A cura di Fabiana Albanese
Abstract
L’organizzazione medica italiana sul territorio e quella intraospedaliera, così come le conosciamo, sono il risultato di una lunga storia che ha visto man mano il nascere ed il formarsi di diverse figure professionali che collaborano tra di loro. Questo fino ad un senso collettivo di Ospedale come istituzione. I livelli che coesistono nel contesto ospedalieri sono molteplici, a partire da quello clinico, all’aspetto amministrativo e quello assistenziale. Oltre ovviamente al confronto con il paziente, in quanto portatore di una malattia e di una storia. Questi livelli possono cooperare incontrando diversi conflitti che verranno osservati in questo lavoro.
Si proporrà inoltre una lettura su come lo tsunami pandemia che ci ha travolto e che ha travolto la Sanità italiana, possa aver modificato le dinamiche interne attenuandone i conflitti.
Parole chiave: Ospedale, sanità, medici, infermieri, gruppi, istituzione, pandemia Sars-cov-2
Gli anni di pandemia che stiamo vivendo e che abbiamo vissuto hanno acceso i riflettori in maniera molto più diretta sul contesto ospedaliero.
Abbiamo dovuto fare i conti, e sentito spesso dire di come ci siamo trovati impreparati in termini di risorse e di organizzazione rispetto all’improvvisa ed imprevedibile aumentata richiesta di assistenza sanitaria da parte del Servizio Sanitario Nazionale.
Carenza di medici, carenza di personale, carenza di posti letto, carenza di strutture, causa di una riorganizzazione politica dell’ultimo ventennio.
In effetti il ruolo ed il sentire comune dell’ospedale come “istituzione,” ha conosciuto dapprima una certa forma e si è successivamente modificata.
La definizione di “istituzione” rappresenta la risultante di una lettura secondo cui individuo, organizzazione e contesto rappresentano un continuum di rappresentazioni emotivo-affettive, in cui tutti gli elementi inconsci convergono fino a formare una serie di regole che ne garantiscono il funzionamento razionale.
Gli attori sociali sono infatti costantemente ed intersoggettivamente impegnati in un’attività interpretativa della realtà che abitano: essi, partecipando alle attività sociali, costruiscono il significato dell’esperienza, condividendone il valore e creando una cornice di senso che fonda le loro stesse attività e le pratiche in cui sono coinvolti (Montesarchio, Venuleo, 2009; 2010). L’organizzazione quindi è composta da gruppi, più che da individui, e i comportamenti organizzativi vengono letti come espressione dell’appartenenza a gruppi, piuttosto che come istanze individuali (Ruvolo, Di Blasi, Neri, 1995), ai quali però bisogna aggiungere il concetto di mutamento, complessità e conflitto. Dirà Carli che si può definire “istituzione” “quella particolare modalità relazionale che, nell’ambito di ogni struttura sociale, viene collusivamente assunta dalle sue componenti al fine di garantire la reciprocità affettiva al suo interno” (Carli, 1982, p. 80).
L’Ospedale, che nasce come luogo di accoglienza (di “ospitalità”) vede solo dopo secoli l’introduzione della figura del medico e quindi del concetto di curare e di prendersi cura. Si arriva fino ai giorni nostri dove l’attività medica esercitata negli ospedali ha conosciuto una serie di settorializzazioni, divisioni sia sul territorio in generale che nell’ospedale stesso.
Affiancata al medico la figura dell’infermiere che viene riconosciuta professionalmente molto più tardi.
Quindi se nel tempo l’Ospedale è diventato sempre più il luogo di cura dei cittadini (e del prendersi cura), dall’altro, l’organizzazione socio-politica ha pareggiato la figura del medico a quella del dirigente, richiedendo una serie di prestazioni misurate solo quantitativamente come termini di efficienza, espressa in giornate di ricovero, prestazioni eseguite, soddisfazione dell’utente.
Sembrano due aspetti molto distanti tra loro, che però devono coesistere.
Così come a coesistere sono innumerevoli gruppi.
