QUANDO PENSARE IL CAMBIAMENTO DIVENTA POSSIBILE
A cura di Marta Giuseppini, Maria Rita Infurna
Nota: La dott.ssa Giuseppini è responsabile dell’ideazione e stesura del presente lavoro, che rappresenta un estratto della Tesi di Specializzazione presso la Scuola Quadriennale in Psicoterapia di Gruppo ITER s.r.l., A.A. 2019/20.
La prof.ssa Infurna ha effettuato la supervisione scientifica del presente lavoro, anche in qualità di relatore delle Tesi di Specializzazione presso la Scuola Quadriennale in Psicoterapia di Gruppo ITER s.r.l., A.A. 2019/20.
Abstract
Attraverso un vertice gruppoanalitico, che ha consentito di dare una lettura a più livelli (strutturale, organizzativo e culturale) rispetto alla complessità del sistema penitenziario, è stata condotta la seguente ricerca a carattere qualitativo attraverso la costruzione e somministrazione del questionario “Uno sguardo oltre le mura”. Il fine è stato quello di indagare e sostenere il valore e il contributo che la funzione psicologica potrebbe offrire in ambito penitenziario, cercando di comprendere per quanto possibile, in che modo essa si compia nell’Istituzione Penitenziaria: quali le caratteristiche, specificità e criticità proprie del contesto che influiscono e determinano l’espletamento dell’intervento psicologico? L’emergenza sanitaria Covid-19 ha reso ancor più evidenti una serie di forti disagi e criticità che coinvolgono il sistema penitenziario. Ciò permette di riflettere ancor più sulla necessità di valorizzare e potenziare alcune aree e aspetti che riguardano la funzione psicologica, a finché questa si renda utile al funzionamento istituzionale, organizzativo e comunitario dell’Istituzione. Sostenere una visione comunitaria, più gruppale e meno individualistica della stessa funzione psicologica permette di pensare ad interventi su e attraverso la rete, ovvero sulla qualità relazionale e comunicativa del contesto, quale fattore primario della qualità della vita e, quindi, del funzionamento di tutta la comunità carceraria.
Parole chiave: funzione psicologica; contesto penitenziario; gruppoanalisi; rete; istituzione
1. Premessa
Il carcere da un punto di vista mediatico è sempre stato sotto i riflettori, spesso visto come luogo alienato e alienante, qualcosa di simbolicamente e fisicamente “esterno”, lontano dalla società civile, un mondo complesso che a fatica si riesce o si vuole conoscere (Pajardi, 2008). Storicamente, compito primario del carcere era quello di pensare alla sicurezza sociale mediante una funzione deterrente veicolata dall’esercizio della pena, al fine di evitare il rischio di recidiva dei reati commessi, senza tener conto del benessere psicofisico delle persone internate (Goffman, 1961). Con la riforma dell’Ordinamento Penitenziario attraverso la Legge 354/1975, la pena non assume più solo il carattere afflittivo, ma anche rieducativo. La situazione odierna mostra una difficoltà del contesto carcerario di offrire strumenti e quindi possibilità per il reo di reinserirsi sperimentando uno status di uomo nuovo, rieducato.
In questo particolare periodo storico di emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 si è assistito all’accentuazione di una serie di disagi, difficoltà e criticità già presenti. La letteratura scientifica evidenzia, infatti come gli aspetti strutturali, organizzativi, istituzionali e culturali di questo micro-cosmo si ripercuotano da un punto di vista psicologico clinico, sulla qualità della vita di tutta la comunità carceraria, con effetti determinanti non solo sulla personalità e sulla salute psicofisica dei detenuti, ma anche di chi vi lavora a stretto contatto con l’utenza in particolare il personale di polizia penitenziari (Sanna, 1997; Patrizi, 2005; Vagni, 2008). Considerata l’incapacità del contesto carcerario di saper comunicare le forti emozioni che lo connotano, se non attraverso la comunicazione “non verbale” che si riflette spesso e volentieri in agiti e fenomeni di violenza (Serra, 2004), si può comprendere come la funzione e l’intervento psicologico acquisisca un valore fondamentale nell’agire proprio a livello delle relazioni e quindi della capacità comunicativa del carcere, assumendosi l’impegno e il compito di promuovere una cultura del saper fare, che consenta al carcere di pensarsi e narrarsi, non più come “contenitore” o “centrale del disagio”, ma come “luogo di opportunità e cambiamento”. Ma quanto tutto ciò è reso possibile dalla stessa istituzione penitenziaria? Quanto gli psicologi vengono messi nelle reali condizioni di poter svolgere il loro intervento, utile al benessere psicofisico non solo del singolo ma dell’intera comunità carceraria?
