A cura di Agnese Cannistraci
Abstract
L’intento dello scritto è quello di porre l’accento su come il modello gruppoanalitico abbia dato la possibilità, in corso d’opera, di rinarrare un intervento psicologico-clinico in ambito organizzativo, conseguentemente ai repentini e drastici cambiamenti che la pandemia per Covid-19 ha comportato. Suddetto modello, infatti, si fonda sulla possibilità di generare un pensiero complesso, capace cioè sia di scegliere, distinguere e collegare, di guardare con più ottiche, utilizzando diversi punti di vista e intrecciarne così i vari livelli, che di prestare attenzione alle diversità e all’irriducibilità dei fenomeni. In linea con ciò, l’individuo non è considerato solo come frutto dell’introiezione del sociale e della famiglia e, viceversa, le realtà collettive non sono solo la semplice esternalizzazione di eventi intrapsichici individuali. L’analisi dell’identità e del ruolo non possono essere fatte né esclusivamente in relazione all’inconscio individuale, né solo in relazione alla collocazione sociologica e strutturale del soggetto, bensì nel raccordo fra i diversi aspetti del rapporto soggetto/organizzazione.
Nello specifico, il modello formativo psicosociale, permette l’esplorazione del mondo interno e dell’esperienza personale ed inteso come tecnica di intervento che consente, grazie all’analisi della fenomenologia professionale, organizzativa e sociale, una lettura della struttura, dell’organizzazione e della base istituzionale di un determinato contesto con l’obiettivo di facilitarne la comprensione e quindi favorire il processo di analisi e cambiamento; altro elemento fondamentale sarà il resoconto, non solo come strumento clinico, bensì come modello narrativo.
L’intento di questo articolo non è tanto quello di esporre i risultati dell’intervento presentato, bensì di porre l’attenzione sul processo attraverso cui esso si è svolto, poiché in tal modo sarà maggiormente evidente il contributo del modello narrativo e gruppoanalitico di riferimento.
Parole chiave: Covid-19, Burnout, Stress Lavoro-correlato, Gruppoanalisi, Intervento organizzativo.
1. Premessa
Lo scritto che sto per presentarvi vuole trattare ed approfondire il tema della formazione in ambito organizzativo, riportando una ricerca-intervento svolta con il collega Andrea Pucci (psicologo del lavoro e gruppoanalista), presso una residenza sanitaria assistenziale (RSA) di Roma, in merito alla rilevazione e valutazione dello stress lavoro-correlato (SLC) e del burnout.
Il modello gruppoanalitico qui proposto non solo rende possibili le molteplici narrazioni che in un gruppo psicoterapeutico possono generarsi, bensì può essere contestualizzato ed utilizzato anche in un ambito organizzativo, nel quale gli obiettivi sono ben differenti. Nel suddetto contesto, la gruppoanalisi, risulta essere una risorsa, in quanto permette una lettura ed un’analisi gruppale che guardino “e” all’individuo all’interno del gruppo “e” al gruppo di formazione nel suo insieme, come in un percorso parallelo ed integrativo. E ancora, non soltanto all’hic et nunc della vita del gruppo, ma anche all’illic et tunc del contesto sociale, organizzativo ed istituzionale di riferimento.
Tale concezione fa riferimento alla “teoria della complessità”, teoria che nacque nel momento in cui la scienza classica non aveva più i mezzi per spiegare gli aspetti irregolari ed incostanti della natura e mise in crisi l’idea stessa di poter osservare un fenomeno senza influenzarlo. In linea con ciò, l’epistemologia della complessità, prende forma basandosi sull’idea che non sia possibile rintracciare un principio primo applicabile a tutte le situazioni della realtà. Questo perché l’uomo ha preso consapevolezza che la caratteristica principale della realtà è la sua variabilità. Uno degli autori che maggiormente si è occupato di questa tematica è Edgar Morin (Parigi, 8 luglio 1921), filosofo e sociologo francese, che proprio in merito a ciò sottolinea l’importanza di provare a negoziare con l’incertezza e saperci lavorare, in quanto lo scopo della conoscenza è quello di dialogare con il mondo. (Morin, 1982, 1990).
Detto ciò, poniamo ora l’attenzione su come il paradigma della complessità abbia influenzato la gruppoanalisi, tenendo presente che uno degli aspetti che maggiormente la contraddistingue rispetto ad altri modelli concettuali, sia proprio l’attenzione al livello qualitativo, piuttosto che a quello quantitativo. Gli eventi che compongono la vita di un individuo vengono messi in relazione e valutati per quello che è il loro valore psicodinamico e posizionati in uno specifico sfondo spazio-temporale. Da ciò prende forma un secondo elemento, che permette a suddetto modello di effettuare un passaggio da una logica di tipo “o/o”, che guardi o all’individuo o al gruppo di formazione, ad una di tipo “e/e”, che invece consideri entrambi gli elementi e li integri in una visione di totalità capace di generare un meta-pensiero. Anche in questo caso ne risulta una particolare attenzione alle inferenze che si creano tra gli eventi la quale, in contrasto con una logica oppositiva, cerca di cogliere le relazioni e la ricchezza degli eventi, anche se in disaccordo tra loro (Di Maria e Formica, 2009). Dando per consolidata e condivisa l’idea che non sia possibile osservare un oggetto asetticamente, senza influenzarlo, un’ulteriore caratteristica riguarda proprio il ruolo che l’osservatore ricopre nel rapporto con tale oggetto. Ciò, però, non vale solo per quest’ultimo, bensì anche per il soggetto osservante: si pone così l’attenzione sul controtransfert, ovvero quella relazione empatica che produce emozioni nel formatore, il quale avrà maggiori possibilità di mantenere o modificare il percorso e le attività formative in base a quanto rilevato nel setting dell’intervento. Per far sì che ciò sia possibile, è necessario che il professionista che utilizzi un tipo di formazione psicosociale, sia anche detentore di una cultura scientifica che permetta un corretto uso del modello gruppoanalitico.