Quando il medico incontra il paziente in una corsia di ospedale si stanno incontrando tanti gruppi diversi e le loro proprie simbolizzazioni emotive. Ad un livello verticale il medico è portatore di una storia, di una cultura che gli propone un forte mandato sociale con alle spalle l’istituzione, ma a livello orizzontale deve saper attraversare anche la relazione lavorativa con altre figure, ugualmente e diversamente importanti nello svolgere il proprio lavoro. Allo stesso modo il paziente, sta sperimentando una condizione nuova di vulnerabilità e bisogno, veicolata anche dal proprio gruppo famiglia e dalla cultura della stessa. Il venire a contatto con le emozioni portate dal paziente e con la situazione di criticità che egli e il suo contesto sta vivendo, dovendo operare in situazioni altrettanto critiche soprattutto da un punto di vista di risorse, può muovere emozioni che il più delle volte vengono agite ed esitano in profondi conflitti lavorativi che alterano e confondono il clima di collaborazione.
2. L’organizzazione ospedaliera
Il principale lavoro sull’organizzazione ospedaliera è quello effettuato da Rhode (1962) che, rappresenta ancora al giorno d’oggi, un modello interpretativo che rispecchia in modo sufficientemente aderente e convincente la realtà attuale dell’ospedale.
Rhode, analizzando la struttura formale ospedaliera, individua una dimensione orizzontale organizzata in 3 cicli funzionali ed una struttura verticale gerarchica.
I 3 cicli corrispondono a quello medico, assistenziale ed amministrativo.
Nella aspettativa di una collaborazione armoniosa tra le parti, spicca il ruolo del Medico come unico esperto di diagnosi e conseguentemente terapia, che in effetti costituiscono gli eventi principali dell’Ospedale inteso come azienda che produce ed eroga servizi.
Il ciclo assistenziale invece è rappresentato principalmente dal personale infermieristico e da tutte le altre figure professionali che erogano assistenza diretta e duratura al paziente, senza avere competenze di diagnosi e cura.
Infine, il ciclo amministrativo che comprende sia settori burocratico-amministrativi che tecnico-imprenditoriali.
Rhode sottolinea come invece che cooperare, i tre cicli esperiscono continue tensioni legate principalmente alla tendenza a voler far emergere il proprio operato come più importante a discapito degli altri. I vari cicli funzionali che si originano a partire da una sopravvalutazione dell’importanza e delle esigenze di un ciclo rispetto agli altri generano incoerenze e contraddizioni nell’esercizio di potere.
Un iniziale conflitto si genera subito tra il ciclo amministrativo e quello medico.
Infatti, i medici sono chiamati a rispondere in merito a elementi riguardanti spese, giornate di ricovero, appropriatezza degli esami richiesti e delle terapie somministrate da un punto di vista economico, mentre dall’altro lato il medico gode da sempre di una grande autonomia di scelta ed è l’unico in grade di capire di cosa abbia davvero bisogno il paziente, può quindi esercitare la propria competenza senza alcun’altra interferenza.
D’altronde anche nel panorama internazionale, il medico può usufruire di una serie di indicazioni scientificamente riconosciute sui trattamenti e gli iter diagnostici, ma che non rappresentano mai una regola rigida, in quanto viene riconosciuta sempre la grande eterogeneità dei pazienti e delle loro caratteristiche personali, per cui al medico è richiesto un lavoro ad-hoc.
Lavoro ad hoc che ovviamente fa conflitto nell’essere poi sistematizzato in parametri economici e burocratici.
Viene quindi da chiedersi in questo panorama che ruolo svolgono nel conflitto o nella collaborazione, le altre figure professionali che negli ultimi anni stanno esprimendo una domanda di riconoscimento sempre più netta.
3. I reparti di medicina interna
A queste nozioni di letteratura posso sicuramente aggiungere uno sguardo acquisito all’interno di un reparto di Medicina Interna del Policlinico Umberto I di Roma, frequentato da me prima in qualità di medico in formazione specialistica, poi come dottoranda.
Il Reparto di Medicina Interna può essere concepito come i vecchi Reparti di cui si discuteva prima, dove non esiste la grande settorializzazione specialistica che si è andata osservando negli ultimi anni e coinvolge una grande eterogeneità di condizioni cliniche con cui l’equipe sanitaria deve confrontarsi.
I pazienti afferenti sono spesso anziani in scompenso clinico, ma altrettanto spesso ci si ritrova davanti a pazienti più giovani in cerca di una diagnosi per qualche sfumato sintomo, che nella maggior parte dei casi esita in una diagnosi di neoplasia maligna o di patologia altamente degenerativa.
Non sono quindi variegate solo le patologie, ma anche la tipologia di pazienti, la criticità (oggettiva e percepita) e soprattutto le prognosi.
