A cura di Clarissa Marrazzo
Abstract
Il presente approfondimento nasce dalla curiosità di esplorare temi incontrati nello studio dei processi gruppali e di costruzione di comunità partecipanti fondate sul pensiero della coesistenza e della convivenza. Si partirà con l’esaminare il malessere della comunità in tempo di crisi, secondo la lettura gruppoanalitica di Kaës (2013), come disagio delle istituzioni sociali e culturali del nostro tempo, contestualizzate anche alla crisi degli ultimi due anni. Per poter superare tale malessere e aprire a nuove possibilità è necessario pensare il gruppo, “l’Essere-con, come il dato originario e imprescindibile dell’Esserci umano” (Napolitani, 1987). Il gruppo permette alla soggettività di confrontarsi con il sociale, con il pensiero della coesistenza e del dialogo con l’altro (Di Maria, 2017). La seconda parte di questo lavoro verterà dunque sul processo che dovrà attraversare la comunità, intesa come gruppo e polis, per divenire fondatrice di convivenza. Il fine è quello di riuscire a costruire una rete sociale per il benessere che superi il concetto di welfare state e si apra alla possibilità di un welfare pluralism fondato sul presupposto che la convivenza e il benessere possano essere promossi da diversi attori sociali, tra cui lo stato, il mercato e le reti informali (Di Maria, 2017).
Parole chiave: comunità partecipanti, coesistenza, convivenza, malessere delle istituzioni, welfare pluralism.
1 Il malessere nella cultura delle società ipermoderne
Gli ultimi due anni hanno rappresentato sicuramente uno sconvolgimento sociale, culturale ed economico che ha travolto l’intero pianeta. Probabilmente una crisi di tale portata non si vedeva da decenni o da secoli ed è una crisi in corso, che stiamo attraversando giorno per giorno e a cui si cerca di dare una lettura utilizzando lenti di osservazione già esistenti. La crisi, causata dal Coronavirus, ha portato all’evidenza di tutti il crollo delle certezze e dei presupposti su cui si fonda la cultura delle società iper-moderne. Cercheremo dunque di esplorare tali presupposti, partendo dalle teorizzazioni sviluppate negli anni precedenti rispetto agli eventi catastrofici avvenuti nel XX secolo. La psicanalisi si è interessata in più riprese all’analisi e alla descrizione del disagio all’interno della società contemporanea per chi scriveva. Freud nel 1929 in Disagio nella civiltà ha aperto alla necessità di pensare il rapporto tra psiche e mondo contemporaneo. Sicuramente dal 1929 ad oggi la società si è trasformata notevolmente e si sono evolute anche le teorizzazioni sui modelli del funzionamento psichico. Si sono susseguiti negli ultimi 90 anni una serie di eventi che hanno fatto crollare le credenze consolidate e costruito nuove forme di istituzioni sociali. Gli eventi maggiormente significativi sono stati la seconda guerra mondiale e la Shoah, i totalitarismi, la guerra fredda, il fenomeno della globalizzazione dei mercati, l’avvento di Internet, i fondamentalismi religiosi e il terrorismo, la preoccupazione ecologica per la sopravvivenza del pianeta. Tutti questi cambiamenti hanno determinato una crisi nelle istituzioni e nei legami intersoggettivi, tale da far emergere una nuova forma di malessere sociale e culturale (Kaës, 2013). Sebbene le trasformazioni dovute alla mondializzazione siano differenti nei diversi spazi geopolitici, vi si possono riscontrare alcune invarianti antropologiche che ci permettono di comprendere quali sono i processi e le formazioni psichiche che si attivano. L’ipotesi principale sviluppata da Kaës è che negli ultimi due decenni sono sopraggiunti cambiamenti nei legami intergenerazionali quali le relazioni tra sessi, il ruolo della donna, le metamorfosi delle strutture familiari, il mondo del lavoro, il legame con l’autorità e con il potere e quella che lui definisce la terza differenza. Questi sconvolgimenti hanno destrutturato quel contratto intersoggettivo e intergenerazionale che attraversa la collettività e i gruppi di appartenenza e che garantisce la conservazione dell’umanità. Di conseguenza hanno vacillato anche quelle credenze, fondatrici di quel senso comune e condivisibile che assicurava la base narcisistica della nostra appartenenza alla realtà sociale di fronte agli enigmi della vita. Ciò che è in crisi nelle società iper-moderne è il legame: sia quello tra gli individui e le diverse componenti della vita sociale e culturale, sia quello tra individui. Il concetto di società, elaborato dai sociologi, come emergenza storica dell’individuo nella società di massa, è un’illusione individualista. Il rischio è quello di considerare l’individuo come un atomo sociale, parziale produttore, consumatore o agente di servizi. Il malessere consiste dunque nella compromissione della capacità di essere e di esistere, con gli altri e con sé stessi, in un mondo così com’è. Se noi non fossimo riconosciuti così come siamo da un altro, noi non potremmo né essere né esistere. L’altro paradosso individualista è la scomparsa del rispondente, cioè colui che risponde ad un indirizzo, ad una domanda. Il rispondente accetta di divenire destinatario e non si sottrae al rischio dell’incontro. Nella nostra società questa figura viene sostituita dai risponditori automatici, da macchine operative che non conoscono il dubbio, l’angoscia, le emozioni. Sono affidabili, ma ignorano il rapporto di fiducia, alla base di qualsiasi forma di alleanza tra uno e più di uno. Kaës riprende la nozione di processo in assenza di soggetto di Heidegger. Sembra che il sapere e la volontà umana non abbiano più presa di controllo sui processi, i quali sembrano governati dalla casualità. Quindi il processo senza soggetto non dipende dall’azione di qualcuno in particolare, ma dalle azioni di tutti, e per questo è anonimo, nascosto e agito nel sistema. Queste teorie filosofiche denunciano le aporie del mondo moderno, in cui il collettivo si impossessa di tutto lo spazio psichico, aliena il soggetto riducendolo all’essere individuo, atomo appunto di quella collettività. Sottomesso alla comunità, il soggetto dà vita alla logica individualista, alla società dell’individuo, ad un nuovo ordine totalitario. Queste teorie filosofiche però bypassano la relazione co-costitutiva del soggetto e dell’insieme, dell’individuo e del gruppo, dell’identità e dell’alterità. L’altro, il più di un altro, infatti precede il soggetto, in quanto è colui che l’ha investito e inserito nel mondo simbolico. Sono proprio i contratti soggettivi e intergenerazionali che ci garantiscono l’investimento del nostro posto in un insieme e ci impongono di investire in quel posto per assicurarci la conservazione. Il malessere della società sta nel fatto che questi stessi posti sono divenuti instabili perché instabili sono i miti e le credenze, le grandi narrazioni che ci hanno fornito le matrici di senso comune e condiviso e che assicurano la base narcisistica della nostra appartenenza.