2. Dall’in-formazione alla trans-formazione
Riprendendo quanto sin ora illustrato ed in linea con il superamento di un pensiero che si limita ad una mera lettura scientifica tradizionale, facciamo riferimento ad una prospettiva che il modello gruppoanalitico utilizza per affrontare il problema della formazione, in modo da superare le dicotomie individuale/sociale, strutturale/sovrastrutturale, intrapsichico/interpsichico, solite della psicologia e sociologia tradizionali. Le realtà collettive non sono solo la semplice esternalizzazione di eventi intrapsichici individuali e l’individuo non è considerato solo il frutto dell’introiezione del sociale e della famiglia. Come precedentemente detto, l’analisi dell’identità e del ruolo derivano dall’incontro fra i diversi aspetti del rapporto soggetto/organizzazione. Da qui l’uso del gruppo di formazione che Di Maria e Lavanco (2002), considerano come un laboratorio esperienziale utile per osservare sia la condivisione mentale di idee ed emozioni tra più persone, sia il rapporto individuo-gruppo, così da poterne comprendere i processi istituzionali che emergono. Considerando, leggendo ed approcciando al gruppo di formazione con una concezione psicosociale, l’apprendimento verrà inteso in un’ottica spiraliforme, ovvero legata a ciò che si sviluppa all’interno del gruppo di formazione. Fondamentale è intendere la formazione non solamente come in-formazione, ovvero la mera trasmissione di sapere, bensì aggiungendo a tale concetto quello di trans-formazione che, per mezzo di un sapere, dà luogo alla costruzione di un senso più articolato. Possiamo intendere questo tipo di formazione come formazione alla complessità, la quale si propone di abbandonare quella modalità di pensiero monistico che si basa sul principio della causalità lineare, a favore di un pensiero duale, inteso come il pensiero proprio della causalità complessa, sistemica e circolare.
Quando si parla di trasformazione però, si parla anche di rottura, discontinuità e crescita dell’incertezza e, per tali motivi, il formatore deve sempre tener conto delle dinamiche e dei vissuti che si genereranno all’interno del gruppo di formazione. Obiettivo primario sarà quello di imparare ad usare mobilità di pensiero duali e riferite non soltanto all’hic et nunc della vita del gruppo, ma anche all’illic et tunc del contesto sociale, organizzativo ed istituzionale.
È stato proprio questo il tentativo fatto rispetto all’intervento che andrò a descrivere nei prossimi paragrafi, ovvero di partire da elementi “dati”, richiedenti una risposta dicotomica di “giusto/sbagliato” da parte della committenza, per poi superarli, andando ad indagare gli elementi di complessità rilevati, meno “certi”, ma più generativi.
3. Il formatore: quale professione?
Nel corso del processo formativo è possibile identificare alcuni momenti che fondano e caratterizzano la professionalità del formatore. Essi sono: l’analisi della domanda, la progettazione degli interventi, la definizione e strutturazione del setting e la gestione dell’aula, la verifica e la valutazione del processo formativo. Per tale motivo, il lavoro del formatore, risulta essere in prima istanza un lavoro di interrogazione e di analisi della richiesta di intervento, di predisposizione della strumentazione teorica e metodologica idonea alla specificità della situazione, di prefigurazione di possibili itinerari alternativi a seguito del costante monitoraggio del processo formativo. In linea con quanto appena detto, la preparazione e l’esperienza professionale del formatore devono convergere nelle capacità di osservazione, ascolto, analisi-diagnosi, interpretazione, ricerca, assunzione e gestione del ruolo.
Ma quale professione? Non vuole essere questa una modalità autocelebrativa della nostra professione, ma vorrei qui negare una banalizzazione del compito che spesso accompagna e condiziona l’immagine del fare psicologico – e quindi dello psicologo – nelle organizzazioni. È diffusa l’idea che tutti possano fare colloqui, selezione e sviluppo del personale o fare formazione, tramite l’utilizzo di attività scarsamente connotate come tecniche specifiche per le quali è necessaria una teoria della mente che le contenga. Come afferma Ponzio (2002), occorre perciò supportare gli psicologi verso una costruzione ed interpretazione competente del ruolo professionale attraverso:
– La definizione di una specifica teoria della tecnica dell’intervento psicologico nei contesti organizzativi;
– La conoscenza e presidio di tecniche efficaci ed efficienti, in grado di affrontare i problemi delle organizzazioni in tempo utile e con risultato;
– L’interpretazione ed il vissuto di un ruolo integrativo, ovvero senza derive difensive o sostitutive ed autoreferenti.
Nello specifico, lo scopo dello psicologo-formatore sarà la promozione di una competenza nella simbolizzazione e motivazione al rapporto sociale interno all’organizzazione e con l’ambiente di riferimento. Tramite l’intervento psicologico si promuove la competenza organizzativa, definita come la capacità che le componenti organizzative acquisiscono – tramite l’intervento psicologico – di modificare/adattare la rappresentazione di sé e della propria organizzazione e di orientare l’azione ad una maggiore efficienza ed efficacia entro l’organizzazione stessa e nei confronti dell’ambiente. Per tale motivo, oggetto dell’intervento psicologico non sono le persone, ma i processi di simbolizzazione, le culture che sono alla base del comportamento.
A tutto ciò si aggiunge un’ulteriore competenza che, oltre a racchiudere in un abbraccio quelle già espresse, dona un plus valore al processo formativo: stiamo parlando della competenza gruppoanalitica, la quale permette al formatore di leggere, interpretare e lavorare con le molteplici dinamiche che, via via, emergeranno nei gruppi di formazione e che riguarderanno gli utenti, l’organizzazione ed il formatore stesso.