2. Risorse e criticità della funzione psicologica in ambito penitenziario
La Riforma dell’Ordinamento Penitenziario (26 luglio 1974), ha delineato le principali funzioni dell’Istituzione penitenziaria: “contenimento e cura” in funzione della sicurezza individuale, sociale e collettiva; “rieducazione, riabilitazione e reinserimento sociale” del condannato. La “cura” parte proprio dalla presenza e dall’integrazione di molteplici livelli di intervento effettuati sia in parallelo che in momenti diversi di un unico percorso, grazie al lavoro sinergico dell’equipe multidisciplinare, incentrato sul reo e sulle cause psicosociali e personologiche che l’hanno portato alla rottura del patto sociale, e quindi a commettere il crimine. La psicologia è presente in tale ambito, da quasi 40, acquisendo a fatica una propria scientificità e specificità, rispetto agli strumenti e ai contenuti, differenziandosi per varie funzioni, tipo di attività e interventi, sostenuta dai diversi mandati a seconda l’inquadramento normativo del ruolo (Brunetti, Sapia, 2007).Gli psicologi penitenziari, inizialmente in qualità di esperti ex art.80 (Legge 354/75), sono stati chiamati soprattutto per incarichi di consulenza rispetto alle attività di “Osservazione e Trattamento”, e sostegno agli imputati (con lo scopo di rilevare carenze psicofisiche e le altre cause del disadattamento sociale), che si attuano all’inizio dell’esecuzione della pena e proseguono durante la detenzione, con il fine ultimo di portare il detenuto al reinserimento sociale. Oltre che dall’Amministrazione Penitenziaria, l’esperto ex art.80, può essere incaricato dal UEPE (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna), nell’occuparsi del trattamento socio-educativo delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, svolgendo le indagini socio-familiari preliminari all’esecuzione della condanna, definendo un programma di trattamento e seguendo in itinere l’andamento delle misure alternative alla detenzione. Nel corso degli anni ’80, inoltre, è stata ritagliata una nuova dimensione per l’esperto ex art.80, chiamato a svolgere la propria funzione nel Servizio Nuovi Giunti, stabilito con la Circolare Amato n 3233/5683 intitolata “Tutela della vita e dell’incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati” (Marotta, 2008). In questo servizio il professionista non svolge nessuna delle attività fino ad allora caratterizzanti (osservazione, trattamento e sostegno), ma risponde ad un mandato specifico, ossia la valutazione e l’accertamento dell’eventuale presenza di diversi livelli di rischio (sia dei soggetti che fanno il loro primo ingresso per la prima volta in carcere, sia dei soggetti trasferiti da un carcere ad un altro) di mettere in atto o essere oggetto di condotte violente, cercando di prevenire episodi di autolesionismo e suicidio (Taraschi, 2007; Garuti, 2012). Successivamente con la Legge Divo n 239 del 22/6/99, significativo è stato il passaggio e la riorganizzazione del personale sanitario e delle risorse destinate alla sanità penitenziaria, non più sotto la gestione dell’Amministrazione Penitenziaria ma sotto la gestione del Sistema Sanitario Nazionale, prevedendo l’entrata in gioco di un nuovo datore di lavoro per gli psicologi, le ASL (L.833/197 del 2008). Gli psicologi afferenti al SSN (Servizi per le dipendenze e salute mentale), o privato sociale, strutturano interventi che devono rispondere a un mandato di prevenzione e cura, sostegno del disagio psichico e sociale, nonché la tutela della salute mentale e fisica, attraverso anche la prevenzione di patologie infettive e tossicodipendenze (permettendo di svincolare l’intervento psicologico dalle attività di trattamento). È prevista inoltre la partecipazione al Consiglio Disciplina (Decreto legge n 123 del 2018) in cui vengono deliberate le sanzioni, ovvero viene valutata l’idoneità del detenuto nell’essere sottoposto a provvedimenti disciplinari molto rigidi come per l’art.14, che prevede l’isolamento protratto fino a 6mesi; e al Consiglio Disciplina Integrato che deve prevedere la partecipazione di 3 esperti ex art. 80 per l’applicazione dei regimi detentivi ancora più afflittivi. Le prestazioni psicologiche devono perciò tenere conto della diversità di condizioni in cui si trova la persona di una comunità, che sarà presente nelle fasi di: accoglienza (visita psicologica dei nuovi ingressi), diagnosi e osservazione (assesment psicologico, somministrazione test questionari e scale valutative e osservazione psicologica), detenzione (sostegno agli imputati, trattamento psicologico individuale e di gruppo, prevenzione del disagio psicologico e partecipazione al Consiglio Disciplina ex 14bis a tutela del detenuto), dimissione e post-dimissione (preparazione psicologica alle dimissioni e attivazioni contatti esterni per il supporto psicologico post carcere). Questo più che favorire una specializzazione di competenza e alleggerimento della mole di lavoro e del carico di responsabilità dello psicologo, sembra aver determinato una spaccatura ancor più visibile all’interno dello stesso servizio di Psicologia Penitenziaria, mettendo in risalto le criticità dell’espletamento della sua funzione che sembrano fare capo soprattutto a questioni di ordine etico-deontologico in un contesto ad alta complessità relazionale (Tagliente, 2002; Bruni 2008). È importante sottolineare, inoltre che l’aspetto frammentario della Psicologia Penitenziaria non riguarda solo la diversità dei mandati (Amministrazione Penitenziaria, ASL, ecc) e le attività di intervento, ma anche aspetti normativi, retributivi, assicurativi e onorario. Tra le diverse attività, lo psicologo è chiamato a formulare valutazioni di osservazione scientifica della personalità; valutare il pericolo di recidiva; indicare l’idoneità del detenuto ad accedere ai permessi premio o regimi alternativi la detenzione; offrire supporto psicologico; prevenire il suicidio; talvolta facilitare il dialogo tra il detenuto e i familiari; comunicare al detenuto notizie spiacevoli (lutti, morti improvvise ecc); connettere il detenuto con le risorse umane presenti in carcere o con altri servizi del carcere per consentirgli di recuperare una qualità di vita compatibile con la dignità umana; nel trattamento psicologico dei condannati per i reati sessuali in danno di minori e tutti gli interventi del SSN. Inoltre, il sostegno psicologico viene attivato per tutti quei detenuti in attesa di giudizio che non possono usufruire del servizio di Osservazione e Trattamento, in quanto ancora non condannati in via definitiva, con lo scopo di evitare una riduzione di interessi della persona in campo affettivo e familiare, cercando di contenere il quanto più possibile gli effetti traumatici della carcerazione (Giannelli, 2001). È chiaro, quindi, che una delle maggiori criticità, del lavoro psicologico in carcere, risiede proprio nelle molteplici richieste istituzionali, spesso e volentieri in conflitto con il mandato di promozione della salute, espresso dal Codice Deontologico degli Psicologi Italiani (CDPI).