1.1 Caratteristiche del malessere
Kaës (2012) identifica quattro principali caratteristiche della società post- e iper-moderna coinvolte nei caos identitari che specificano il malessere contemporaneo:
Tutte queste dimensioni hanno distrutto la fiducia nell’umanità, provocando paure, insicurezze, angoscia e violenze. Queste esperienze traumatiche, sottoposte al meccanismo del diniego, vengono rese impensabili. Ciò che rimane da pensare è soltanto la precarietà dei flussi migratori, l’esclusione, la disoccupazione, l’esaltazione dei fondamentalismi, la dipendenza dalla tecnologia, l’urgenza e i legami effimeri. Queste caratteristiche hanno modificato l’organizzazione e il funzionamento dello spazio intrapsichico e i suoi rapporti con gli altri spazi di realtà.
2. L’alleanza e il legame
La crisi delle società iper-moderne viene rintracciata all’interno del legame, ma cosa si intende con esso? Sin dall’origine della vita psichica, il soggetto si identifica con altri soggetti, rispetto ad un oggetto comune, per formare una coppia, una famiglia, per vivere in comunità, per legarsi gli uni agli altri. I soggetti si accordano tra di loro attraverso diverse modalità di identificazioni e risonanze fantasmatiche, che producono delle accordature psichiche, intendendo con esse una tessitura di voci, di parole e di discorsi che vanno a costituire la psiche in situazioni di gruppo (Kaës, 2002). L’alleanza è un’invariante antropologica, ma le sue forme sono diverse e sono sottoposte alle trasformazioni della storia sociale e culturale. Le alleanze inconsce sono quelle che si annodano tra due o più soggetti, creano legami, tanto i legami intersoggettivi, transoggettivi e sociali, quanto quelli che legano tra loro le generazioni. Le alleanze sono presenti anche nello spazio intrapsichico di ogni soggetto: si annodano tra le pulsioni di vita e quelle di morte, tra i desideri e gli interdetti. Queste alleanze interne, a loro volta, creano rapporti complessi con le alleanze di un altro, più-di-un-altro, attraverso l’assemblaggio tra le alleanze inconsce interne e le alleanze inconsce nel legame. Per entrare nel legame i soggetti devono formare e suggellare tra loro delle alleanze, utili non soltanto a stabilire, mantenere e contrarre il legame ma soprattutto per preservarne contenuti e poste in gioco. Alcuni di questi legami sono segreti e per buona parte inconsci. Secondo l’autore (Kaës, 2009), infatti le alleanze si definiscono inconsce perché sono sottoposte ai processi costitutivi dell’inconscio e si suddividono in: alleanze strutturanti primarie, strutturanti secondarie, inconsce metadifensive, offensive. Il loro obiettivo è: assicurare gli investimenti vitali per il mantenimento del legame e dell’esistenza dei suoi membri, che esigono una reciprocità e una comunanza negli investimenti narcisistici e oggettuali; costruire una comunanza di difesa per trattare la categoria del negativo nella vita psichica individuale e collettiva. L’alleanza infatti unisce e nello stesso tempo esclude, l’alleanza crea un accordo, il cui rovescio è la perdita del conflitto e dunque dell’irriducibile pluralità. Il negativo è l’impossibile, ciò che manca e per questo ciò che segna il legame perché deve essere cancellato e rimosso. “La categoria del negativo ha segnato una svolta (…): il gruppo non poteva più essere pensato come luogo di realizzazione dei desideri inconsci individuali, ma diventava luogo di attuazione di sogni, di desideri non realizzati di altri” (Kaës, 2001, p.168). Per realizzare questa operazione è necessario dunque il ricorso all’altro, più-di-un-altro. Al momento del primo incontro, i membri del gruppo devono concludere, a loro insaputa, un accordo inconscio in cui dovranno rimuovere, denegare, rigettare alcune rappresentazioni della categoria del negativo. Tale accordo viene definito da Kaës (1987) patto denegativo, come il risultato del lavoro di produzione dell’inconscio necessario alla formazione e al mantenimento del legame intersoggettivo. Viene concluso per assicurare i bisogni difensivi dei soggetti e svolge anche una funzione di metadifesa, perché è una modalità di risoluzione tanto dei conflitti intrapsichici che dei conflitti che attraversano il legame. Per Freud (1925) è il rifiuto della percezione di un fatto che, imponendosi nel mondo esterno, è percepito come pericoloso per il soggetto. Da qui nasce l’ideologia e le diverse forme di negazionismo, che altro non sono che alleanze inconsce difensive, alienanti e patogene. La loro caratteristica comune è quella di essere una risposta ad una situazione catastrofica che fissa e congela le componenti traumatiche legate alla catastrofe, senza poter aprire ad una trasformazione. Dunque una volta conclusa l’alleanza crea un accordo, il cui rovescio, ciò che lascia da parte, è il negativo, il conflitto, l’incontro delle differenze. Freud scriveva (1929) che è possibile riunire un numero anche rilevante di persone che si amino l’un l’altro, fino a che ci saranno all’esterno altri su cui manifestare l’aggressività. Le alleanze di base sono quelle più interne e sostengono i legami più conflittuali: si fondano sulle prime esperienze di piacere condiviso e sull’illusione comune, come l’alleanza di accordatura tra la madre e l’infans. Vengono suggellate per la realizzazione di desideri che altrimenti, senza il concorso dell’altro, non potrebbero essere soddisfatti. Richiedono però ad ognuno dei partner la rimozione o il rigetto di ciò che è vissuto come pericoloso per sé e per il legame con l’altro. Tutte queste alleanze si fondano su basi fantasmatiche e oniriche comuni, su identificazioni e meccanismi difensivi.