L’organico di questo reparto, applicabile teoricamente anche agli altri dello stesso ramo, è così composto (si intenda una visione a piramide):
Le uniche figure continuative all’interno del reparto, che restano fisse con il passare del tempo, (quelle che posso rappresentare la memoria storica del contesto), sono il Primario ed il Caposala.
I medici strutturati invece hanno diversi anni di anzianità (massimo 10), gli infermieri un ricambio piuttosto rapido, oltre ad alternarsi tra loro nei vari turni settimanali; gli specializzandi infine sono sicuramente i più piccoli di età, sono presenze stabili solo per pochi mesi perché spesso occupati in altre attività formative al di fuori del reparto e soprattutto hanno un tempo finito di formazione e permanenza in ospedale (circa 5 anni).
Quello che questa disparità di presenza fisica all’interno del reparto di degenza determina è la sensazione di un “gruppo aperto”, di un ambiente lavorativo in continuo cambiamento ed evoluzione, sensazione che può risultare destabilizzante sia per l’utente che per il lavoratore.
Il paziente che si reca in ospedale con una problematica di salute che ha alterato il suo equilibrio fisico, ma soprattutto psichico, imposta una relazione sanitaria basata sul bisogno, ponendosi in una posizione di inferiorità e di tacita accettazione di ogni decisione delegata interamente al medico, questo contribuisce a formare il forte mandato sociale del medico a cui si accennava prima.
4. Il portato dai pazienti
Occorre quindi guardare al paziente ospedalizzato. Quali sono i suoi vissuti e quali le sue emozioni. Spesso queste domande non vengono poste e si bada prevalentemente all’efficacia della cura, affinché sia impeccabile e porti a risultati rapidi e soddisfacenti senza tenere conto dei bisogni emotivi e delle diversità dei pazienti. Ma la reale “presa in carico” della persona non può prescindere da tutta una serie di aspetti psicologici da prendere in considerazione. Il paziente, inoltre, ha dentro di sé molteplici gruppi, primo fra tutti quello familiare con cui gli operatori sanitari sono spesso a stretto contatto. Come dire che alcune patologie organiche potrebbero essere considerate “patologie familiari” perché irrompono in un sistema familiare stabile. La famiglia inoltre rappresenta spesso per il malato la principale risorsa affettiva e logistica che ha a disposizione il paziente e su cui può contare.
Nonostante il ricovero in ospedale abbia come obiettivo la cura e possibilmente la guarigione, questo evento porta inevitabilmente una forte componente di stress.
C’è il disagio stesso della malattia, la nuova condizione dell’ospedale come ambiente fisico e sociale, il rapporto con il personale ospedaliero, costituito fondamentalmente da estranei, l’allontanamento dai propri gruppi noti e dalle abitudini quotidiane, le paure e i bisogni accuditivi. Un grave disagio inoltre arriva anche dalla famiglia, che può caricare i vissuti del paziente stesso.
Il paziente internistico nello specifico è spesso un paziente che non ha ancora diagnosi, sperimenta quindi l’ansia dell’ignoto e dell’imprevedibile (Vito, 2014).
Anche l’atto dello svestirsi dai propri indumenti quotidiani per indossare costantemente un pigiama ha un ruolo simbolico importante per il paziente che sperimenta una situazione molto nuova. Gli verranno proposti esami diagnostici, alcuni anche invasivi, incognite che portano con sé la paura del dolore e della diagnosi.
Questo cambiamento radicale spesso si manifesta con vissuti di ansia legati all’ospedalizzazione, agitazione ed insonnia, prontamente trattati con sedativi.
Instaurare una relazione con il paziente fatta di comprensione, accoglimento e condivisione può favorire invece il processo di adattamento. Il personale ospedaliero spesso si relaziona alla patologia più che alla persona, dimenticando quanto anche il processo di guarigione sia facilitato da una più valida relazione umana. Le comunicazioni al paziente, delicate, di diagnosi o di prognosi spesso sono comunicate in modo vago, lasciando spazi ad inutili illusioni, altre volte vengono delegate agli specializzandi che si scontrano con la loro mancata esperienza oltre che con i risvolti emotivi ai quali sono sottoposti nel momento in cui entrano per la prima volta in un reparto ospedaliero.