“ La richiesta del committente sembra essere orientata prevalentemente alla riduzione di situazioni critiche per la sicurezza sociale e penitenziaria, più che ad una vera e propria riabilitazione ” (SIPP, 2005, pg.4). L’istituzione richiede allo psicologo di intervenire al fine di garantire la dimensione della “sicurezza” e del “controllo sociale” piuttosto che di promuovere un reale benessere psicofisico del detenuto, il quale rischia così di diventare oggetto, piuttosto che soggetto, dell’intervento stesso, con le inevitabili ricadute negative del caso. La stesura del programma trattamentale, inoltre, necessita di una adeguata e attendibile documentazione circa le informazioni della persona (art.7 CDPI). Questo rivela un altro aspetto problematico di tale procedura con una scarsa tutela dell’utente, in quanto la scelta per i professionisti psicologi di quali informazioni condividere, o meno, fa ben intendere come rispetto al trattamento ci sia sempre una conoscenza parziale, e non globale, del detenuto che esprime una criticità dell’organizzazione penitenziaria, riflettendosi inevitabilmente sull’operato dello psicologo (Donelli, 2008). Oltre a ciò, è necessario sottolineare come l’assenza di risorse vada ad incidere anche sulla gamma di strumenti utilizzati. Lo psicologo, potenzialmente avrebbe la possibilità di avvalersi di un’ampia gamma di strumenti di tipo clinico: colloquio (penitenziario, motivazionale, seduta singola), interviste semi-strutturate, schede di valutazione, questionari, cartella psicologica, reattivi psicodiagnostici, psicoterapia individuale e di gruppo (Bruni, 2008). Nella realtà, invece, l’unico strumento di indagine utilizzato diventa il colloquio, clinico e di sostegno. Ma anche nello svolgimento del colloquio, lo psicologo non si trova in condizioni di setting adeguate. La precarietà degli spazi e la necessità di salvaguardare l’incolumità dello psicologo (colloqui a porte aperte), rendono difficoltosa la costruzione di un setting adeguato all’intervento (SIPP, 2005). L’Istituzione, tuttavia è chiamata a rispondere e garantire le condizioni minime (spazi il più possibile idonei) per la strutturazione di un setting accettabile che consenta allo psicologo di svolgere il compito per il quale è stato chiamato. Il lavoro psicologico (in tale ottica) può acquisire un ruolo ancor più fondamentale perché offre, oltre a un intervento sul detenuto e su chi vi lavora a stretto contatto (considerando il contesto emotivamente forte), la possibilità di lettura del contesto al fine di comprenderne le falle. L’analisi del contesto culturale e organizzativo permette di offrire ai colleghi operatori nel servizio, un quadro di lavoro (di cura) con i gruppi, compiuto nelle realtà istituzionali penitenziarie (Carli, 2006; Paniccia, Giovagnoli, e Giuliano, 2008). Ricordiamo che il carcere si configura come generatore del disagio psichico, non solo per ciò che viene tolto ma soprattutto imposto. La sensazione di solitudine, la limitata gratificazione e la mancanza di progetti strutturati, determinano fenomeni di cortocircuito che limitano l’inclinazione alla sperimentazione necessaria per uscire da situazioni di inerzia. La figura dello psicologo, inserito in una rete di collaborazioni, può rendersi utile come parte attiva ad individuare il disagio e a segnalarlo ai colleghi. Lavorare insieme come gruppo, aiuta a diluire lo stress e a distribuire il carico di lavoro senza che si creino ingiuste concentrazioni di responsabilità sui singoli (Profita, Ruvolo, Lo Mauro, 2007). Si può dedurre, quindi, come un intervento sulla rete e sulla modalità comunicativa del carcere, anche attraverso interventi di formazione alla “relazione d’aiuto” estesi a tutto il personale penitenziario, possa sostenere un passaggio e quindi un cambiamento da una cultura carcero-centrica dell’agito, ad una cultura del “saper fare”. Nonostante negli ultimi anni si sia assistito ad un cambiamento che ha visto l’istituzione richiedere di più la nostra presenza, sia per quanto riguarda il detenuto, che la formazione e il benessere del personale penitenziario, rimangono una serie di criticità e ostacoli riferiti soprattutto al fattore economico e di tempo (come il monte ore di lavoro ridotto). Negli interventi di trattamento penitenziario ciò che risulta essere necessario non è solo lavorare sul qui ed ora dell’esperienza detentiva, ma risulta ancor più necessario lavorare in prospettiva della fase di dimissione e post carcerazione della persona, se si vuole davvero abbracciare l’ottica di prevenzione e riduzione del rischio di recidiva e promozione del benessere sia del singolo, sia della collettività. L’attenzione a questa fase di post carcerazione risulta ancora oggi essere lacunosa sia per il difficile accesso alle risorse territoriali, sia per i diffusi meccanismi di diffidenza e ostracismo messi in atto dalla società esterna: spesso e volentieri i detenuti usciti dal carcere si ritrovano senza una reale rete di supporto materiale e sociale, essendo spinti così a reiterare lo stesso o altri reati.
Alla luce dell’emergenza sanitaria Covid-19, anche rispetto a quanto testimoniato dalla letteratura e dai recenti fatti di cronaca, la realtà penitenziaria fa ancora molta fatica ad adempire la funzione di prevenzione, riabilitazione, ma soprattutto reinserimento sociale della persona in modo da consentirle di recuperare un buon rapporto con la norma sociale. I modelli di intervento risultano ancora afferire a modelli burocratici che andrebbero revisionati, perché troppo adempitivi. Risulta necessario, quindi, parlare in termini di “sviluppo di strategie di rete”, quale potenziamento sistemico dei rapporti tra il penale e il sociale, attraverso la costruzione di relazioni basate su buona comunicazione tra società esterna e carcere, che guardi al benessere e al reale cambiamento della persona reclusa, integrata nel suo ambiente, con l’intento di coltivare le sue potenzialità e sviluppare la sua autonomia (Maguire, 1989). L’esigenza di attuare forme efficaci di reinserimento attivo e di prevenzione di recidiva sostiene la necessità di far circolare una cultura pro-sociale e di promozione delle responsabilità. La finalità primaria è quella di prefigurare possibili scenari di sviluppo e di messa a punto di strumenti e metodi adeguati a cogliere questi difficili nuovi spazi di confronto tra attori sociali e istituzioni normative. La psicologia, quindi, intesa in questi termini, non rimane più limitata al semplice ruolo istituzionale, ma può assumersi la responsabilità di educare il contesto, attraverso anche la formazione per chi vi lavora all’interno, nella costruzione di una relazione di aiuto che possa offrire l’opportunità non solo ai detenuti, ma a tutta l’istituzione di rinarrarsi in un’ottica comunitaria, che mira al recupero e reinserimento sociale della persona, contribuendo a trasformare nell’immaginario collettivo il carcere, non più come luogo di reclusione del male sociale, ma come comunità trattamentale e riabilitativa.