3. Alleanze inconsce e campo sociale
Le forme sociali delle alleanze sono varie e sono uno degli strumenti sociali, politici e giuri-dici in vista della realizzazione di una causa quale l’accesso al potere, i patti di pace, le coali-zioni contro un nemico comune. Secondo Ricoeur (1969) “l’entrata dell’uomo in contratto (…) è l’atto fondatore (…) che si presenta come un sacrificio, un abbandono e una instaura-zione dell’uomo ragionevole, civile e libero”. Rousseau sostiene che l’ordine sociale poggia su un contratto concluso da un cittadino nei confronti di tutti i suoi simili, lo Stato. In esso ciascuno si impegna a rispettare la legge comune in cambio della protezione della propria per-sona e dei propri beni. I grandi sconvolgimenti della storia, i profondi mutamenti della società e le catastrofi collettive, chiamano sempre in causa i processi psichici atti ad assicurare le di-fese strutturate collettivamente sulle quali poggiano le difese individuali e sulle quali si man-tengono le istituzioni. Queste metadifese sono costruite e mantenute al prezzo di amputazioni psichiche contro il pensiero e l’accettazione della realtà. Tutte le alleanze sociali, politiche, religiose richiedono, infatti, dei garanti, la cui funzione è assicurare la fondatezza dell’alleanza stessa e delle sanzioni che accompagnano il non rispetto del loro effetto, la rot-tura e il tradimento. Con il fallimento dei garanti metasociali viviamo la trasformazione delle grandi matrici della simbolizzazione quali la cultura, la creazione artistica, i riferimenti di senso. Questi cambiamenti perturbanti mettono seriamente in causa l’identità dei gruppi e del-le collettività, ma anche il processo di socializzazione degli individui, divenendo allo stesso tempo cause ed effetti di fenomeni quali la violenza sociale e individuale, l’esclusione, le condotte devianti e di emarginazione (Kaës, 2013). Sebbene le alleanze politiche e sociali so-no alleanze consce, perché spesso basate su contratti espliciti e messi per iscritto, esse na-scondono fantasmi, identificazioni, poste in gioco di ordine inconscio, che appartengono ap-punto alla categoria del negativo. Quest’ultimo permette di mantenere inconscio l’emergere di una realtà insostenibile e inaccettabile.
3.1 I gruppi come luogo delle alleanze
I gruppi sono, al tempo stesso, oggetto di lettura e strumento di intervento nel crollo delle credenze condivise e delle rappresentazioni comuni. Kaës considera il gruppo come il luogo di produzione di uno spazio psichico comune e condiviso, chiamato “apparato psichico grup-pale” (Kaës, 1976). Nel gruppo ogni soggetto fa esperienza dell’eterogeneità dell’inconscio degli altri soggetti, dunque la situazione di gruppo dà accesso all’esperienza e alla conoscenza dei processi di articolazione tra le strutture individuali e le strutture inter-soggettive comuni e condivise da ogni soggetto.
I contenuti inconsci rimossi o denegati fanno ritorno nella catena associativa gruppale attra-verso processi transferali, sintomi condivisi, formazione di sogni. Il sintomo è il testimone e l’oggetto dell’alleanza in quanto la manifesta, la esprime e la nasconde. La funzione transi-zionale del gruppo, la sua capacità di trasformare i processi psichici, di essere il luogo in cui si formano e si sciolgono i nodi delle alleanze inconsce, e quindi di sostenere un processo di soggettivazione, l’hanno reso particolarmente qualificato per il trattamento di alcuni tra i di-sagi psichici che nascono nel mal-d’essere dell’ipermodernismo. Le parti psicotiche della per-sonalità, depositate o seppellite nel quadro delle formazioni collettive, vengono liberate e ge-nerano sofferenze psichiche intense, disorganizzatrici dei legami intersoggettivi e dello spazio interno. I punti di riferimento di urgenza identificatoria forniscono a tutti una rassicurazione narcisistica e producono un gruppo Uno, che sostiene la possibilità di ritrovarsi dopo aver te-muto di perdersi o di venire distrutti. L’identificazione primaria ad un gruppo determina ciò che Anzieu (1971) chiama illusione gruppale, la cui enorme idealizzazione che la sostiene è necessaria alla formazione del gruppo e al processo di affiliazione dei soggetti come membri del gruppo. I processi e i vissuti psichici del periodo iniziale si ripetono con delle varianti nel corso della storia del gruppo. Essi corrispondono a movimenti di chiusura del gruppo su sé stesso e a una rappresentazione del mondo esterno come pericoloso. Nessun gruppo, nessuna famiglia, nessuna istituzione è esente da questo processo che è proprio al fatto stesso di rag-grupparsi, di creare un gruppo: il fenomeno non è patologico “in sé”, lo diventa solo se il pro-cesso gruppale si innesta sulle esperienze strutturanti della disillusione e della depressione. Tutti questi fenomeni si producono solo e tramite il fare gruppo, sono fenomeni che si attiva-no soprattutto quando sopraggiunge un cambiamento considerevole che genera incertezza e che riguarda contemporaneamente lo spazio interno e lo spazio comune e condiviso, e ci in-formano di importanti componenti del malessere contemporaneo.
