tristezza, angoscia, noia, mancanza di entusiasmo ed energia, solitudine, letargia, ecc. Suddetti elementi fanno riferimento al confinamento domestico e alla limitazione dei movimenti.
[4] La paranoia per il Covid-19 sta creando una nuova ondata di fake news dannosa che aveva caratterizzato anche altri momenti sociali importanti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), per riconoscere questo problema, ha coniato un sillogismo come “infodemia”.
[5] Dato sensibile che può essere un evento, una relazione, un oggetto.
[6] Individui, gruppi e organizzazioni di fronte all’emergenza. Sviluppare pensieri per apprendere dall’esperienza (2020) Ricerca Studio APS
[7] Bollas C. (2015) “A secular world without ideals or vertical meaning has left the populations of the 21st century living in an era where bewilderment is not simply an after effect of the previous two centuries but a defensive posture. If we cannot construct good dreams for selves, families, regions, nations and the world; if we therefore cannot construct the future as a mental object collecting those dreams and utilising them for vital matrices that connect citizens of all nations in a meaningful progression, then as adaptive creatures we have turned to new strategies in order to tread water”.