Come detto prima il ruolo principalmente “assistenziale” è quello degli infermieri perché maggiormente a contatto con il paziente e più vicini alle loro esigenze prettamente logistiche e quindi che hanno a che fare con la condizione umana. Ma allo stesso tempo il più delle volte non sono a conoscenza della problematica organica che ha portato il paziente al ricovero, né tantomeno del percorso diagnostico e della diagnosi. Questa mancata comunicazione tra i vari operatori scinde il livello di assistenza e delega anche il ruolo dell’infermiere ad un’assistenza più incentrata sui bisogni, incrementando il disagio del paziente che vede regredire la propria autonomia con l’ospedalizzazione stessa.
La posizione di bisogno, di conseguenza, contribuisce ancora di più ad organizzare le intere relazioni trasversali dell’azienda ospedale sul giocarsi il ruolo di potere. Non è raro assistere infatti ad agiti volti unicamente a sopperire l’organigramma, a dimostrare che una classe professionale ha un ruolo di insostituibilità maggiore di un’altra.
La sensazione è che nei reparti ospedalieri esistono delle figure professioni che lavorano insieme ma non lavorano in gruppo.
Così il singolo è lasciato ad affrontare le ripercussioni emotive di cui il paziente e la sua situazione si fa portatore.
Anche l’organizzazione frazionata di turni di poche ore può innescare un vissuto di monotonia, di scarso coinvolgimento nella reale “presa in carico” dell’utente, limitando il proprio operato ad una mera esecuzione adempitiva, svuotata di contenuto e obiettivo relazionale (Carli, 2012).
Sabotare il proprio lavoro diventa l’unico modo per essere riconosciuti, per evidenziare l’importanza del proprio ruolo. Tutto questo però ha effetti sul livello di frustrazione già alto dovuto alla quantità di lavoro aumentata anche per sopperire alle mancanze del singolo, dovendo sottrarre del tempo alle proprie specifiche mansioni. Gli unici due referenti fissi del lavoro nel reparto sono il Primario, a cui arrivano le lamentele degli strutturati e raramente degli specializzandi e la Caposala, punto di riferimento per infermieri e OSS. Queste due figure finiscono per fare un po’ gli “accontentatori” dell’una o dell’altra a periodi alterni. La ricerca della comunicazione e dell’interazione tra gli operatori è sullo sfondo.
Si potrebbe immaginare anche il personale del reparto come una famiglia, Primario e Caposala i genitori. A questo punto, quanto noto per il sistema familiare del paziente è assolutamente applicabile al personale. Le continue “adolescenze”, i continui distacchi dovuti ad operatori che vanno e vengono mettono questa famiglia sotto stress. La famiglia deve affrontare il mutamento continuo, deve reggere alla ferita dell’organizzazione narcisistica infantile e quindi la perdita della propria identità (Di Maria, Lo Verso, 1995).
5. Osservazione diretta
Attraverso la somministrazione di un questionario anonimo, ho provato ad esplorare quanta consapevolezza gli operatori sanitario abbiano delle difficoltà sopracitate e a mettere in evidenza, attraverso le simbolizzazioni personali sull’ambiente lavorativo, nuovi conflitti o risorse da cui ripartire.
È emerso un profondo quadro di solitudine dove le parti professionali agiscono il proprio lavoro senza la consapevolezza di un essere parte di un gruppo, anzi con un forte vissuto di paura e di responsabilità. Anche il rapporto con il paziente è descritto il più delle volte come frammentato, ogni figura ne prende in carico un pezzetto, senza la possibilità che questi pezzi vengano pensati come unità. Mentre gli intervistati dovevano definire da chi fosse composto il proprio gruppo di lavoro, infatti, i medici hanno citato solo i loro colleghi medici, qualche infermiere ha citato sia i medici che gli altri operatori sanitari, quest’ultimi non hanno risposto. Nessuno ha incluso il primario nel proprio gruppo lavorativo. È emerso quindi un grande scollamento dove alcune parti non riescono a vederne altre, probabilmente anche come conseguenza di una figura “genitoriale” assente o deludente (il primario).
Altro elemento messo in evidenza è la tendenza alla delega principalmente utilizzata da parte dei medici strutturati nei confronti degli specializzandi e degli infermieri. Delega intesa però non come momento di formazione, ma come lasciare ad un altro un peso altrimenti insostenibile che il più delle volte è rappresentato dal farsi carico della comunicazione con il paziente. Questo della comunicazione è proprio il livello che è apparso più frammentato: la storia clinica del paziente è letta su una cartella dal medico, gli infermieri non ne sono resi partecipi ma cercano autonomamente informazioni nella loro stretta e costante presenza a fianco del paziente, gli ausiliari sono completamente tagliati fuori e loro agiscono questa assenza partecipando poco o per niente all’intervista.