4. Considerazioni
Esplorare i processi di formazione e di mantenimento delle alleanze inconsce permette di comprendere i processi di funzionamento della società e di conseguenza anche la crisi che emerge nel momento in cui le alleanze inconsce nel campo sociale vengono perturbate da grandi cambiamenti, che fanno crollare le garanzie su cui tale alleanze si fondano. Queste ga-ranzie sono insite alle alleanze interne all’individuo, alle alleanze tra l’individuo e il gruppo, alle alleanze tra i legami di queste ultime e quelle delle generazioni precedenti. L’alleanza funziona fino a quando i contenuti, le poste in gioco rimangono stabili e fuori dalla coscienza, fino a quando rimane stabile la fiducia tra i contraenti del contratto. Volendo contestualizzare quanto su espresso attraverso le teorizzazioni di riferimento, è possibile affermare che la cul-tura delle società ipermoderne, caratterizzata dalla globalizzazione e mondializzazione dei mercati e del pensiero, è crollata nel momento in cui non è riuscita a controllare un evento inaspettato, quale la diffusione del virus. Esso ha fatto emergere la controparte negativa di una cultura basata sulle logiche del controllo, dell’esaltazione dell’individualità e sulle logi-che di potere. Individuo, potere e controllo non sono serviti infatti ad arginare il virus, anzi hanno portato alla luce la loro deriva patologica: si sono amplificati i fenomeni del capro espiatorio che rappresenta il massimo processo di espulsione e di negazione della categoria del diverso, con attribuzione delle colpe e dell’odio sull’altro, con un meccanismo di proie-zione paranoica. Nel momento in cui le istituzioni delle grandi società ipermoderne d’occidente non sono state in grado di rispondere ai bisogni della comunità, per non perdere ulteriore consenso e fiducia nell’alleanza tra esse e la comunità, hanno attivato un processo di attribuzione delle cause del virus all’esterno, a coloro che provenivano da oriente, ossia i ci-nesi. Hopper (2021) in un convegno, ha affermato che durante le grandi crisi, i capri espiatori vengono sempre relegati a est, sede dell’inconscio storico. L’est può essere letto come una metafora, il luogo in cui sorge il sole e il luogo da cui arrivano le grandi minacce. Abbiamo dunque percepito il virus come quella minaccia proveniente dall’est, tant’è che Trump, che lo scorso anno rappresentava la potenza mondiale per eccellenza, considerava il covid una pan-demia della Cina. Di seguito è successo che, quello che abbiamo proiettato all’esterno, ad est, è ritornato su di noi, ci ha coinvolti tutti. Ciò ci dimostra che entrare in relazione autenti-ca con l’altro, o più di un altro, significa essere turbati e perturbati da tale legame. Bisogna quindi attraversare la confusione delle diversità per poter iniziare a costruire una cultura della convivenza.
5. Convivere
Dal latino cum-vivere, la parola convivenza delinea forme di vivere insieme. Nell’antichità gli incontri tra rappresentanti di popoli diversi erano celebrati attraverso un convivio, parola anche questa con la stessa etimologia. Il convivio era un banchetto, la condivisione di un pasto comune, che simbolicamente sanciva un’unione, un legame, una condivisione di obiettivi comuni, un’alleanza tra due o più attori sociali. Era appunto un momento di vita insieme, anche a forte contenuto politico, in quanto la trasgressione di quella convivenza, lì sancita, avrebbe generato una rottura, una guerra. Ma il convivio è anche un incontro a carattere scientifico, in cui esperti si riuniscono per far discutere le varie discipline, per far circolare e condividere idee. La convivenza è dunque “la componente simbolica della relazione sociale” (Carli, 2017) e viene originata da tre componenti, senza le quali non potrebbe esistere: i sistemi di appartenenza, l’estraneo, le regole del gioco.
Possiamo dunque pensare alla convivenza come ad un triangolo ai cui vertici sono presenti le tre componenti. La convivenza permette a noi e ai sistemi di appartenenza di cui siamo parte, di dialogare e di entrare in negoziazione con l’estraneo che presenta obiettivi, valori, cultura diversi dai nostri. Questa negoziazione è possibile attraverso delle regole del gioco, norme non vincolanti, ma che garantiscono l’esplorazione della diversità per entrare in relazione con essa e per arricchirsi delle risorse da essa portate. Se non ci fosse l’alterità, non ci sarebbe relazione, ma soltanto fantasie agite di fusionalità entro i sistemi già noti.