3. La ricerca: “Uno sguardo oltre le mura”
3.1 Obiettivi della ricerca
La ricerca a carattere qualitativo, condotta attraverso la costruzione e somministrazione di un questionario, si pone l’obiettivo di comprendere, secondo un vertice di lettura gruppoanalitico, in che modo si espleta la funzione della psicologia in un contesto atipico e totalizzante, quale quello dell’istituzione penitenziaria. Considerare le criticità e specificità del contesto carcerario è utile per comprendere quali siano i limiti, ma anche le aree in cui la psicologia possa potenziare la sua funzione e apportare il suo contributo, arrivando a riflettere sulle strategie d’intervento preventivo attuate e su quelle che possono, e devono, essere attivate in un’ottica di promozione della salute di tutta la comunità carceraria, ivi compresi chi vi lavora. Ciò che si vuole far emergere è come la funzione psicologica si narra all’interno del sistema penitenziario, in base anche a una chiarezza o meno rispetto ai ruoli, ai mandati, alle attività, alla mole di lavoro, al fine di offrire, per quanto possibile, uno spaccato di realtà rispetto alle condizioni in cui lavorano gli psicologi negli istituti penitenziari italiani. Mettere in luce i principali aspetti critici è utile al fine di creare nuovi spazi di pensiero che trasformino le criticità in opportunità di sviluppo per la stessa funzione psicologica: offrire la possibilità alla stessa psicologia di narrarsi in modo diverso, e pensarsi davvero come parte integrante del sistema penitenziario. Infine, ma non meno importante, alla luce dei recenti fatti di cronaca che vede attualmente l’Italia, come il resto del mondo, colpita dalla diffusione virale del Covid-19, è nostra curiosità e interesse cercare di comprendere quale sia la responsabilità della funzione psicologica e gli interventi attuati per prevenire situazioni critiche di disagio e violenza, che l’emergenza sanitaria ha messo ancor più in evidenza all’interno degli istituti penitenziari, permettendo di riflettere anche sulla necessità di un lavoro di rete quale strumento di comunicazione interna/esterna al carcere, per una cultura di promozione umana e sociale.
3.2 Il questionario: “Uno sguardo oltre le mura”
Come strumento d’indagine è stato costruito il questionario “Uno sguardo oltre le mura” che si compone in totale di 30 domande sia a risposta multipla sia aperta, raggruppate in 5 aree. Partire da un’analisi preliminare a più livelli (organizzativo, istituzionale, culturale) del contesto carcerario, è stato utile per riflettere sul ruolo, e la responsabilità che la funzione psicologica riveste in tale ambito, soprattutto nel trovare e attivare diverse modalità di pensiero, più lineari e orientate agli obiettivi prefissati dall’istituzione. Le 5 aree che compongono il questionario sono:
3.3 Metodologia e tecniche
Il questionario è stato creato attraverso l’utilizzo di un software collaborativo, “Moduli Google”. Le risposte sono state quindi raccolte e collegate a un foglio di calcolo che viene compilato automaticamente, offrendo anche la possibilità di leggere le risposte singole dei partecipanti. Per la trasmissione e diffusione del questionario, l’utilizzo di tale strumento multimediale si è rivelato molto utile, soprattutto considerando le limitazioni (dovute anche all’emergenza Covid) di contattare personalmente le diverse strutture penitenziarie, su territorio italiano, per il reclutamento dei partecipanti. Considerando il numero degli istituti penitenziari italiani, 191 in totale, e non disponendo di una lista ufficiale rispetto al numero totale di tutti gli psicologi che vi lavorano, per il reclutamento e diffusione del questionario, si è contato soprattutto sul passaparola tra colleghi psicologi che lavorano nelle strutture penitenziarie, o sono afferenti ai servizi ASL. Oltre che via e-mail di aiuto è stato anche la diffusione del questionario tramite il gruppo nazionale di Whatsapp di “psicologi penitenziari”. Tuttavia, si è dovuto tener conto, che essendo un’app multimediale, non tutti i partecipanti, vuoi per motivi d’incompatibilità del software, vuoi per motivazioni personali, hanno ricevuto o partecipato al questionario, inoltrato nel mese di aprile. I dati sono stati raccolti per lo più nel mese di maggio. Nonostante siano stati fatti più recall ai professionisti, il campione non si è rivelato molto grande (30 partecipanti), ma comunque esaustivo ai fini della nostra indagine qualitativa.
3.4 Target
Il questionario è rivolto solo ai professionisti psicologi (o chi possiede una laurea in psicologia) che lavorano o collaborano con le strutture penitenziarie su territorio nazionale, considerando il proprio inquadramento normativo del ruolo. Specificare il target è necessario soprattutto per chi lavora in qualità di esperto ex art.80, in quanto secondo l’Ordinamento Penitenziario tale ruolo è ricoperto non solo da psicologi ma anche criminologi, o chi ha formazione giuridica e sociologica (informazione utile su cui riflettere perché questo prevede che all’interno degli istituti non vi sia differenziazione funzionale tra psicologi e non). Si è pensato quindi ai consulenti esperti ex art.80 L.354/75, indicati dal Ministero di Giustizia; al personale di ruolo dell’Amministrazione Penitenziaria; agli psicologi referenti al servizio ASL (normativa dal DPCM 1/4/2008); agli esperti presso il Ministero di Giustizia agli uffici dell’UEPE (Uffici di Esecuzione Penale Esterna); agli esperti presso il Tribunale di Sorveglianza, come esperto carcerario (art.80, L.354/75); agli ausiliari del pubblico Ministero o del Giudice; ai componenti privati (in qualità di Giudice onorario) del Tribunale per Minorenni (art 2 del RDL 20 luglio 1934, n.1404); ai consulenti esperti dei Centri per la Giustizia Minorile (art.7, comma 6, art.8 del DL 28 luglio 1989, n.272) e nei “USSM” (Uffici di Servizio Sociale Minori). Sono stati inoltre inclusi nel campione anche tirocinanti psicologi che svolgono attività nelle strutture penitenziarie o nei servizi ASL che collaborano con il carcere. L’eterogeneità del campione è stata pensata proprio in rapporto alla complessità e multisettorialità della funzione psicologica all’interno dell’ambito penitenziario, al fine di avere una visione più completa possibile di come la psicologia si spenda e differenzia in tale ambito (diverso da ogni altro ambito applicativo, clinico o sociale), e quali i nodi problematici.
