INTERVISTA AL PROFESSORE EMERITO FRANCO DI MARIA
A cura di Tiziana Marinaci e Maria Rita Infurna
“Il sentimento mafioso è nella gente comune”, è il titolo di un articolo pubblicato sul giornale Repubblica dal Prof.re Franco Di Maria il 31 luglio 2003. A distanza di 20 anni le sue parole risuonano e sono ancora profondamente attuali. Nell’articolo si legge “Ciò che, dal mio punto di vista, è veramente preoccupante è il fatto che il “sentire e il pensare mafioso”, che si traducono in norme e valori, stili di vita, comportamenti sociali, modalità di relazionarsi e di concepire l’esistenza civile, sono così radicati nel tessuto civile e sociale che, se anche riuscissimo a sconfiggere la mafia come organizzazione criminale, non avremmo sconfitto il “bisogno” di mafia da cui, quasi tutti, siamo largamente pervasi e infettati. […] il nocciolo duro del problema mafia non riguarda soltanto i vertici, problema certamente importante, ma anche e soprattutto i comportamenti della “gente comune”, la cosiddetta società civile (non quella elitaria dei girotondi e delle manifestazioni) ma quella maggioranza silenziosa e acquiescente che si nutre e convive con i propri sentimenti mafiosi. Ciò che deve essere sconfitta è, allora, una mentalità, un modo perverso di concepire e vivere le relazioni con l’Altro […]”.
Queste parole sono state il motore di un nuovo lavoro di ricerca “La Mafia del vivere quotidiano” avviato da un gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università del Salento, il Dipartimento di Scienze Psicologiche, Pedagogiche, dell’Esercizio Fisico e della Formazione dell’Università di Palermo e il Dipartimento di Culture, Educazione e Società, dell’Università della Calabria e soprattutto, al contempo, occasione preziosa, per aprire un nuovo dialogo con il Prof.re Franco Di Maria su un tema che continua ad attraversarci collettivamente.
Un’intervista ricca di contenuti teorici e metodologici, spunti, approfondimenti, condivisione di esperienze sul campo e importanti riflessioni e suggestioni sulla prassi, sul metodo e sull’intervento clinico. Il fenomeno mafioso è stato il pre-testo che ha dato vita a una narrazione molto più articolata e complessa sul pensiero e sugli obiettivi dell’agire psicologico, perché come più volte nel corso dell’intervista il professore Di Maria terrà a sottolineare, “la psicologia o è clinica o non è”.
Gentile Professore,
le siamo sinceramente grati di averci accolti, di aver aperto alla possibilità di questo spazio di pensiero e riflessione su temi che continuano ad attraversarci come psicologi, psicoterapeuti e più ampiamente come persone che condividono un “vivere comune”.
Lei ci ha consegnato un’eredità importante, ci ha mostrato un modo nuovo di pensare e fare della psicologia, è, ed stato, un rivoluzionario del sapere e della prassi psicologica. Ci ha svegliati dal torpore di un pensiero spesso troppo autoreferenziale, quasi esclusivamente intrapsichico, sempre più orientato a patologizzare e semplificare e sempre meno ad interrogare, attraversare, costruire.. Ci ha introdotto a un pensiero complesso, ci ha spostato la poltrona da sotto i piedi per farci capire che in una relazione terapeutica non ci si sta comodi, ci ha nutriti di curiosità portandoci a capire che le certezze negano il pensiero, ci ha disegnato un percorso, palesandoci che la strada migliore non necessariamente è quella più breve, ci ha aperto le porte dell’agorà, ci ha fatto comprendere che la psiche non è un confine dell’individuale ma parte integrante dello spazio collettivo, che il gruppo non è solo fuori ma è anche dentro, che la polis non è uno spazio semplicemente del vivere ma del con-vivere, che lo straniero non ci è affatto estraneo, che l’alterità è il riflesso del nostro essere e che il diventare “inutili” è l’obiettivo ultimo del nostro “fare” da psicologi della convivenza. Ha ribaltato ogni convinzione e perturbato ogni certezza e per questo e ancora molto altro non possiamo che ringraziarla.
Tra gli innumerevoli temi e argomenti che ha approfondito e attraversato, oggi le chiediamo in particolare di metterne al centro uno, un tema che continua ancora a spaventare, a “indignare” ma anche ad alimentarsi, rigenerarsi e per certi versi rinvigorirsi in un contesto che sembra essere ancora estremamente permeabile: parliamo del fenomeno mafioso. Come possiamo, secondo lei definirlo e riconoscerlo?
In questo senso l’identità personale fondandosi sulla introiezione degli strumenti di pensiero delle organizzazioni antropologiche di cui fa parte, famiglia, contesto micro e macroeconomico, contesto sociale e politico, ha un carattere coercitivo di trattenimento nel registro dell’identità.
Sottolineo questo perché la parola identità noi gruppoanaliticamente l’abbiamo fortemente criticata, perché identità conduce il più delle volte alla identicità, mentre noi parliamo del passaggio dalla identità alla autenticità, cioè a un modo soggettivo, personale, di intendere la propria esistenza, le proprie relazioni, i propri rapporti.