5.1. Violazione della convivenza
Cosa succede se una delle tre componenti viene meno? Si assiste a quei fenomeni sociali in cui vengono trasgrediti i presupposti di base della convivenza. Se si pretende di entrare in relazione con l’altro, non tenendo conto dei vincoli regolativi, quindi facendo cadere le regole del gioco, necessariamente l’altro diventerà il nemico. Senza un contenimento, ad esempio quella regola per cui l’ospite è sacro, l’altro diventa un invasore, un estraneo pericoloso. Ciò determina una chiusura sociale violenta nei confronti dell’altro che porta alla creazione di società alternative come ad esempio la mafia. Essa è un sistema di appartenenza basato su regole interne proprie e completamente differenti dalle leggi dello stato. Tali regole fondano però uno “stato alternativo”, basato su codici e su vincoli d’onore ben definiti. Nei casi in cui non è possibile assimilare il diverso ai sistemi di appartenenza familistici, si determina un’espulsione dell’altro con la creazione di veri e propri rituali di violenza. L’altro viene vissuto come una minaccia alla propria identità, che per essere nuovamente affermata e rimarcata, deve ripristinare ordine e controllo, facendo uso anche della violenza. Basti pensare alla questione delle migrazioni. Gli stranieri, provenienti da altri Paesi, vengono simbolizzati, da gruppi ideologici orientati in questo senso, come nemici da eliminare, in quanto vanno a minare i fondamenti di una cultura europea e italiana ben consolidata. I decreti volti a impedire gli sbarchi sono quindi funzionali ad affermare la propria identità attraverso l’uso della violenza contro l’altro e del controllo, come lasciare per giorni in mare barconi pieni di gente, che finisce per morire. La coesione interna al sistema di appartenenza viene mantenuta attraverso queste forme di negazione del diverso. Il rischio è l’annullamento, interno al sistema, delle distanze sociali, che trasformano l’appartenenza in obbligo. Questi sistemi infatti, se non alimentati dall’estraneità, rischiano di creare anche violenza autoriferita, con la sopraffazione del più forte sul più debole. Alcune vicende di cronaca mostrano quanto detto, come il caso di una ragazza che è stata brutalmente uccisa dalla sua famiglia d’origine, perché voleva sottrarsi ad un matrimonio programmato, secondo la cultura musulmana. In questo caso il diverso è rappresentato dalla figlia stessa che, non adeguandosi alle regole del sistema di appartenenza, è stata uccisa. Quest’atto di violenza, in sistemi di questo tipo, rappresenta la possibilità di ripristinare il controllo sull’identità culturale della famiglia. Un terzo modo di violare la convivenza è escludere il sistema di appartenenza: l’atto eroico di accettare l’estraneo in maniera incondizionata, di amare tutti in maniera indifferenziata, di abbandonare le proprie origini per dedicarsi completamente agli altri. Questa sopravvalutazione dell’altro può essere letta o come un attacco al sé e alla fondazione della propria autostima, oppure come un’esaltazione del sé alla dedizione gratuita e senza rapporto, fortemente narcisistica. In questo caso quindi la negazione del sistema di appartenenza diventa costruzione di un’ideologia di qualsiasi tipo, dall’Amore per l’altro, alla completa dedizione e annullamento del cliente al suo terapista. Più è grande il tentativo di disfarsi della vecchia appartenenza, più diventa forte l’adesione alla nuova ideologia. In conclusione, possiamo affermare che la convivenza, come ogni forma di relazione sociale, implica sempre un terzo che funge da controllo alle trasgressioni del modello. Queste tre componenti, i sistemi di appartenenza, l’estraneo e le regole del gioco, rispecchiano le tre dimensioni dell’approccio psicologico alla realtà: il sé, l’altro e il processo che regola la relazione. Carli (2017) parla della violazione della convivenza come mito in quanto, tale violazione agisce emozioni entro la dinamica della simbolizzazione affettiva, senza relazione con la realtà. La trasgressione della convivenza è concettualizzata dunque come ritorno al mito agito, alla fantasia mutila e impotente, che blocca il passaggio dall’appartenenza alla socialità.
5.2 La psicologia della convivenza come superamento del crollo della socialità
La globalizzazione dei mercati e la diffusione di un’economia capitalistica hanno prodotto forme di potere politico monoteistico, basato su idee semplicistiche e unilaterali, prive di creatività e immaginazione in quanto basate su una competizione fondata sul consenso. Se l’obiettivo di queste forme politiche è ottenere il consenso, di conseguenza si basano sulla perdita del senso della differenza, non solo reale, ma anche della differenza di pensiero e della capacità di cogliere come risorsa le differenze di cui l’altro è portatore. Secondo Stefano Braccini (1997) tale perdita determina una crisi della società e parallelamente l’utilizzo di un linguaggio politico che fa uso di contaminazioni psicologiche, riflesso della crescita degli indici di sofferenza della società. Parole come depressione, conflitto, crisi, rappresentano società sempre più disgregate e conflittuali, che per evitare le differenze, agiscono un controllo repressivo e autoritario che rischia però di portare ad un’esplosione interna. Tutte le persone, i gruppi, le società possono attraversare situazioni di crisi, dovute a eventi passati oppure a circostanze presenti; ciò che fa la differenza è come viene affrontata tale crisi guardando alla promozione di benessere. L’evento di crisi è infatti legato tanto all’ambiente, tanto alle componenti psicologiche soggettive. Esplorare e intervenire sui mutamenti sociali e politici utilizzando obiettivi e metodi della psicologia clinica, è ciò che è stato attuato da Franco Di Maria (2017) con la psicologia della convivenza. Questo approccio costituisce il “punto di incontro tra la realtà psichica e sociale, in quanto permette di evidenziare le dimensioni sociali degli eventi psichici (stress, ansia, disturbi psicosomatici, ecc.) e di trovare le dimensioni soggettive che entrano negli eventi sociali (allocazione delle risorse, rapporti di potere, povertà, disoccupazione, prevenzione, ecc.)”. La psicologia della convivenza opera a diversi livelli: incontrando le dimensioni interpersonali, ma anche funzionali, politiche, economiche, giuridiche e adottando strategie di intervento multidisciplinari. L’equazione di Lewin C=f (P, A) viene ampliata, in quanto il soggetto non è più considerato soltanto cosciente e desiderante, ma un soggetto che agisce e che si confronta con il sociale che lui stesso contribuisce a costruire. Conoscere le dinamiche presenti tra i vari componenti interdipendenti dell’unità sociale, permette di intervenire con dei cambiamenti efficaci che producano empowerment organizzativo e collettivo, valorizzazione della prevenzione e promozione del benessere in tutte le sue forme. La psicologia della convivenza parte dai microsistemi, i contesti di vita della persona, per passare dai mesosistemi, composti da più microsistemi e dai loro legami e infine giungere agli ecosistemi, che influenzano gli individui ma di cui la persona non ha esperienza diretta, ai macrosistemi, ossia il modello ideologico e organizzativo delle istituzioni sociali comune alla classe sociale, etnica e culturale a cui l’individuo appartiene. Il vertice di osservazione per questo approccio complesso è sicuramente quello gruppoanalitico, basato sulla logica di connessione