4. Analisi dei dati
Su un campione di 30 persone, si è cercato di fornire una lettura del questionario sia a un livello micro che parta da un’analisi puramente descrittiva di quanto emerge in ogni singola area, sia a un livello macro che rifletta sui dati connessi tra loro e tra le varie aree del questionario, cercando di restituire un’immagine globale della funzione psicologica nella realtà degli istituti penitenziari italiani, con riferimento anche a quanto sostenuto dalla letteratura scientifica in materia.
AREA 1 “Informazioni generali”
Il campione si compone e divide in:
Grafico 1. Tempo di servizio svolto presso l’istituto penitenziario |
La maggior parte dei professionisti (il 53,3%) lavora nella stessa struttura da più di 24 mesi; una parte del campione (16,7%) lavora nella struttura da un tempo che va tra i 12 e i 24 mesi; il 13,3% che sono tirocinanti lavorano nella struttura da meno di 6 mesi; e la restante parte (16,7%) tra i 6 e i 12 mesi. Rispetto all’eterogeneità dei ruoli non sembra esserci una correlazione significativa tra il tipo d’impiego e la durata di tempo della loro presenza nella struttura. Rispetto alle ore d’impiego settimanale del professionista il campione sembra non differenziarsi rispetto al tipo di ruolo e funzione svolta: il 33,3% lavora tra le 12-24 ore settimanali; il 20% tra le 7-12 ore; il 10% lavora meno di 7 ore settimanali; il 13,3% tra le 24-36 ore; il 15% lavora 38 ore settimanali; un 3,3% lavora 15 ore mensili.
Grafico 2. Ore settimanali impiegate presso la struttura |
Inoltre, emerge che la maggior parte del campione (56,7%) non ha svolto in precedenza servizio in altre strutture.
Rispetto al numero di colleghi psicologi presenti nelle strutture in cui lavora il professionista, emerge che: nel 6,7% dei casi non ci sono altri colleghi, il professionista opera da solo; il 13,3% riporta la presenza di 1 collega; il 23,3% riporta la presenza di 2 colleghi nella struttura; il 10%, 3 colleghi; il 3,3%, 4 colleghi; il 13,3%, 5 colleghi; il restante 30% dichiara di lavorare con 6 o più colleghi (valore massimo riportato da un rispondente: 20).
AREA 2 “La funzione psicologica”
Rispetto alla responsabilità e al dovere della psicologia, il campione si omogenea rispetto al dovere di promozione e tutela della salute psichica, e presa in carico della fragilità della persona, in un’ottica soprattutto di prevenzione del rischio (auto/etero lesivo), attraverso la creazione di spazi di pensiero che aiutino a riflettere, prendere consapevolezza del proprio sé e delle proprie azioni, al fine di rinarrare la propria storia in vista di un cambiamento che vede l’attivarsi delle proprie risorse personali e socio-familiari. Oltre a questo pensiero che sembra essere condiviso dall’intero campione, si notano poi differenze rispetto alle diverse categorie di ruolo: la categoria di esperti ex art.80 sembra insistere più sul dovere di presa in carico del detenuto, fornendo all’Amministrazione Penitenziaria una precisa osservazione e valutazione personologica del recluso, al fine di strutturate (tramite il lavoro di equipe) un programma di trattamento individualizzato, che deve essere monitorato durante tutto il percorso di detenzione. La categoria di esperti psicologi afferenti al servizio Asl, riportano invece una visione più clinica di quella che dovrebbe essere la responsabilità della funzione psicologica in ambito penitenziario, che verte sulla presa in carico della salute psicofisica della persona, sul monitoraggio del rischio suicidario, sul fornire supporto psicologico e favorire l’adattamento al contesto carcerario al fine di prevenire condotte auto/etero lesive. L’interesse verte più sulla diminuzione del rischio di recidiva attraverso un supporto terapeutico che faccia prendere consapevolezza alla persona di essere protagonista del proprio cambiamento, aumentando anche la compliance al trattamento soprattutto per chi soffre di disturbi mentali o dipendenze. Interessante il pensiero che emerge rispetto anche alla categoria dei tirocinanti, che sembrano avere una visione meno settoriale e più globale rispetto al mandato e al dovere della psicologia, che deve includere e aprire spazi di pensiero anche rispetto all’istituzione, alla cultura locale. Questo potrebbe far riflettere su quanto entrare nell’istituzione e ricoprire un determinato ruolo, influisce sulla capacità critica del professionista nel concepire la funzione psicologica in carcere come un’unica disciplina, che deve mettersi al servizio dell’istituzione senza perdere, però, la sua scientificità e specificità.