4. Dall’analisi dei bisogni all’analisi della domanda
Nel paragrafo precedente sono stati esposti i quattro momenti caratterizzanti la professionalità del formatore, momenti che è possibile raggruppare, mutuando la terminologia dell’approccio sistemico e gestionale all’analisi dell’organizzazione, in un sistema informativo (analisi dei bisogni e valutazione dei risultati) ed in un sistema operativo (progettazione ed azione formativa).
Quando si parla di analisi dei bisogni, facciamo riferimento ad una derivazione anglosassone che corrisponde all’inglese training needs analysis. Porsi nell’ottica dell’analisi dei bisogni comporta, come Avallone (1989) dichiara, l’attivazione di un comportamento di esplorazione e ricerca, il vincolare le proprie opzioni a dati empirici accuratamente raccolti ed il tener conto della pluralità delle forze e dei soggetti coinvolti per la realizzazione dell’intervento di formazione. L’utilizzo del termine “bisogno” rinvia ad una necessità, un’esigenza, un’assenza che l’azione formativa dovrebbe colmare, riempendone i vuoti. Tale concezione rimanda ad un approccio ortopedico – di riconduzione all’ortos – che si propone di riportare ad una condizione di normalità l’oggetto (individuo, organizzazione) “danneggiato” e/o non correttamente funzionante. Ciò che invece la formazione psicosociale si propone di fare, è raccogliere il prezioso contributo datoci da Renzo Carli sull’analisi della domanda in psicologia clinica, al fine di ripensare l’analisi dei bisogni in termini, appunto, di analisi della domanda di formazione. In quest’ottica non vi è un intervento sulle mancanze dell’organizzazione, bensì l’obiettivo dell’intervento di formazione diventa quello di gestire con la committenza e l’utenza il difficile processo di riappropriazione della domanda.
L’analisi della domanda non è traducibile in una serie di operazioni da compiere, né può far riferimento ad un percorso standardizzato di intervento, piuttosto richiede disponibilità all’ascolto, all’osservazione, all’interrogazione, alla diagnosi e all’interpretazione. Questo processo riguarda principalmente alcune aree che dovranno essere esplorate.
1. Esplorazione e analisi delle culture dell’organizzazione nel suo complesso e delle sottoculture specifiche di aree e funzioni. In tal modo si avrà la possibilità di ricostruire e comprendere storia e valori dell’organizzazione, ponendo alla luce codici, simboli e modelli impliciti di comportamento.
2. Fantasie relative alla formazione. L’intento è quello di evidenziare i modelli concettuali ed i vissuti relativi alle precedenti esperienze formative, cercando di cogliere le fantasie ad esse relative.
3. Richiedente della domanda di intervento. Cercare di ricostruire l’iter originario della domanda, con le relative motivazioni sottostanti e le modificazioni che la richiesta di intervento ha subito nel passaggio tra i diversi operatori, può facilitare la comprensione del rapporto tra domanda implicita e domanda esplicita.
4. Dinamica delle relazioni tra gli attori coinvolti nell’analisi ed atteggiamenti nei confronti del formatore. Quest’area consente di disporre di primi elementi riguardo le modalità relazionali e gli stili di convivenza tipici e caratterizzanti quel preciso contesto organizzativo.
5. Regole del gioco. Implica il superamento della diade relazionale aggiungendo un terzo elemento, l’ambiente sociale e culturale, il con-testo entro il quale si pone ogni relazione diadica. Si dovrà quindi considerare sia la modalità con cui ciascuno si adatta all’altro, sia l’adattamento che la diade può o deve realizzare nei confronti dell’ambiente con cui inter-agisce.
6. Piano della realtà e piano del desiderio. Questi due piani, differenti ma sovrapponibili, permettono di raccogliere da un lato dati concreti relativi all’oggetto della domanda di intervento, dall’altro dati relativi a speranze, paure, motivazioni ed investimento formativo.
Riassumendo, possiamo ora affermare che l’analisi della domanda rappresenta la fase iniziale dell’intervento formativo, ma è anche doveroso tenere a mente che i motivi fondanti la richiesta di intervento non si cristallizzano in questo primo momento, bensì possono evolversi e modificarsi durante tutto l’arco temporale del periodo formativo. In tal senso, l’analisi della domanda dovrebbe essere considerata come il focus centrale che allo stesso tempo influenza ed è influenzato dalle varie fasi in cui si articola il lavoro del formatore sopradescritte. Avremo modo più avanti di vedere come, proprio grazie all’analisi della domanda, sia stato possibile progettare un intervento individualizzato – o meglio “gruppalizzato” – per ogni equipe sociosanitaria.
5. Valutazione dello Stress Lavoro Correlato e del Burnout
Soffermiamoci qui brevemente sugli attori principali della valutazione: un’organizzazione sociosanitaria (committenza) che, dovendo svolgere la valutazione sullo stress lavoro-correlato (SLC) sui propri dipendenti (utenza), ha contattato due psicologi (formatori/consulenti).
L’organizzazione in cui ci troviamo ha sede a Roma ed opera nel settore dell’assistenza sociosanitaria. Tale struttura è organizzata in un centro di cure palliative (con servizio sia residenziale che a domicilio) e in un centro di cure per la non autosufficienza, che offre servizi per persone con Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), persone con demenza (Alzheimer) e, di recente, è stato attivato un ulteriore servizio rivolto a persone in situazione di fragilità caratterizzata da parziale o totale non autosufficienza (ADI – Assistenza Domiciliare Integrata). Gli utenti su cui suddetta valutazione verrà effettuata non sono gli utenti del servizio (che beneficeranno in modo indiretto dell’intervento), bensì i dipendenti[1] dell’organizzazione, compresa la Direzione, suddivisi in due macro-aree: personale amministrativo e personale sociosanitario.