e/e, che permette di superare le dicotomie ed esplorare i processi trans, che si basano sul presupposto che non può esistere soggettività senza un mondo che la strutturi. Il rapporto tra la soggettività e il transpersonale si basa sulla capacità della prima di relazionarsi all’innovazione, risignificando le proprie relazioni e generando azione pro-sociale e progettazione per il futuro. La psicologia della convivenza ha come obiettivo quello di generare empowerment, ossia quel processo attraverso cui al soggetto si aprono nuove possibilità, che non significa direttamente cambiamento, bensì pensabilità del cambiamento. L’empowerment del soggetto rappresenta l’ampiezza dello spettro delle possibilità percorribili, che si trasforma in ricerca delle competenze, sperimentazione ed elaborazione. La sperimentazione porta il soggetto ad uscire dalla riflessione fine a sé stessa e andare verso l’azione, agire diverse possibilità. Empowerment è potere di agire e si manifesta con tre dimensioni fondamentali che sono: sentimento di competenza, energia e motivazione. La psicologia della convivenza lavora su queste tre dimensioni ossia sulla possibilità di far emergere il desiderio piuttosto che il bisogno, le risorse sui problemi per promuovere benessere. La psicologia è la scienza della convivenza consapevole e progettuale, della competenza a convivere, ciò significa che la psicologia può acquisire strumenti e concetti capaci di contribuire ai cambiamenti politici di una comunità e non solo ad interpretarla. Attraverso il vertice gruppale è possibile compiere il transito dall’interpretazione alla trasformazione perché i gruppi non sono realtà statiche, ma esprimono un progetto, un modo di stare insieme e pongono una complessità di domande, tra cui cosa sia il Noi. Di Maria (2017) parla del Noi come quarta persona del singolare, pensiero altro rispetto all’individuo, che oltrepassa l’individualità ed è un pensiero sulla convivenza, della relazione con sé e con i gruppi che l’altro rappresenta. “Il gruppo, in quanto spazio antropologicamente fondato in cui si attualizzano le condizioni della relazione intersoggettiva, è lo spazio mentale in cui la dinamica di decostruzione di un pensiero saturo verso un pensiero del cambiamento può essere agita… Il gruppo non si presta soltanto alla conoscenza del contributo dato dal sociale alla formazione della mente individuale, ma anche al movimento opposto in cui la soggettività può confrontarsi con il sociale, con un pensiero della polis che sia un pensiero della coesistenza e del dialogo con l’altro, con il valore della diversità.”
6. La fondazione di una comunità
Diego Napolitani (2006) nel suo scritto Individualità e gruppalità, afferma che il fondamento vitale del neonato sta nell’atto dell’essere gettato fuori, nel suo esserci. Tale fondamento vitale è l’elemento costitutivo della sua identità, corrispondente alle caratteristiche dell’ambiente, da egli definito, condominiale. Il condominio è descritto come un insieme di persone che condividono la titolarità di spazi comuni della struttura abitativa in cui ciascuna domus ha il proprio dominus che tende a far prevalere il proprio vantaggio nell’uso degli spazi e servizi comuni. Ciò genera una guerra fatta di boicottaggi o momenti di pace armata, caratterizzata da strategie di controllo dei vicini. Ma in questo scontro tra padroni emergono anche rapporti di simpatia e buon vicinato. Ogni essere umano, secondo Napolitani, nasce in un condominio storicamente e sociologicamente definito, popolato da presenze più o meno continuative e vincolate tra loro. Ciò significa che il bambino abita fisicamente un ambiente, da cui viene progressivamente abitato, e questo ambiente interno/esterno è strutturato secondo un ordine e un rigore che il bambino, nelle prime fasi di vita, concepisce come procedure pre-razionali. Il bambino, nell’arco della sua vita, fa esperienza del proprio condominio incarnato, nel quale si alternano diverse voci, e il quale si agisce in tutte le relazioni. In questo condominio le gruppalità interne di ciascuno colludono tra loro nella costituzione delle gruppalità sociali. Qualora il bambino trasgredisca le regole condominiali, nella misura in cui sperimenta la curiosità e l’apertura al mondo, egli è colpevole. È la mancanza, che spinge l’uomo ad andare oltre i confini del già noto, a cambiare il suo ambiente non solo per necessità di sopravvivenza, ma per bellezza, che è coniugata alla pratica di libertà. Libertà significa esprimersi secondo un principio di auto-nomia, in contrapposizione al nomos condominiale. Chi oltrepassa la soglia del proprio condominio fa esperienza della sua esistenza come progetto proprio, ma necessariamente sperimenta lo smarrimento nello spazio aperto delle possibilità e del non prevedibile. Oltrepassare la soglia del condominio significa iniziare a dialogare con il cambiamento, con il pensiero della polis, significa porre le basi per il superamento della singolarità verso la formazione di una mentalità plurale (Di Maria, 2017). Il condominio di Napolitani può essere inteso come la mente collettiva di Di Maria, in cui le azioni collettive costituiscono la storia di ciascuna comunità, intesa come sistema di relazioni tra menti individuali e gruppali in essa presenti. Fondare una comunità vuol dire costruire un locus temporale e immaginario, uno spazio in cui le dinamiche gruppali portano alla ricerca di nuovi significati, insieme emotivi ed istituzionali. Secondo Hopper (1994) il pensiero della trasformazione è possibile attraverso il lavoro politico della mente. La sua osservazione si fonda sull’idea che il sociale e il politico determinano quote fondamentali del mondo interno di ogni individuo: la separazione tra il politico e l’individuo è solo artificiale, in quanto il politico fonda l’individuo, così come l’individuo fonda il politico con un influenzamento reciproco, che viene definito scambio fra soggettività e socialità. Il politico si configura quindi come la declinazione agente dell’immaginazione, mentre la soggettività si presenta come il precipitato del principio di realtà. È come se il politico e la polis facessero irruzione nel sociale, determinando quella che Erich Fromm definisce personalità rivoluzionaria: quella persona che ha la capacità di distaccarsi dagli avvenimenti, di leggerne la dinamica, non escludendo il coinvolgimento che produce l’identificazione con essi. Per politica si intende (Di Maria, 2017) il modo di concepire e regolare i legami e i rapporti nell’interumano, della comunità. La politica è dunque costitutiva dell’immaginario sociale inteso come dialettica tra soggettività e le presenze collettive che lo hanno preceduto e concepito, come ad esempio la famiglia transgenerazionale. Ciò che diviene interno non sono i rapporti, ma le modalità di rapporto e gli spazi mentali in cui sono inserite. In questo modo ciò che è interno diventa esterno e viceversa, e la politica è la co-protagonista dell’evoluzione sociale e umana delle civiltà. Attraverso una cultura della polis il soggetto individuale può transitare verso una soggettività collettiva e il modo di starci in questa comunità politica è determinato dal campo mentale che questa stessa costituisce. La polis è quel luogo-tempo della convivenza competente e responsabile. Il politico, letto in chiave gruppoanalitica, è un modello di costruzione del futuro, che valuta con importanza il già stato, per aprire a spazi innovativi di coesistenza tra soggetti e soggettività.