Rispetto al tipo di interventi orientati alla rieducazione e riabilitazione psicologica che sono attivi nella struttura presso cui opera il professionista, emerge:
Rispetto al tipo di attività e interventi attivati, la differenza di percentuali sembra essere associata più alla situazione locale dei diversi istituti penitenziari. Questi dati meriterebbero un opportuno approfondimento, su quanto la funzione psicologica sia riconosciuta e quindi supportata nei vari interventi dalle strutture penitenziarie. Perché molti interventi non sono attivati nelle strutture? Quali sono le scelte e le motivazioni per cui sembra non esserci un’area funzionale ben strutturata di psicologia che si occupi del detenuto/paziente nella sua globalità, e che possa permettere un’eventuale specializzazione dei compiti tra i diversi psicologi per affrontare le complesse problematiche etico-deontologiche? Pensare alla creazione di un’area funzionale di psicologia, non solo esprimerebbe un opportuno e più sostanziale riconoscimento della funzione psicologica, ma eviterebbe che la scelta delle modalità e di quali tipi d’interventi psicologici attivare, sia lasciato alle motivazioni e alle scelte personali della struttura penitenziaria in cui lo psicologo si trova a operare (Bruni, 2008). L’area funzionale di psicologia penitenziaria, nella logica citata della globalità dell’intervento, dovrebbe garantire le prestazioni di tipo sanitario, di tipo educativo-trattamentale, di supporto psicologico alla polizia penitenziaria e le prestazioni nell’ambito dell’esecuzione penale esterna. Oltre a quanto finora emerso, rispetto agli interventi di reinserimento già attivati, i professionisti riportano l’importanza di lavorare soprattutto sulla rete sociale, sostenendo una maggiore integrazione e collaborazione tra servizi, al fine sia di ridurre la stigmatizzazione sociale del detenuto quale persona unicamente deviante, fornendo un concreto aiuto e sostegno nel post carcerazione, permettendogli di riscoprirsi come un “uomo nuovo”, e riducendo così anche il rischio di recidiva. Ai fini di un adeguato reinserimento è necessario che la persona sia presa in carico e monitorata per tutto il suo percorso detentivo, attraverso l’attivazione di progetti mirati a un potenziamento e promozione delle proprie competenze psico-sociali e di coping, programmi di sostegno psicologico/psicoterapeutico e interventi di gruppo per la gestione delle emozioni sia per la persona, che per la sua famiglia, soprattutto nella delicata fase di passaggio all’esterno, permettendo un reinserimento graduale che non faccia sentire la persona spaesata e sprovvista di risorse e competenze al convivere sociale. Si ritiene inoltre necessario un lavoro di equipe multidisciplinari che lavorino a stretto contatto con i servizi sanitari sul territorio, e in ultimo, ma non meno importante è necessario promuovere il dialogo e confronto tra operatori penitenziari e detenuti che faciliti l’accoglienza dei bisogni ed esigenze dello stesso, al fine di costruire un progetto condiviso. Nonostante emerga il pensiero comune dell’importanza di attivare programmi e percorsi che accompagnino il detenuto fino al suo reinserimento e nella fase di post carcerazione, i dati che emergono rispetto all’attivazione di un “accompagnamento al fuori” dimostrano come nelle strutture penitenziarie di cui è rappresentativo il campione, tale accompagnamento non sia presente. Come rappresenta il grafico sottostante, infatti, solo il 20% del campione riporta la presenza d’interventi attivi di accompagnamento che si differenziano in: potenziamento della rete (57,7%); supporto alla genitorialità (71,4%); percorsi formativi e professionali di tipo formale necessari all’acquisizione di una qualifica (57,1%); percorsi di supporto emotivo e progettualità futura (42,9%). Il restante 80% del campione riporta l’assenza all’interno della propria struttura di percorsi di accompagnamento nella fase di post carcerazione.
Grafico 4. Attivazione percorsi di “accompagnamento al fuori”
AREA 3 “Criticità del contesto e strategie di rete”
Rispetto alla qualità della funzione psicologica in relazione a tre strumenti essenziali il lavoro di equipe(quindi i rapporti e le occasioni di dialogo tra colleghi psicologi e le altre figure professionali operanti nei vari processi d’intervento), la formazione e la supervisione, emerge che il 97% degli psicologi che compongono il campione non lavora da solo nei vari processi d’intervento, ma intrattiene rapporti di dialogo (sia informali, che formali e strutturate attraverso riunioni di equipe) con altri professionisti (psichiatri, psicologi dell’asl, educatori, assistenti sociali, medici, operatori penitenziari), per la condivisione di aspetti diagnostici e la segnalazione di soggetti da attenzionare; la valutazione dei piani trattamentali; la promozione di attività riabilitative; la discussione e il confronto sia dei singoli casi sia delle dinamiche che emergono attraverso gli interventi di gruppo. Le riunioni di equipe multidisciplinare, sono incentrate quindi sul caso singolo: oltre all’equipe di “osservazione e trattamento” per la valutazione e il monitoraggio del trattamento individualizzato, vengono svolti anche incontri con lo staff di rischio suicidario e con il GOT (Gruppo di Osservazione e Trattamento) e riunioni plenarie integrate (4/5 volte l’anno) che prevedono, oltre alla partecipazione dello staff dell’Amministrazione Penitenziaria, la presenza del personale del III Settore (per interventi sui rischi o crisi, e interventi extramurari), operatori sanitari del Serd e CSM. La restante minima parte del campione riporta che nella struttura non siano previsti incontri strutturati e formali di coordinamento tra psicologi, ma vengano ritagliati dei momenti, in maniera autonoma (mail, messaggi telefonici, scambio di bigliettini, ecc) in cui sono scambiate delle impressioni rispetto ai singoli casi.
Ciò che emerge rispetto a quali dovrebbero essere, secondo i vari professionisti, le modalità più congrue di collaborazione e comunicazione tra psicologi e altre figure professionali, il campione si omogenea sull’esigenza sia di stabilire canali di comunicazione più snelli e veloci come le mailing-list settimanali o schede di osservazione condivisa per lo scambio utile d’informazioni, sia incrementare il lavoro di equipe (attraverso riunioni calendarizzate) impostato in modo più diretto e congruo sulle particolari necessità ed esigenze delle singole persone. I professionisti riportano l’esigenza di aumentare la frequenza delle riunioni e di briefing periodici, sia all’interno del reparto, che tra servizi sanitari e il sistema di Amministrazione Penitenziaria. Nel richiedere una maggiore integrazione degli interventi, si avverte l’esigenza di lavorare sui diversi livelli di comunicazione gruppale (piccoli e grandi gruppi) che coinvolga tutti gli attori che si trovano in contatto con la singola utenza, in funzione di obiettivi specifici supportati da figure competenti per la gestione, conduzione e il coordinamento. Emerge quindi una valorizzazione della costruzione di gruppi di lavoro ad hoc, anche per l’attivazione d’interventi di gruppo. Quanto emerso finora, così come riporta il grafico sottostante, sembra essere correlato a un basso grado di soddisfazione personale, nello svolgimento della propria funzione. Il 60% riporta, infatti, di non lavorare nelle condizioni ottimali, rispetto al 26%. Secondo quanto riportato, le maggiori criticità sembrano essere dovute alla mancanza di spazi idonei per vedere i detenuti, alla mancanza di un buon dialogo e alla presenza d’interferenze da parte del personale amministrativo, e soprattutto alla poca chiarezza rispetto al mandato sociale che richiede una ridefinizione contrattuale del ruolo e della funzione. Ciò che viene riportato dai professionisti è, infatti, soprattutto la confusione rispetto al ruolo e ai compiti delle diverse figure psicologiche presenti (esperti ex art.80, psicologi asl, psicologi Sert). Si avverte la necessità di: offrire a tutte le persone che operano nell’istituto, la possibilità di ripensare le modalità e la metodologia con cui si lavora; strutture maggiori momenti di scambio e circolazione dell’informazione per potenziare il lavoro di rete. Emerge, inoltre, la necessità di avere più ore a disposizione rispetto alla mole di lavoro: dal campione emerge infatti che gli psicologi lavorano in media 12/24 ore settimanali che portano l’intervento alla stima di un tempo medio di 28 min. circa, per detenuto (Bruni, 2013). Ciò che emergere dall’analisi del questionario, e di cui gli psicologi sembrano lamentarsi, sono gli interventi svolti di fretta: spesso non si ha il tempo necessario o la possibilità di dare continuità al lavoro con i detenuti, che possono essere trasferiti improvvisamente senza che il professionista sia avvertito tempestivamente, in modo da dare senso o una restituzione alla persona rispetto al percorso fatto insieme, riducendo cosi l’intervento a delle prestazioni occasionali, costringendo il professionista ad una sorta di inadempienza obbligata. Ciò che si richiede è il riconoscimento reale della professione dello psicologo, soprattutto attraverso una costanza temporale del lavoro (la possibilità di avere informazioni sul detenuto con il quale si lavora, prima che sia trasferito, al fine di tarare l’obiettivo), maggiore sicurezza nel contratto di lavoro e aumento della paga rispetto al carico di lavoro eccessivo. L’aspetto contrattuale e dell’onorario, sono altri due aspetti fortemente critici che riguardano la figura professionale dello psicologo in ambito penitenziario, se si considera che il ruolo ricoperto dal professionista non può essere rinnovabile per più di quattro anni dal momento della sua iscrizione agli elenchi istituiti. Inoltre, l’aggiornamento degli elenchi avviene senza che sia presa in considerazione la valutazione delle esperienze come titolo, determinando una perdita dell’esperienza e professionalità acquisita, come se il professionista dovesse “ripartire da zero”.