Ora che i tre macro-soggetti dell’intervento ed il contesto sono stati identificati, può essere utile fare un breve accenno circa il mandato, ovvero la domanda che la committenza ci ha portato in riferimento ad un obbligo da parte del Datore di Lavoro di rispondere alla normativa che regolamenta la valutazione dei rischi nei luoghi di lavoro, normativa che non si concentra più solamente sulla salute fisica del lavoratore, ma, in una visione di totalità, sul suo benessere psicofisico. Infatti, il Decreto Legislativo (D. Lgs.) 81/2008 evidenzia, per la prima volta, la definizione di salute come: “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”[2]. Per tale motivo, il fenomeno dello stress, è il risultato di un processo di adattamento che coinvolge l’individuo durante la sua interazione con l’ambiente: il soggetto valuta l’evento che deve essere affrontato (impegni lavorativi, conflitti familiari, difficoltà nelle relazioni sociali, ecc.) e cerca una strategia per farvi fronte. Ai fini del D. Lgs. 81/2008 e successive integrazioni e dell’Accordo Europeo sullo stress, il target di riferimento per la valutazione dello SLC non è il singolo lavoratore (approccio individualista), bensì il benessere organizzativo nel suo insieme (approccio gruppale).
Tra le forme di SLC troviamo il “burnout”, un concetto introdotto nel 1974 dallo psicologo Herbert Freudenberger e che negli ultimi anni sta avendo sempre maggiore attenzione e riconoscimento, sia in ambito scientifico che in ambito sociale.
Come riportato nel manuale INAIL “Valutazione e gestione del rischio da Stress lavoro-correlato” (Edizione 2017) ed in collaborazione con la dirigenza, è stato formato il gruppo di progetto per la valutazione dello SLC composto dai Delegati del Datore di Lavoro per la Sicurezza (DDLS), dal Responsabile Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP), dal Medico Competente (MC), dal Responsabile del Sistema di Gestione della Sicurezza (RSGS), dal Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) e da due consulenti.
La valutazione preliminare dello SLC, basata sulla metodologia INAIL sopracitata, prevede una valutazione oggettiva aziendale, avvalendosi dell’utilizzo di una lista di controllo di indicatori verificabili.
Per adempiere correttamente alla normativa D. Lgs. 81/2008, i dati ottenuti sono stati messi a confronto con i risultati della valutazione precedente (2017) ed è emerso che, dal primo documento di valutazione a quello da noi effettuato, ci sono stati dei peggioramenti. Per suddetto motivo, il gruppo di progetto ha ritenuto opportuno passare alla fase di valutazione approfondita, svolta per mezzo di strumenti di rilevazione quali: colloqui individuali con alcuni dipendenti segnalati dalla dirigenza, il test Maslach Burnout Inventory (nella versione questionario Organizational Checkup System) e successivi focus group con equipe sociosanitarie e personale amministrativo.
Il test utilizzato è un’evoluzione della scala Maslach Burnout Inventory (MBI, 1981), ovvero l’Organizational Checkup System di Michael Leiter e Christina Maslach (OCS, 2000) che, oltre ad indagare le cause del burnout quale obiettivo del precedente MBI, cerca di individuare le strategie lavorative più adeguate per il soggetto, affinché egli possa evitare e/o superare le cause stressogene che conducono al burnout. Per quanto riguarda l’output ottenuto, è stato generato un report, all’interno del quale è emerso un risultato totale rappresentato attraverso un grafico: la rappresentazione appare neutrale come se il grafico fosse “piatto”, dato che l’organizzazione si posiziona sulla parte centrale del grafico, zona che indica il punteggio medio di burnout delle strutture sanitarie italiane.
È stato proprio questo uno dei momenti in cui la competenza gruppoanalitica e, nello specifico, il modello narratologico, hanno permesso di attivare un pensiero; infatti, si è proceduto leggendo i dati emersi non come una mera risposta dicotomica alla domanda “l’organizzazione è in burnout?”, bensì come un’ulteriore domanda che indagasse “cosa ci sta raccontando questa organizzazione?”. Per tale motivo, seppur a livello “oggettivo” il punteggio generato potrebbe risultare in linea con la media del livello di burnout riportata dalle strutture sanitarie italiane, a livello “soggettivo” può esserci dell’altro. Il dubbio generato è se la linearità dei risultati derivi da un “non detto” o da un elemento di blocco, dato che, se pensiamo a ciò che stiamo indagando, ovvero il burnout, sappiamo che tale sindrome è caratterizzata da tre dimensioni (esaurimento, cinismo/depersonalizzazione ed inefficacia/ridotta realizzazione personale), le quali possono manifestarsi attraverso atteggiamenti di ritiro, evitamento e distacco. Elemento interessante è l’unico punteggio che va oltre la fascia media verso la “sintonia”, ovvero l’area dei “valori” (punteggio 56), evidenziando come, una risorsa dei dipendenti dell’organizzazione, sia proprio la percezione di svolgere un lavoro significativo.
In aggiunta a quanto detto, altro elemento che ci ha portati ad indagare maggiormente rispetto al risultato emerso, è relativo al fatto che, durante la fase di somministrazione del test, gran parte del personale lamentava verbalmente situazioni di stress e difficoltà, elementi che però non sono stati riscontrati in modo così evidente nel punteggio finale.
Proprio in previsione di ciò, prima di somministrare il test, abbiamo deciso di aggiungere una pagina alla fine del questionario per dare spazio ai commenti, è emerso che 36 dipendenti su 148 ne hanno fatto uso, evidenziando alcuni aspetti negativi. È stato utile raccogliere le informazioni emerse per avere elementi più qualitativi da indagare successivamente nei focus group.
Passiamo ora alla seconda parte della valutazione approfondita, ovvero le giornate dedicate ai focus group, i quali hanno permesso ai partecipanti di approfondire alcune tematiche che sono state affrontate in modo sintetico e/o poco chiaro nel questionario e sulle quali avevano necessità di esprimere ulteriori pareri attraverso la narrazione di episodi significativi. Suddette tematiche sono riconducibili a specifiche domande, raggruppate per macro-aree quali: energia, efficacia, coinvolgimento, carico di lavoro, controllo, riconoscimento, integrazione, equità, valori, cambiamento, leadership, sviluppo di competenze e coesione.