Pertanto, i conflitti sono agiti in una dimensione molto distante dalla ricerca attiva di una integrazione valida tra bisogno individuale, prospettive di gruppo e bisogno del paziente, come risultante di una capacità dei membri del gruppo di collaborare ad un sistema integrato.
6. Applicazioni pratiche
Ricca di queste riflessioni, finito il mio periodo di formazione, ho iniziato l’attività di medico in un’altra struttura ospedaliera, una casa di cura convenzionata, con l’iniziale ruolo di aiuto primario.
Condividendo questi pensieri con i colleghi medici, abbiamo pensato di istituire un momento fisso della giornata di condivisione con tutto il personale presente (medici, infermieri e operatori sanitari) in cui avere uno scambio sulle notizie cliniche progressivamente in evoluzione dei pazienti, con la finalità di avere uno spazio in cui poter creare un significato condiviso al gruppo di lavoro.
Abbiamo trovato molto utile integrare le nozioni, le conoscenze, le osservazioni e le competenze sulla problematica clinica del singolo paziente.
Questo modello ha trovato molta adesione ed interesse da parte di tutti, la condivisione di informazioni con le proprie varie competenze, ha reso più completo il quadro clinico ed ha posto tutti i presenti sullo stesso livello, in quanto tutti parte, al pari, del gruppo “assistenziale”.
Ma dopo soli 2 mesi è arrivato il caso a stravolgere il nostro setting ed a offrirci (non tanto bene accette) nuove possibilità di pensiero: la pandemia.
7. L’esperienza Covid
Il 25 Marzo 2020 il mio reparto di Medicina Interna è stato convertito in reparto covid e, per esigenze di struttura, dislocati in una clinica poco distante. L’equipe medica è rimasta invariata, mentre il personale infermieristico neoassunto.
Il momento che stavamo vivendo, la paura, le restrizioni, gli orari massacranti, la fatica hanno in un primo momento ridotto la possibilità di interazione tra noi.
Nelle stanze di degenza si poteva entrare solo uno alla volta, nelle stanze “grigie”, fuori dall’aria dei positivi, a distanza di 2 metri, massimo in 3.
È strano pensare ora che nel vivere e provare le stesse emozioni, ci siamo ritrovati fisicamente più distanti.
Il momento di crisi generale, della sanità e dell’ospedale nello specifico, ha permesso di modificare alcune dinamiche.
Prima fra tutti è scomparsa la pressione amministrativa sull’operato clinico.
Al contrario, tutte le risorse economiche possibili sono state messe in campo per permettere ai medici ed al personale sanitario di lavorare liberamente ed in sicurezza.
Ma era cambiato sensibilmente anche il paziente.
Come detto, solitamente il reparto di Medicina interna ospita pazienti che possono essere affetti da diverse patologie e spesso l’attenzione è proprio rivolta a raccogliere i sintomi e i segni per trovare una diagnosi ad un sintomo e di conseguenza una cura. Il lavoro di tutti, quindi, è rivolto in questa direzione.
E nei nostri incontri in medicina perseguiva principalmente questo scopo.
Il covid, invece, ha “uniformato” il nostro utente.
E lui a noi tutti.
Non c’era diagnosi da fare, non c’erano sintomi o esami da raccogliere, la malattia anche se con intensità diverse, era la stessa per tutti.
L’aspetto che invece risuonava con noi ed in cui tutti noi ci rispecchiavamo come solo un gruppo potentemente sa fare, sono state le emozioni.
Perché questa volta il nemico era comune, la paura anche.
Stavamo tutti vivendo lo stesso trauma.
Dietro ogni infezione, c’era una storia. Una storia legata al probabile tempo del contagio, un racconto legato al senso di colpa di avere infettato qualcuno, un figlio/padre ricoverato nello stesso momento ma di cui non si avevano più notizie.
È lì che ci siamo incontrati tutti, nelle emozioni.
E così spontaneamente, ci siamo ritrovati tra operatori sanitari a raccontarci pezzetti in più della vita di ognuno che raccoglievamo nel nostro rapporto con il paziente.
La malattia era nota, ma era la storia quella che ci interessava.
La caposala si occupava di cercare i parenti ricoverati in altri ospedali, di cui non si avevano più notizie, io di avvicinarli per ricoverarli insieme nella stessa stanza, qualcun altro si occupava di garantire un buon rientro a domicilio con la giusta assistenza, in un sistema familiare di appartenenza profondamente modificato o scomparso del tutto.