Riguardo alla formazione e alla supervisione, quali strumenti essenziali per una buona prassi, il campione si caratterizza per il 63,3% che fa formazione di cui: il 36,8% la fa una volta l’anno o anche meno, il 26,3% la fa una volta ogni 6 mesi. Il 10% più di una volta al mese, e la restante minima parte si divide in 6 mesi l’anno, oppure il personale in corsi ECM con tematiche precise che riguardano per lo più il personale Asl. Un ulteriore suddivisione del campione riguarda: il 10% fa formazione a livello individuale; il 40% fa formazione di equipe; il 50% della formazione riguarda l’Amministrazione Penitenziaria e il restante 30% fa formazione a livello del personale sanitario.
Ciò che emerge rispetto alla formazione sono soprattuto le aree che è opportuno intensificare, i professionisti riportano infatti l’esigenza di una formazione che riguardi tutto il personale (soprattutto di polizia penitenziaria e i nuovi esperti assunti) per facilitare la comprensione del funzionamento e delle peculiarità del singolo istituto, per favorire un miglior adattamento del professionista e una maggiore efficacia del suo lavoro. Si richiede inoltre una maggiore formazione sulla psicodiagnostica, nella gestione dei gruppi (educativi, psicoterapeutici), sulla psicologia dell’emergenza, sulla valutazione del rischio suicidario, sulla gestione delle dinamiche emotive degli operatori che possa consentire sia una migliore comunicazione e scambio di conoscenze al fine di disporre di strumenti utili nel relazionarsi con i detenuti, e prevenire situazioni di burnout che possono alimentare dinamiche di violenza o situazioni critiche con l’utenza. È necessaria, inoltre una maggiore capacità di lettura del contesto, delle fragilità umane che faciliti una comunicazione assertiva del personale e consenta ai detenuti di essere accolti nelle loro richieste e bisogni, oltre che fornire loro informazioni univoche. Rispetto alla supervisione invece, ciò che emerge è che tale attività sembra essere assente negli istituti penitenziari. Il 90% del campione riporta di non fare supervisione. Il 10% che fa supervisione si divide a sua volta nel 66,7% che fa supervisione una volta al mese, e il restante 33,3% più di una volta al mese. La supervisione avviene, inoltre, per il 33,3% a livello individuale; per il 66,7% a livello d’equipe; e per il 33,3% a livello del personale sanitario. L’Amministrazione Penitenziaria non fa minimamente supervisione.
AREA 4 “ Criticità e risorse della funzione”
I professionisti riportano criticità e limitazioni nello svolgimento della propria funzione dovute sia alla mancanza di setting idonei, legati al mantenimento degli aspetti di tempo e spazio. Spesso il colloquio è svolto nelle stanze dell’agente penitenziario o nell’infermeria, e comunque a porte aperte. Inoltre, non si riesce a garantire una costanza nei colloqui con l’utenza per la mancanza di ore a disposizione. Altro aspetto critico della funzione psicologica è senz’altro il mandato poco chiaro. Altre criticità sono legate a una dimensione culturale del carcere, per cui si riscontra ostracismo da parte di alcuni esponenti della polizia penitenziaria. Emerge quindi la necessità dei professionisti di ripensare l’intervento psicologico, che deve avere spazi idonei e del tempo necessario per lo svolgimento degli interventi, riconoscendo e rafforzando il mandato di cura, differenziandolo da quello di custodia. Si necessita, infatti, di una maggiore coordinazione e collaborazione tra l’area della sicurezza (agenti) e l’area trattamentale, al fine di dare spazio reale e mentale al ruolo dello psicologo, e una maggiore costanza con più utenti. Rispetto alla funzione di sostegno psicologico, il campione è concorde nel sostenere l’importanza di rivolgere l’intervento al personale di custodia, alimentando anche una cultura del benessere psicologico e di prevenzione sullo stress lavoro/correlato. Rispetto alla richiesta e alla possibilità di usufruire di un sostegno psicologico da parte del personale di custodia, il 53,3% del campione afferma di non avere richieste da parte degli agenti. Rispetto a quest’ultimo punto, ciò che emerge dal campione è che non esistano nelle strutture dei progetti o percorsi ad hoc per il sostegno psicologico del personale, anche se esiste una convenzione tra l’ordine del Lazio e la polizia penitenziaria, ma i singoli non sembrano conoscere queste attività e spesso fanno richiesta diretta all’esperto che vedono in istituto sulla base di una simpatia o senso di fiducia personale.