Per noi psicologi il lavoro ha permesso di svolgere una duplice raccolta:
– per quanto riguarda le informazioni di carattere organizzativo, ci si è soffermati sugli aspetti lavorativi che contribuiscono allo sviluppo dello SLC, precedentemente indagati nelle diverse aree del questionario OCS, come: carico di lavoro, controllo, riconoscimento, integrazione sociale, equità, valori, leadership, sviluppo di competenze e coesione del gruppo;
– in merito alla narrazione, è stato invece interessante tener conto di espressioni e metafore utilizzate dal gruppo per raccontarsi, come: avere a che fare con un “muro di gomma”, soffrire di una “interruzione del pensiero”, svolgere un “lavoro a perdere”, lavorare nel “disorientamento”, sentirsi esclusi e “messi in un angolo buio”, riconoscere una tendenza a “demonizzare ciò che non si conosce”, riscontrare difficoltà a “stare nell’incertezza”.
Tale strumento, non solo ha permesso la raccolta dei dati sopra citati, ma ha anche dato maggiori informazioni rispetto agli elementi di stress con cui gli operatori di questo specifico settore sanitario sono continuamente in contatto. Ovviamente, tali caratteristiche non sono eliminabili, in quanto intrinseche nel lavoro stesso, ma è possibile poterci lavorare in modo preventivo così da ridurne il rischio.
6. Progettazione “gruppalizzata” e contributo del resoconto
A seguito dei focus group è stata attivata una seconda macro-fase, quella che nel linguaggio tecnico dello SLC si chiama attuazione delle “misure correttive” e fa specifico riferimento al progetto proposto ed accettato dalla committenza di “benessere organizzativo”, rivolto al personale operativo sociosanitario (equipe domiciliari CP/SLA/Alzheimer ed equipe residenziali CP/Alzheimer). Vorrei definire suddetto intervento, per connotarlo gruppoanaliticamente, con la dicitura “progettazione gruppalizzata”, ovvero un tipo di progettazione pensata ad hoc per uno specifico gruppo, che non può far riferimento ad un percorso standardizzato di intervento, bensì richiede osservazione, ascolto, interrogazione, esplorazione ed interpretazione. Come abbiamo già visto nel primo capitolo, l’intento non è quello di ricercare una condizione di normalità, di ricondurre all’ortos ciò che si è “danneggiato”, bensì di gestire con committenza ed utenza il difficile processo di riappropriazione della domanda, attraverso la riconsiderazione della matrice psicosociale della problematica portata (Carli, Guerra, Lancia, Paniccia, 1984).
Detto ciò, il progetto di “benessere psicologico” è stato pensato sia per il personale sociosanitario operante a domicilio, che per quello operante in residenziale. Per quanto riguarda gli operatori di quest’ultimo macro-gruppo, non essendo presente un modello di lavoro in equipe già consolidato all’interno della struttura, si è pensato di suddividere il personale in tre equipe multidisciplinari per due motivi:
– lavorare con l’intero gruppo non sarebbe stato possibile sia perché avrebbe lasciato inattivo per 120 minuti l’intero servizio in struttura, sia per l’elevato numero di operatori;
– le equipe così suddivise sono state pensate come “sperimentali”, ovvero con la possibilità di mantenerle tali anche in seguito alla conclusione dell’intervento, sempre tenendo presente che una delle risorse del gruppo, è proprio quella di prevenzione e riduzione del rischio SLC.
Per quanto riguarda la composizione delle equipe multidisciplinari, sono state mantenute quelle già costituite e operanti a domicilio, composte da diverse figure professionali quali: psicologi, medici, infermieri, fisioterapisti/terapisti occupazionali, assistente sociale ed OSS. La numerosità del gruppo varia a seconda dell’equipe: quella più piccola è l’equipe CDA (Centro Diurno Alzheimer), composta da 6 operatori, mentre la più grande è l’equipe ADA (Alzheimer Domiciliare), composta da 18.
Alcune delle difficoltà rispetto all’attuazione del progetto non sono risiedute solamente nella parte “attiva” di svolgimento, bensì in quella precedente di co-costruzione effettuata insieme alla committenza, soprattutto per quanto riguarda alcuni elementi di setting:
Per quanto riguarda nello specifico gli operatori residenziali, la riorganizzazione dei turni e del personale, al fine di costituire le tre equipe multidisciplinari “sperimentali”, ha inevitabilmente richiesto maggiore tempo; la data di inizio era stata fissata a marzo 2020, ma a causa della Pandemia di COVID-19, gli incontri sono stati momentaneamente sospesi. Rispetto invece al personale sociosanitario operante a domicilio, già suddiviso in equipe, il primo incontro si è svolto a dicembre 2019 e, fino a marzo 2020 – data del DPCM – sono stati svolti tre incontri, con cadenza mensile e durata di 120 minuti ciascuno. Al termine di ogni incontro è stato prodotto un resoconto, sia per raccogliere gli elementi maggiormente organizzativi (carico di lavoro, turnazione, ecc.) da inserire nei report da consegnare alla dirigenza, sia per poter “gruppalizzare” l’intervento a seconda di ogni specifica equipe. Detto in altri termini, seppur il progetto prevede 8 incontri mensili per ogni equipe, finalizzati alla prevenzione del rischio stress/burnout, ogni equipe percorrerà sentieri paralleli, ma differenti, i quali verranno realizzati passo dopo passo a seconda della domanda portata dal gruppo.
Nei prossimi paragrafi riporterò sinteticamente i tre incontri sin ora svolti con le 7 equipe domiciliari, ponendo in evidenza non solo gli elementi emersi nel “qui ed ora” del gruppo, ma anche il prezioso contributo fornito dai resoconti nel “là ed allora” della progettazione delle giornate successive.