Questo è il sentire mafioso.
Quali sono dal suo punto di vista le implicazioni cliniche?
Dal punto di vista clinico, quindi, è una condizione di psicopatologia etnica, endemica. Senza arrivare però agli estremi, perché la mafia non è una psicopatologia nel senso del DSM 5. Una sindrome è un’altra cosa. Non si può mettere la gente sul lettino dell’analista per curarlo di una psicopatologia mafiosa, non esiste questo, casomai è vero che bisogna da un punto di vista della psicologia clinica rimuovere le condizioni che poi determinano questo tipo di sindrome, questo sicuramente sì e questo è un compito della psicologia sicuramente.
E quando parlo di psicologia, lo dico con grande franchezza, io penso ad una psicologia sociale che abbia una matrice clinica. Io penso che la psicologia o è clinica o non è.
Abbiamo bisogno che la psicologia in generale, la psicologia clinica in particolare, recuperi il concetto di campo, è un concetto vecchio di settant’anni, ottant’anni… Lewin lo ha formulato, e dal campo il tema dell’ambiente, dal tema dell’ambiente al tema del contesto… quindi campo, situazione, contesto…polis, poi io l’ho definita a un certo punto, è quanto noi dobbiamo tenere in considerazione per capire anche i comportamenti individuali, cioè o noi ci occupiamo dell’ambiente, della polis, dei contesti ecc.. o noi rischiamo di diventare peggio degli psicanalisti con il paziente steso sul lettino, tutto intrapsichico. Perché come diceva Foulkes, ciò che è dentro di noi è fuori di noi, e ciò che è fuori di noi è dentro di noi.
Allora la scommessa grossa che oggi la psicologia deve affrontare, la psicologia clinica in particolare, è proprio questa, riuscire a trovare i sistemi terapeutici, uso terapeutico in senso ovviamente ampio, per sanare questo vizio originario della psicologia di occuparsi dell’individuo, come se l’individuo fosse astratto dal contesto.
Più di vent’anni fa, facendo il gruppoanalista, mi sono accorto che in un gruppo particolare di pazienti, cominciarono a spuntare dei sogni di natura politica, eravamo nel momento in cui in Sicilia, erano cominciati gli sbarchi dei migranti. Ebbene sono cominciati a spuntare dei sogni persecutori, con persone di colore, con persone che venivano a minacciare la nostra stabilità. Allora che significa che a un certo punto all’interno di una stanza d’analisi spuntano questi sogni? che significano questi sogni? Significa che il nostro inconscio è profondamente influenzato dal contesto nel quale noi viviamo, dalle paure che all’interno del contesto nel quale noi viviamo cominciano ad affiorare e a una serie di problematiche, che poi diventano individuali naturalmente, rispetto a quello che viviamo.
Cosa possiamo fare noi da psicologi clinici?
“Dentro la stanza bisogna sempre occuparci delle risonanze che il mondo esterno ha sul mondo interno e viceversa. La nostra vita è relazione, se non c’è relazione non c’è vita.”
La cosa che mi fa paura in questo periodo storico che stiamo attraversando è che il bisogno di assistenzialismo che si è manifestato alle ultime elezioni politiche, noi abbiamo bisogno di essere assistiti, è di gran lunga più forte di quello che noi psicologi invece possiamo garantire: la sicurezza. Perché l’assistenzialismo crea fragilità, noi dobbiamo costruire sicurezze, quindi passare dalla concezione assistenzialistica dello Stato a una concezione in cui lo Stato offra sicurezza e la sicurezza la si può avere se io ho delle sicurezze interne, una stabilità interna.
Noi psicologi con l’organizzazione criminale non ci possiamo fare niente, noi però possiamo lavorare, sempre pensando al sentire mafioso, all’aspetto emozionale, noi possiamo lavorare su una diversa concezione delle relazioni. Nel senso che le relazioni simmetriche sono quelle ideali, idealmente dovremmo riuscire ad avere relazioni simmetriche, dove non c’è chi dà e chi riceve, ma dove c’è uno scambio. Il più delle volte invece, purtroppo, anche in condizioni tra virgolette “normali” si continua a percepire come importantissimo il fatto che qualcuno si occupi di te: l’assistenza. Come si fa a lavorare per sostituire al concetto di assistenza il concetto di sicurezza? Attraverso la possibilità che noi dovremmo offrire agli insegnanti, non in prima persona, ma come mediatori. Noi dovremmo formare gli insegnanti a questo lavoro, dalla scuola materna fino al liceo, per promuovere l’espressione del proprio mondo emozionale.
Le autrici
Tiziana Marinaci: psicologa clinica e psicoterapeuta ad orientamento gruppoanalitico. PhD in Human and social sciences presso l’Università del Salento.
Maria Rita Infurna: Psicologa clinica e Psicoterapeuta gruppoanalista, Dottorato di ricerca in Scienze Psicologiche e Sociali conseguito presso l’Università di Palermo e l’Università di Heidelberg (Germania); docente presso la ITER e Ricercatrice in Psicologia Dinamica presso l’Università degli Studi di Palermo.