AREA 5 “ Carcere e società esterna, emergenza Covid-19 e strategie di prevenzione”
Rispetto alla situazione odierna in cui riversano le carceri italiane a fronte dell’emergenza Covid-19, gli psicologi riportano l’importanza d’interventi di accoglienza e contenimento rispetto alle ansie e paure da contaminazione; fornire informazioni; fare prevenzione e monitoraggio; offrire supporto psicosociale ai detenuti e al personale. Ciò che si ritiene necessario è la strutturazione di un intervento pensato e ripensabile, che non si limiti a pensarsi entro le misure restrittive della legge e dell’istituzione, ma che vada oltre per trovare nuove soluzioni. Anche rispetto all’interruzione dei colloqui e degli incontri con i familiari, è necessario offrire sostegno e una chiara informazione depurata da fantasie ed emozioni, contenendo eventuali distorsioni cognitive e catastrofizzazioni, organizzando e attuando attività tratta mentali alternative (dato che hanno visto di colpo un’assenza di attività quali, la scuola, i corsi, il Serd). A maggior ragione si sostiene ancor di più l’importanza d’interventi di mediazione tra gli operatori e i detenuti, prevedendo una ridefinizione del piano di realtà per rassicurare e diminuire la tensione.
Limiti della ricerca
Rispetto a quanto emerso dalla ricerca, si è dovuto tener conto dei seguenti limiti, in quanto il campione, seppur sufficientemente descrittivo rispetto alle aree d’ interesse che riguardano la funzione psicologica in ambito penitenziario, non possa considerarsi rappresentativo di tutta la realtà penitenziaria italiana. Rispetto alle informazioni generali del campione, il questionario non riporta il nome delle strutture penitenziarie in cui i professionisti svolgono servizio, al fine di ovviare a possibili resistenze da parte degli stessi per una questione di privacy. La mancanza di tale dato però non ci consente di indagare ulteriormente le differenze locali rispetto alle modalità o al tipo d’interventi con cui la funzione psicologica si espleta. Non è stato richiesto inoltre il tipo d’interventi che sono attuati dai singoli professionisti in base al loro ruolo: questo dato avrebbe potuto fornirci maggiori informazioni rispetto a ulteriori differenze tra il lavoro svolto dagli psicologi ex art.80 e quello degli psicologi dell’asl. Inoltre, richiedere anche il tipo di attività svolte dai tirocinanti, avrebbe potuto darci informazioni in più, in merito alla formazione e al tipo di esperienza professionalizzante che i laureati in psicologia possono acquisire in ambito penitenziario. Non è stato inoltre richiesto dal questionario, dati anagrafici quali il sesso del professionista, che avrebbe potuto fornirci nuovi spunti di riflessione rispetto alla qualità dei rapporti interpersonali che lo stesso può intrattenere con gli altri operatori della struttura e con gli stessi detenuti: per fare un esempio, si pensi alla possibile differenza di approccio empatico al lavoro per una professionista femmina, sia nel rapportarsi con personale di polizia penitenziario (prettamente maschile), che con detenuti per reati di violenza sessuale.
Possibili sviluppi futuri
Riflettere sulle criticità che sono emerse, può essere utile ad aprire nuovi spazi di pensiero e sviluppo della stessa funzione psicologica, oltre che dell’intero sistema penitenziario, agendo proprio sulle matrici culturali dello stesso. Agire un cambiamento culturale sull’ambiente, significa, quindi, agire sull’efficienza del sistema penitenziario che deve guardare alla “complessità” del detenuto in quanto persona, offrendogli la possibilità di rileggere il suo crimine e il suo rapporto con l’autorità, stimolandolo così una maggiore adesione e fiducia nel trattamento. Il “gruppo”, inteso non solo come strumento ma come modello metodologico di lettura intervento e azione (formativo-teorico) dà la possibilità di operare sulla matrice culturale di base dei contesti organizzativi e istituzionali di appartenenza, sui confini e sui codici strutturanti l’identità, consentendo di apportare cambiamento inteso come “sviluppo” (Foulkes, 1964; Bion, 2013). Il gruppo, quale strumento d’intervento, è in grado di fornire temi culturali sui quali è necessario attivare una riflessione al fine di avere un’esperienza generativa, ricreativa e trasformativa. Pensare a un intervento formativo gruppoanalitico, rivolto ad esempio al GOT, potrebbe attivare un lavoro di ascolto di sé e dell’altro, con una continua negoziazione emotiva tra i propri vissuti e quelli degli altri, e quindi agire sulla cultura dell’istituzione apportando un cambiamento dei modi di pensare e agire dell’istituzione stessa (Profita, Ruvolo, Lo Mauro, 2007). Il gruppo favorisce, infatti, una riflessione sulla consapevolezza che ogni operatore ha rispetto alla propria appartenenza, spingendolo a mettersi in discussione, stimolando una collaborazione multi-professionale vista come risorsa piuttosto che fatica paralizzante. Rispetto a ciò si potrebbe pensare di partire proprio, dal ripensare una concezione individualistica trattamentale, in favore di una prospettiva che vede nel gruppo un dispositivo di lavoro (operatori e utenti), in grado di attivare processi di costruzione di una comunità terapeutica, che prende forza da un solido e integrato lavoro di rete. Promuovere un dialogo tra servizi esterni e carcere è necessario se si vuole davvero pensare in termini di riduzione del rischio di recidiva: la persona reclusa necessita, infatti, di un sostegno soprattutto nella fase di post-carcerazione, che è molto delicata, perché l’ex detenuto deve confrontarsi con uno stigma sociale di “persona deviante”, che può essere repulsivo e ostacolante nel fornirgli la possibilità di riscoprirsi come “un uomo nuovo” e integrato con il resto della comunità.
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Le autrici
Marta Giuseppini: Psicologa clinica e psicoterapeuta gruppoanalista. Psicodiagnosta in ambito clinico e giudiziario civile e penale. Da anni collabora in qualità di psicologa presso la Casa Circondariale di Viterbo, tramite l’Associazione di volontariato G.A.V.A.C., e con l’U.O.C di Psicologia dell’ospedale di Belcolle (VT), impegnata nell’area dei disturbi alimentari.
Maria Rita Infurna: Psicologa clinica e Psicoterapeuta gruppoanalista, Dottorato di ricerca in Scienze Psicologiche e Sociali conseguito presso l’Università di Palermo e l’Università di Heidelberg (Germania); docente presso la ITER e l’Università degli Studi di Palermo.