7. La convivenza come progetto
Utilizzare i presupposti e gli obiettivi della psicologia della convivenza non significa annullare e distruggere i servizi esistenti e sorti negli anni ’70 con l’istituzione delle politiche sociali, significa piuttosto riorientarli verso una nuova progettualità che consiste nel costruire rapporti collaborativi tra reti formali e informali e di promuovere maggiore integrazione nella comunità (Siza, 1996). Gli interventi psicosociali non devono più essere guidati da un principio di bisogno, che vede i cittadini come utenti passivi di interventi assistenziali che non fanno altro che aumentare la dipendenza del cittadino, espropriarlo delle sue competenze e delegare ad altri, ai servizi e al mercato, la capacità di soddisfare i suoi bisogni. Oggi si parla di processi di empowerment il cui fine è quello di sviluppare autonomia, competenza, partecipazione, senso di responsabilità negli individui e nelle comunità. Come affermato anche in precedenza, l’empowerment consiste nel processo di ampliamento delle possibilità di cui il soggetto dispone per poter intraprendere o far fronte ad un cambiamento, controllandone la direzione e l’efficacia a vantaggio personale e collettivo (Bruscaglioni, 1994). L’empowerment è dunque uno degli obiettivi fondamentali di un progetto di promozione della convivenza, inteso come “una chiamata di tutti i cittadini a impegnarsi per trasformare il territorio della vita, del lavoro, della convivenza ecc; è una chiamata alla politica intesa come cura della polis” (Contessa, 1994). Promuovere la convivenza vuol dire rendere i cittadini capaci di esercitare controllo e di migliorare la propria dimensione di benessere e di relazione. Il lavoro dello psicologo della convivenza è quello di diventare inutile, cioè di creare comunità che siano in grado di prendersi cura di loro stesse. Ciò vuol dire favorire la care by the community, l’assistenza da parte della comunità (Bulmer, 1992). Questo fa emergere la distinzione tra sviluppo di comunità e servizio di comunità, entrambi motore di benessere conviviale, ma con una diversa definizione del ruolo del cittadino. Il servizio di comunità si basa su una logica di marketing sociale, in cui i cittadini sono utenti-consumatori di un prodotto-servizio che viene attivato sulla base di una domanda-bisogno. La comunità è dunque il bacino d’utenza (Chavis, De Pietro, Martini, 1996). Nei progetti di sviluppo di comunità, la cui logica è quella dell’empowerment, i cittadini sono i committenti delle agenzie di servizio, ne definiscono direzione, strategie, politiche, identificano gli obiettivi, gli interventi e le verifiche. In questo contesto la comunità è soggetto politico. Questa seconda direzione si fonda sulla partecipazione come tutela della qualità delle decisioni, perché l’attivazione dei cittadini che si trovano ad affrontare situazioni e problemi, può generare soluzioni non ancora elaborate dal sistema codificato di esperti e professionisti, o lasciate insoddisfatte dalla razionalità amministrativa di enti pubblici e organizzazioni economiche (Rei, 1996). Le reti sociali rappresentano quindi quelle risorse che compongono la comunità in grado di valorizzare i servizi già presenti per la produzione di benessere. La comunità e le reti sociali che la compongono sono infatti quel luogo in cui è possibile rintracciare risorse e non solo problemi e dove si possono generare risposte potenziali.
7.1 Pratiche efficaci e rischi per lo sviluppo di comunità
Muoversi nella direzione dello sviluppo di comunità, intesa come spazio di convivenza, vuol dire leggere la logica dei servizi attraverso criteri psicologici, sociali, etici e politici, utilizzando le risorse che derivano dalle pratiche delle organizzazioni aziendali. Ruvolo (2017) ne individua le più salienti, quali la cultura di servizio e l’orientamento al cliente, la cultura della competenza e la cultura degli obiettivi. La prima consiste nel concepire ogni atto di lavoro come proteso a produrre un servizio per qualcuno. La centratura sul cliente/utente ha portato a ripensare sia le funzioni gerarchiche, per cui il capo è una funzione organizzativa il cui compito è creare migliori condizioni per i suoi collaboratori, sia la funzione di valutazione di servizio e di efficacia che non è più prerogativa di chi ha ruoli direttivi, ma è affidata al cliente/utente rispetto al suo feedback di soddisfazione. Se sul versante esterno all’azienda, orientamento al cliente vuol dire massima attenzione alla sua domanda, su quello interno, vuol dire sostenere le cosiddette core-competences, ossia le competenze peculiari in grado di assicurare i servizi per i quali l’azienda esiste. L’attenzione allo sviluppo delle risorse umane (selezione, formazione, sviluppo delle competenze, carriere ecc.) e una funzione ad essa dedicata, testimonia l’importanza che l’azienda assegna a fattori legati alle persone, in particolare se sono intese come risorse. In aziende “sane” la soddisfazione dei clienti esterni è correlata al grado di soddisfazione del personale. La qualità totale dell’organizzazione può essere letta sulla base dell’atteggiamento di fondo e motivazione proattiva tra le persone che lavorano per un miglioramento continuo. Spesso queste pratiche vengono piegate dal profitto e dagli interessi personali. La tensione esclusiva alla performance, tipica della cultura individualistica, finisce per far perdere di vista il perché dell’azione e della scelta, quindi quella valenza storica e soggettiva della condotta umana nel suo legame con il mondo e con gli altri. La difficoltà di identificare gli altri come simili a sé e la sfiducia nelle istituzioni finiscono per distruggere il senso di appartenenza alla comunità e di generare una sorta di depressione comunitaria, dove il gruppo è solo un gruppo di lavoro per fare qualcosa, dove non ci devono essere legami di appartenenze e identità.