7. Resocontare… con quale funzione?
Lo psicologo, nel resocontare un’esperienza clinica, diventa un narratore che costruisce una storia “rappresentando verbalmente un’esperienza emotiva” (Carli, 1987, p. 308), definendo così un momento di rielaborazione dell’episodio clinico. In tal senso, è inevitabile l’attuazione di un pensiero sulla prassi: la capacità di stilare resoconti deve essere quindi considerata come una competenza organizzativa dello psicologo che, tramite il racconto, si dà la possibilità di comprendere cosa si sta proponendo all’interno della relazione terapeutica e come si sta lavorando.
Soffermiamoci ora sulle funzioni del resoconto in psicologia clinica partendo dalla proposta di Grassi (2004), che ne descrive tre tipi:
A queste tre finalità sopracitate, vorrei aggiungerne una quarta, che non va concepita come monade, bensì che si ricollega un po’ ad ognuna di esse, attraversandole ed arricchendole con un valore aggiunto: la generatività. Vedremo più avanti come tale elemento si è rivelato di fondamentale importanza per la progettazione dell’intervento narrato, ma partiamo ora dal concetto di “narrazione generativa”, ovvero quelle “narrazioni che generano nuove storie che sono prodotto della relazione” (Montesarchio, Venuleo, 2009), per cui credo sia possibile intendere il resoconto anche come metodo di narrazione generativa: pensiamo al resoconto come ad un racconto, condivisibile sottoforma di testo, rappresentazione, ecc., con cui il clinico ha la possibilità di narrare un’esperienza emotiva da lui vissuta in modo da poterla ri-narrare a sé stesso o agli altri. Fondamentale sarà ciò che tale narrazione sarà in grado di generare nell’autore stesso e nei lettori: pensieri, idee, riflessioni scaturiranno dalla lettura della storia, i quali innescheranno una sorta di reazione a catena. Trovo appropriato l’uso di questa metafora in quanto rimanda ad un concetto, in senso figurato, che sta a rappresentare “il sorgere o il prodursi di qualcosa”, dare perciò avvio o inizio, suscitare un qualche tipo di reazione da un evento. Penso che il resoconto sia anche questo, poiché non solo è d’aiuto per il clinico nel momento stesso in cui viene prodotto, ma si rivela fondamentale per generare a posteriori dei valori aggiunti, che faranno da base ad un successivo sviluppo del lavoro che si sta facendo.
Ma parchè scrivere? Perché questo bisogno di riportare graficamente l’esperienza vissuta? La produzione orale è fortemente ancorata alla situazione: colui che parla può dare per scontato tutto ciò che ha a che fare con il contesto in cui l’interazione si sta svolgendo, alludendovi senza nominarlo, oppure può accompagnare il suo eloquio con i gesti e così via. D’altro canto, la scrittura è una forma di comunicazione indiretta, la quale necessita di una più profonda riflessione sui mezzi espressivi usati; il motivo principale di ciò è che, quando si scrive, viene a mancare tutto l’aiuto che la situazione interpersonale ed il linguaggio non-verbale danno. Quando lo psicologo resoconta il colloquio o un qualsiasi altro tipo di intervento clinico (come un corso di formazione), trovandosi svincolato dal setting in cui si è realizzato, assume attraverso tale strumento un punto di vista critico su tale esperienza, il quale gli consente di riflettere sulla relazione con il cliente e sulle condizioni che fondano la sua attività lavorativa.
8. I tre incontri con le Equipe Domiciliari CP-SLA-Alzheimer
Il setting proposto è stato sin da subito quello circolare, il quale ha facilitato l’emersione delle prime resistenze da parte del gruppo equipe. I partecipanti, chi da subito chi nel corso dell’incontro, tendevano ad allontanarsi tra loro, ad indietreggiare con la propria sedia e, in alcuni casi, ad aprire in modo evidente il cerchio. Solo poche persone hanno mantenuto la posizione originaria, pur con qualche difficoltà, mentre ci sono stati alcuni operatori che hanno espressamente manifestato una difficoltà personale; alcuni di essi hanno verbalizzato tale difficoltà, mentre altri hanno lasciato che il corpo parlasse per loro attraverso sintomi quali: eccessivo caldo o eccessivo freddo, vertigini, arrossamenti molto evidenti del volto. Ogni gruppo ha inoltre palesato la propria modalità per esprimere la fatica dello “stare insieme”, la fatica di riunirsi non per parlare di tecnicismi sanitari, bensì di condividere e fare un pensiero sulle modalità relazionali sia all’interno della propria equipe, che nel rapporto con gli utenti (pazienti, familiari, badanti e colleghi di altre strutture). Non per tutti è stato un elemento nuovo, alcuni membri già si confrontavano nel corso delle riunioni con i colleghi, condividendo esperienze di particolar spessore emotivo, ma il tutto era maggiormente caratterizzato da una modalità di sfogo/agito e non di pensiero.
Rispetto alla progettazione, il primo incontro di ogni equipe è stato pensato in modo da attivare una prima fase esplorativa, di analisi della domanda, in modo da far emergere punti di forza ed aree di miglioramento di ogni gruppo. Questo per un duplice motivo: il primo riguardava il dover rispondere al mandato di “misura correttiva per stress/burnout”, per cui era necessario raccogliere alcuni dati di carattere organizzativo; il secondo, invece, riguardava l’intento di costruire un intervento “gruppalizzato” che, come scritto precedentemente, fa riferimento ad un percorso da costruire ad hoc per ogni singola equipe.