Abbiamo garantito un tablet per rimanere in contatto visivo con i propri parenti ed abbiamo assistito personalmente alle loro conversazioni.
Siamo stati noi il ponte di collegamento tra il paziente ed il suo caregiver, non più il contrario.
Siamo diventati tutti parte di una rete che non aveva quasi a che vedere con la malattia respiratoria in sé, ma una rete che si occupava del momento che tutti insieme stavamo vivendo, del disagio e delle difficoltà del paziente come essere umano, all’interno della sua e della nostra storia.
Abbiamo raccolto storie ed emozioni che si intrecciavano potentemente con le nostre, alimentavano o placavano le nostre paure.
Ci siamo abbracciati per i guariti, abbiamo singhiozzato insieme per le perdite.
8. Conclusioni
La pandemia è ancora in corso, ma noi siamo rientrati ad attività non covid a giugno 2021.
Ci siamo riappropriati del nostro reparto, dei nostri spazi, ma siamo profondamente diversi.
Siamo stati pezzi di un puzzle lungo e complesso.
Siamo ora simili e complici.
Dopo i primi tempi di attività “ordinaria” ho osservato come siamo ancora tutti sintonizzati sulle storie dei pazienti.
Non abbiamo ancora ripreso i nostri meeting di Reparto, ma ci parliamo di più.
E la maggior parte delle informazioni che ci scambiamo tra medici, infermieri e tutto il personale sono prevalentemente aspetti della vita privata del paziente, aneddoti, racconti, situazioni pratiche.
Ma soprattutto, il ruolo della malattia in quel preciso momento della sua vita.
Nonostante gli studi, la sensibilità osservazionale che ho coltivato con la mia formazione, forse un passaggio così netto ma allo stesso tempo così naturale non si sarebbe potuto compiere se non attraversando la pandemia.
Attraversando le nostre paure e le nostre emozioni, riconoscendole, siamo riusciti a leggerle ed intuirle nell’altro, avvicinandoci.
Siamo stati costretti, ma anche disposti a perdere dei pezzi del nostro ruolo e raccoglierne altri del tutto nuovi, indossando tutti la stessa divisa.
Nella vicinanza e somiglianza i conflitti non hanno più peso.
Non siamo più medici che fanno una diagnosi ed infermieri che somministrano un farmaco, ma siamo presenza quotidiana in un pezzo di vita di qualcuno, un pezzo di vita doloroso.
Con il ritorno all’ordinarietà si riaffacciano questioni che la pandemia aveva archiviato, come le esigenze burocratico-amministrative ed una nuova riorganizzazione del triangolo medico-paziente-caregiver.
Ma il mio compito adesso, come orgogliosa Responsabile di questo unito e sensibile gruppo di lavoro, è molto chiaro.
Si tratta di mantenere vivo, attivo e coinvolto il nucleo emozionale che ci ha fatto connettere profondamente con la natura umana e di tenerlo centrale nel significato condiviso del senso del lavoro, nel quale devono agire e diversificarsi le proprie uniche e speciali competenze.
Carli R. (a cura di) (1982), Esperienze di psicosociologia, Milano: Angeli.
Di Maria F, Lo Verso G. (1995). La psicodinamica dei gruppo, teorie e tecniche. Raffaele Cortina Editori, Milano.
Montesarchio G., Venuleo C. (2009), op. cit.; Montesarchio G., Venuleo C. (a cura di) (2010), ¡Gruppo! Gruppo esclamativo, Milano: Franco Angeli.
Rhode J.J. (1962), “Sociologia e psicologia sociale della sfera clinica”, in Maccaro G. A., Martinelli A. (a cura di) (1977), Sociologia della medicina, Milano: Feltrinelli.
Ruvolo G., Di Blasi M., Neri E. (1995), “Il gruppo come strumento psicosociale”, in Di Maria F., Lo Verso G. (a cura di) (1995), La psicodinamica dei gruppi, Mlano: Raffaello Cortina; pp 87-138.
Vito A (2014). Psicologi in ospedale, percorsi operativi per la cura globale di persone. Franco Angeli, Milano.
Fabiana Albanese: Medico Chirurgo specialista in Medicina Interna, Primario del reparto Medicina Interna e Vice-Direttore Sanitario del Polo Sanitario San Feliciano a Roma, Psicoterapeuta Gruppoanalista ITER.