8. Il ruolo delle reti sociali: dal welfare state al welfare pluralism
Il modello di sviluppo di comunità parte dai valori che sottostanno l’idea di welfare state quali solidarietà, uguaglianza sociale, pari opportunità, per promuoverne altri, in un’ottica emancipatoria e appunto di sviluppo, quali autonomia, partecipazione, cura di sé e della comunità. Di Maria (2017) introduce a questo proposito, un modello ponte, quello di welfare pluralism fondato sul presupposto che la convivenza e il benessere possono essere promossi da diversi soggetti come lo stato, il mercato e le reti sociali. In quest’ ottica la funzione delle istituzioni è quella di sostenere chi aiuta, nei processi di empowerment della comunità, fornendo consulenza, formazione, servizi e risorse professionali, accessibili a tutti. Il modello del welfare pluralism ruota attorno al ruolo delle reti sociali. Il concetto di rete viene ampliamente utilizzato sia nel linguaggio comune che in quello scientifico veicolando significati diversi: a volte descrive una struttura, altre volte esperienze, altre ancora rappresentazioni di realtà (Sanicola, 1993). Nell’ambito del lavoro clinico e psicosociale si è concordi nel considerare la rete per le sue potenzialità preventive e curative. In realtà quando venne introdotto il concetto di rete sociale dall’antropologo Burnes nel 1954, per descrivere legami esistenti tra gli abitanti di un villaggio di un’isola norvegese, la peculiarità era riferita all’assenza di vincoli di carattere funzionale quali status/ruoli, norme/valori ecc. e alla fluidità con cui le persone che compongono la rete possono sciogliere e allacciare relazioni. La rete dunque va intesa essenzialmente come una situazione mobile, come un insieme di relazioni interindividuali che non funzionano né come sistemi totalmente chiusi, né totalmente aperti. Esse sono pensabili come socchiuse, pronte ad aprirsi come a chiudersi (Huguet, 1995). Fondamentale è la distinzione tra reti primarie o informali e reti secondarie o formali: le prime sono costituite dall’insieme di relazioni interpersonali che legano gli individui alle famiglie, agli amici, ai gruppi con cui condividono interessi specifici e possono fornire supporto in situazioni di difficoltà; le secondarie comprendono tutte le strutture presenti sul territorio deputate a prendersi cura. La rete presenta però una contro faccia: se da un lato una rete coesa fornisce un potenziale di supporto emotivo, dall’altro è talmente densa che rischia di essere invischiante e limitare la libertà dei soggetti. Spesso il rapporto tra rete formale e informale è stato letto come escludente, mentre il modello del welfare pluralism considera questo rapporto come presupposto per la convivenza. È un errore considerare le reti adeguate o non adeguate, secondo una logica tutto o niente. Le reti informali sono incrocio di potenzialità così come di blocchi e ciò che appare sano un giorno potrebbe divenire patologico all’indomani. Occorre dunque tenere a mente che le reti per definizione sono in continua evoluzione e pertanto le loro potenzialità e rischi devono essere attraversate e valorizzate se si vuole giungere ad una cultura della convivenza.
9. Conclusioni
La convivenza è crocevia tra la dimensione soggettiva e plurale; è quella variabile climatica che attraversa i nodi delle reti sociali e da essa viene influenzata. Lo sviluppo della convivenza è quel percorso che permette di superare la cultura assistenzialista per cui terzi (istituzioni, professionisti, organizzazioni) risolvono i problemi, e giungere alla presa in carico da parte della comunità per la comunità. Lo spazio in cui si può pensare di generare convivenza è la polis, rete di interazioni e comunicazioni tra reti informali e formali, in cui la comunità è soggetto attivo in grado di attivare risorse e competenze. La realizzazione di un tale passaggio è possibile solo se si considera il benessere non soltanto un costrutto mentale ma un modo di agire, di sentire, di rappresentarsi la pluralità. Ciò riguarda un cambiamento nella dimensione culturale della collettività. Perché allora non pensare a questo passaggio come ad un processo di metamorfosi intesa come trasformazione in altro da sé, in un soggetto di natura diversa. La parola stessa metamorfosi è composta da due parti: meta- e -forma. Il che presuppone che per dare inizio ad una trasformazione si può partire da ciò che già c’è, da quella metà che sente il desiderio di una nuova forma per esprimere al meglio la sua essenza. Questo lavoro, attraversando le teorie e i modelli di riferimento nella lettura gruppoanalitica della comunità, rappresenta il punto di inizio di una metamorfosi. Narrare la comunità di cui siamo parte ha permesso di esplorare quelle reti, quelle potenzialità, quei rischi e quelle alleanze del vivere insieme, fondamentali per poter iniziare a strutturare un cambiamento in futuri progetti di comunità.
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L’autrice
Clarissa Marrazzo: Psicologa, Psicoterapeuta in formazione presso la scuola di specializzazione ITER. Vicepresidente di Ariadne – Associazione di Promozione Sociale, consulente e progettista di interventi psicosociali.