Anche i secondi incontri svolti con le Equipe domiciliari sono stati dedicati ad un’analisi della domanda, esplorando però meno gli elementi di carattere organizzativo e più quelli di tipo emozionale. Nello specifico abbiamo utilizzato un’esercitazione che, attraverso l’uso di carte proiettive, ha permesso l’emersione e la narrazione di aspetti relativi sia alle dinamiche inter-gruppo (dinamiche tra il gruppo equipe ed il gruppo famiglia dell’utente), che quelle intra-gruppo (dinamiche tra i membri dell’equipe). Oltre a questi elementi citati, è stato interessante osservare le relazioni all’interno del gruppo, le reazioni alle scelte fatte ed il livello di narrazione degli operatori dell’equipe.
Al termine di questa prima fase narrativa, vi è stata una seconda fase di debriefing in cui sono state poste al gruppo alcune domande da parte del conduttore, in modo da offrire ad ognuno la possibilità di esprimere e far emergere alcuni elementi sino a quel momento tenuti per sé.
Successivamente ai primi due incontri, utilizzati maggiormente per un’iniziale fase esplorativa, il terzo incontro ha fatto affidamento su quanto riportato nei due resoconti generati per essere strutturato in un’ottica “gruppalizzata”; per tale motivo, il contenuto di ogni terzo incontro è stato pensato in modo differente, così da affrontare dinamiche e svolgere attività di gruppo specifiche a seconda dell’equipe di riferimento.
L’intento qui non è tanto quello di riportare il contenuto degli incontri, bensì di porre in evidenza come il resoconto sia stato utilizzato e come strumento clinico e come modello narratologico, così da permettere una meta-lettura utile per chiedersi “che cosa ci sta raccontando questo gruppo?” e pensare ad un percorso ad hoc, cucito su misura. Per riportare alcuni esempi, possiamo dire che ci sono state equipe con cui abbiamo dato maggiore rilievo al “movimento”, scegliendo alcune attività che favorissero lo spostamento nello spazio, proponendo l’utilizzo del corpo quale veicolo narrativo; altre per cui abbiamo scelto attività maggiormente narrative e di condivisione di alcuni aspetti che il gruppo era in grado di verbalizzare; altre ancora con cui ci si è focalizzati principalmente sull’approfondimento della conoscenza dei colleghi.
Rispetto al setting, elemento interessante è stato che, successivamente ai primi due incontri, i partecipanti che arrivavano in anticipo rispetto all’inizio del gruppo, si attivavano per porre le sedie in cerchio, come se il setting circolare non fosse solamente uno strumento, bensì un modello che pian piano diveniva parte del loro modo di pensare il gruppo. Questo elemento risulta particolarmente utile se riletto attraverso il modello psicosociale della formazione per cui, come già affermato precedentemente, l’apprendimento viene inteso in un’ottica spiraliforme, ovvero legata a ciò che si sviluppa all’interno del gruppo di formazione. Così facendo sarà possibile effettuare un passaggio dall’in-formazione (mera trasmissione di un sapere), alla trans-formazione, dando la possibilità ai partecipanti del gruppo di partire da un sapere per generare e costruire un senso più articolato di quanto esperito.
9. Rinarrazione dell’intervento
A marzo 2020, a causa della pandemia per COVID-19, il progetto di “benessere organizzativo” è stato sospeso non potendo svolgere gli incontri di gruppo con le equipe in presenza. Tale evento ci ha fatto fare i conti con la necessità di ripensare l’intervento in corso, in modo da garantirne continuità nonostante la situazione di emergenza. Quanto detto non fa solo riferimento al dover portare a termine il progetto, bensì ad offrire supporto al personale dell’organizzazione sempre tenendo a mente il mandato: il nostro lavoro all’interno della struttura è volto a prevenire e contenere il rischio di stress/burnout di tutta l’organizzazione.
La proposta, considerando entrambi gli aspetti lavorativi sopracitati, aggiunge alcuni elementi a quella fatta ed accettata originariamente:
– progettazione di uno sportello d’ascolto per tutto il personale della struttura a supporto di questo momento di crisi;
– conversione degli incontri d’equipe svolti in presenza in incontri online, tramite piattaforma fornita dalla struttura;
– aggiunta, agli incontri d’equipe per personale domiciliare e residenziale, di incontri di supporto per il personale dell’area amministrativa.
Tale implementazione, inoltre, è il risultato di un pensiero circa la possibilità di riformulare il ruolo di noi psicologi e consulenti, in modo da lavorare non solo con i gruppi equipe composti dai dipendenti della struttura, bensì proponendoci anche come supporto al gruppo dirigenziale, in modo da poter permettere ai dirigenti di gestire i cambiamenti in atto e lavorare in un momento di incertezza.
Per quanto riguarda gli incontri online, oltre alla parte di colloquio, si è presentata la necessità di ritradurre gli strumenti utilizzati in presenza in attività da svolgere online. Ulteriore elemento che ha richiesto particolare attenzione è quello relativo all’aspetto di privacy, per cui sono state comunicate alcune regole da rispettare per poter garantire l’anonimato e la tutela degli incontri.
Altro elemento che vorrei porre in evidenza è relativo alla progettazione degli incontri per il personale residenziale. Suddetti operatori, operanti anche loro seguendo il modello di equipe multidisciplinare, lavorano su tre piani a rotazione, per cui non hanno un’equipe fissa come per i colleghi del domiciliare. Il nostro primo obiettivo, rispetto a chi lavora in struttura, è stato proprio quello di proporre alla dirigenza di creare delle equipe “sperimentali” poiché il gruppo, come già accennato precedentemente, è:
1. uno dei principali strumenti di prevenzione e protezione dal rischio stress/burnout;
2. di primaria importanza rispetto all’utilizzo del modello di equipe multidisciplinare.
A seguito di diverse riunioni svolte con la dirigenza, in cui è stata data voce a suddette necessità, e tenendo in considerazione gli aspetti organizzativi e gestionali della struttura, è stato possibile raggruppare il personale residenziale in tre equipe, così da rendere possibile anche per loro l’avvio del progetto.
Ciò che mi preme sottolineare, non è tanto la riformulazione di un processo in atto, bensì la ri-narrazione di una storia in essere, la competenza gruppoanalitica che ha permesso di fare un pensiero su e, aggiungerei, attraverso, di tenere insieme più piani differenti, affinché la complessità della trans-formazione generata potesse trovare spazio e possibilità di realizzazione.
10. Conclusioni
Vorrei concludere questo elaborato partendo dal primo pensiero nato in me quando iniziai a scrivere dato che, nel momento in cui ho pensato alla formazione, hanno insistentemente bussato alle porte della mia mente due termini: percorso e narrazione.
Il percorso rimanda all’immagine di un itinerario e deriva dal latino percurrere “passare attraverso”, motivo per il quale vorrei proporlo per sostituire, o meglio integrare, l’usuale dicitura “corso di formazione”. In un’ottica che doni continuità, sviluppo e generatività all’azione formativa, l’obiettivo non è quello del ribaltamento, bensì del cambiamento, della possibilità di generare pensieri altri, attraverso i quali sia il gruppo di formazione, che l’organizzazione stessa in cui esso opera, abbiano la possibilità di ri-narrarsi.
Ed ecco comparire qui il secondo termine, la narrazione, per cui, considerando l’ipotesi del pensiero narrativo (Bruner, 1991), facciamo riferimento ad una forma di ragionamento che dispone di procedure particolari per interpretare la realtà che sono diverse, ma non meno “logiche” di quelle relative ad un pensiero logico-matematico, alla cui base ci sono procedure formali e di argomentazioni dimostrative che si esemplificano nel ragionamento scientifico. In una prospettiva che vuole proporre un modo alternativo di costruire la realtà e la dotazione di un significato alternativo ad una visione razionale, impersonale e decontestualizzata della costruzione della conoscenza, il pensiero narrativo può essere considerato quale strumento privilegiato attraverso il quale il soggetto interpreta la realtà: i mattoncini alla base di ciò sono le storie e ciò che li tiene uniti e saldi gli uni agli altri sono l’intenzionalità e la soggettività. In tal modo, la significazione della realtà è legata alle narrazioni socialmente condivise che la cultura d’appartenenza propone e perciò, la costruzione narrativa risultante, si collega in modo diretto alla vita sociale. Questa modalità propensa ed attenta alla lettura del contesto circostante deriva da una competenza gruppoanalitica, in un’ottica di pensare non sulle cose, bensì attraverso le cose, la quale ha permesso a noi psicologi di ri-narrare l’intervento in corso in un periodo di crisi sociosanitaria, a causa della pandemia per COVID-19.
Come già espresso nel corso dell’elaborato, intento della tesi in questione non è stato quello di presentare e descrivere una ricerca-intervento in termini scientifici, bensì di utilizzare questo lavoro quale pretesto per mettere in luce come la competenza gruppoanalitica abbia apportato un plus valore al percorso ancora in atto, percorso che ha incontrato ostacoli, deviazioni e bivi, ma che ha saputo rinarrarsi in funzione della domanda. Aggiungerei che anche la domanda, come il processo di intervento, è stata ed è in continuo mutamento e merita uno sguardo attento e costante che sappia coglierne le sfumature, soprattutto all’interno di un periodo storico, sociale, culturale e sanitario in cui il cambiamento ha impattato fortemente nella vita di ognuno. Per meglio contestualizzare quanto affermato in questo preciso periodo storico, possiamo considerare il fenomeno del burnout non come una “sindrome” del singolo individuo, bensì come un “virus” che coinvolge l’intera organizzazione/comunità, che può essere “trasmesso” attraverso la relazione con l’altro; per tale motivo è fondamentale che si ponga la dovuta attenzione alle relazioni esistenti tra l’organizzazione, i dipendenti, l’utenza ed il territorio, così da rinforzare rete e risorse ed evitare che il fenomeno del burnout possa diffondersi silenziosamente.
In linea con quanto detto, pensando alla narrazione all’interno di un contesto formativo, vi è la convinzione che non sono il luogo fisico o i destinatari dell’intervento a definire il modello e la tipologia di colloquio formativo, tantomeno lo psicologo. Infatti, se è vero che il colloquio è uno degli strumenti privilegiati per analizzare la fenomenologia culturale e, perciò, collusiva, in cui esso è inscritto (Montesarchio, Ponzio, 1998), allora l’intento è quello di attraversare i contesti organizzativi per capire in che modo, nei suddetti ambiti, il colloquio diventi “strumento di pensiero” per lo psicologo, strumento privilegiato che gli consentirà di analizzare le domande che vengono poste. È importante tradurre il “sapere” in “saper fare psicologico” all’interno di un’organizzazione, ovvero uno spazio di intervento in cu il’erogazione di tecniche (psicodramma, gruppo esperienziale, metodi attivi e colloquio stesso), si fondi e si dispieghi attraverso la teoria, il contesto, la domanda e la relazione che ci lega a quello specifico luogo (Marzella, 2004).
Ed è così che la circolarità del complexus si chiude, o meglio, la fine torna ad essere un nuovo inizio, in modo che anche l’immagine chiusa del cerchio possa trasformarsi ed assumere la forma aperta di una spirale, la quale produce e sviluppa generatività nel processo in atto.
L’incertezza, il rinarrarsi e l’attraversamento sono stati elementi costanti e compagni di viaggio che hanno accompagnato il mio percorso all’interno dell’organizzazione e la conseguente scrittura di questo elaborato, facendomi fare i conti con la “spiralità” del cambiamento.
BIBLIOGRAFIA
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L’autrice
Agnese Cannistraci: psicologa clinica, psicoterapeuta gruppoanalista, formatasi presso l’Ateneo La Sapienza di Roma, lavora come consulente e formatrice in ambito scolastico ed aziendale, con interesse nella psicologia in ambito organizzativo e focus sulle tematiche legate allo stress lavoro correlato e al burnout.
[1] Il numero totale dei dipendenti è 158.
[2] (art. 2 lettera O)