PROCESSO INTERPRETATIVO E COSTRUZIONE DI SENSO DEL CORONAVIRUS
A cura di Clarissa Marrazzo e Ottavia Galiero
Nota: La dott.ssa Marrazzo è responsabile dell’ideazione e stesura del presente lavoro, che rappresenta un estratto della Tesi di fine anno presso la Scuola Quadriennale in Psicoterapia di Gruppo ITER s.r.l., A.A. 2019/20.
La dott.ssa Galiero ha effettuato la supervisione scientifica del presente lavoro.
Abstract
Questo approfondimento è uno spazio di narrazione sull’accadente. Si presenterà il fenomeno del Coronavirus e le normative attuate dall’Italia e dagli altri Paesi del mondo, con un focus sul processo di simbolizzazione affettiva, che costituisce il meccanismo di costruzione di senso della realtà. Interpretare le risposte di ansia e di paura, attraverso questo processo, ha permesso di prendere consapevolezza del significato degli agiti individuali e collettivi messi in atto e delle dinamiche sociali e relazionali che sono emerse a seguito del crollo del sistema culturale-politico-sociale-economico consolidato negli ultimi decenni. I fenomeni emergenti da tale crisi verranno letti alla luce della letteratura di riferimento, percorrendo il passaggio della concezione individuale a quella contestuale e situata del pensiero di gruppo, passando attraverso le dinamiche di massa. Questo aprirà ai possibili scenari a cui il cambiamento può dare vita se si attiva la costruzione di una comunità partecipante basata sulla koinonia. Per uscire dalla crisi occorre pensare alla comunità italiana, come polis, spazio di convivenza, in cui la relazione con l’Altro, con il non noto, rappresenta risorsa per sviluppare un cambiamento.
Parole chiave: simbolizzazione affettiva; gruppo; polis.
Premesse
“Era una notte incantevole, una di quelle notti come ci possono forse capitare solo quando siamo giovani, caro lettore. Il cielo era un cielo così stellato, così luminoso che, guardandolo, non si poteva fare a meno di chiedersi: è mai possibile che esistano sotto un simile cielo persone irritate e capricciose? Questa pure è una domanda giovane, caro lettore, molto giovane, ma che il Signore la mandi più spesso alla vostra anima!… A proposito di signori capricciosi e irritati, non potevo non ricordare anche il mio comportamento morigerato per tutto il giorno. Fin dal primo mattino aveva preso a tormentarmi un’angoscia sorprendente. Mi era all’improvviso sembrato che tutti mi lasciassero solo e che tutti si allontanassero da me. Naturalmente ognuno è in diritto di chiedere: e chi sono poi questi tutti? […] Avevo avuto paura di restare da solo, e avevo vagato tre giorni interi per la città in preda ad una profonda angoscia, decisamente senza capire cosa mi stesse succedendo.[1]”
Queste righe iniziali del romanzo Le notti bianche di Dostoevskij racchiudono i vissuti, i sogni e le domande che migliaia di persone, in questo periodo storico, stanno vivendo, dovute alla pandemia da Coronavirus. Quel cielo stellato, che è lo stesso per l’Italia, per la Cina, per l’America, per l’Australia e per tutte le nazioni e i continenti della Terra, ma che sembrava non potesse mai raggiungerci e toccarci oppure contagiarci. Eppure il coronavirus viaggia attraverso l’aria, attraverso le goccioline di respiro tra persone in stretto contatto tra loro. Ma insieme al virus viaggiano, a velocità ancor più elevata, le paure e il contagio delle emozioni. Viviamo nell’epoca della globalizzazione e dei villaggi globali, in cui le notizie viaggiano a velocità della luce e con esse anche i vissuti della gente che le legge e le rinarra. Eppure, quando a dicembre 2019 abbiamo avuto i comunicati dei primi contagi, quello stesso villaggio globale non si è preoccupato. Il problema era altro da noi, circoscritto al territorio cinese, troppo distante da noi. Cosa è successo quando il virus è arrivato in Italia e negli altri Paesi del mondo? Ma soprattutto, ognuno di noi come guarda il proprio vicino di casa, anche lui possibile portatore di contagio? Da quando in Italia sono stati individuati i primi due turisti di origine cinese contagiati, ad oggi, si sono susseguiti provvedimenti giorno dopo giorno per arginare il rischio contagio. Un rischio che non è semplicemente sanitario, ma soprattutto un rischio psicologico e sociale. Come sta cambiando la società, come cambiano le modalità relazionali, sociali e comunicative? Ci muoviamo tra paradossi: da un lato l’isolamento per paura di contagio e dall’altro il contagio delle emozioni; su un versante il pensiero individualistico del “si salvi chi può” facendo fuori l’Altro e sul versante opposto i fenomeni di massaquali la fuga dal Nord verso il Sud Italia, ma anche le campagne di raccolta fondi per gli ospedali, le iniziative comunitarie di flashmob, le lezioni didattiche on-line. Ciò che propongo è dunque un lavoro in divenire e in continua costruzione, scandito dallo scorrere delle “notti bianche”, che daranno titolo ai paragrafi.
Il presente lavoro ha l’obiettivo di attraversare, nello specifico spazio culturale italiano, l’evoluzione della crisi da Nuovo Coronavirus SARS-CoV-2. La scelta di utilizzare le “notti” per scandire i passaggi della crisi è un parallelismo con i provvedimenti, le cosiddette “fasi”, in corso di attuazione dal Governo per contenerla. Le notti e il sogno di Dostoevskij possono essere utilizzati come metafora della società italiana in questo tempo di crisi. La parola sogno, in tedesco traum, ha la stessa radice di trauma, che nel sogno, attività costitutiva della mente inconscia, viene trasformato. Il sogno permette al sognatore di digerire e trasformare stati emozionali insopportabili per la mente conscia, di affrontare i problemi più profondi. Nel sogno, vedendo il passato, è possibile ricomporre i pezzi del presente che sono sconnessi (Marinelli, Vasta, 2004). È possibile analizzare la crisi come se fosse un momento onirico, partendo dalle risorse che si stanno mettendo in campo, a livello individuale, collettivo e istituzionale (Piano Nazionale e Regionale), per dare nuove letture al fenomeno e offrire prospettive future per il post- Coronavirus.
1.1 L’inizio della crisi da Nuovo Coronavirus
Il termine crisi indica il fallimento nella capacità di un’organizzazione (lo Stato italiano, l’Unione Europea, il Sistema mondiale tutto) di assicurare la prevedibilità emozionale del contesto (Salvatore, Scotto Di Carlo, 2005). Tale fallimento è conseguenza della variabilità contestuale indotta da un evento critico, nel nostro caso specifico dal nuovo Coronavirus. Ciò però non comporta una paralisi dell’azione, ma un’azione inefficace o inefficiente, dovuta alla funzione di assimilazione.
A partire dal 30 gennaio 2020, quando l’OMS ha sancito l’emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale, il governo italiano ha istituito presso il Ministero della Salute una Task Force per coordinare tutte le azioni di controllo da assumere al fine di limitare la diffusione del virus. Da quel momento l’Italia, dopo la Cina è stata il primo Paese ad attuare il più alto livello di misure precauzionali. Questa prima risposta è stata di tipo assimilativo: assimilare significa ricondurre la variabilità della stimolazione ambientale ad un sistema di categorie date. Tuttavia tale risposta non si è dimostrata compatibile alla nuova circostanza e nel giro di poche settimane il contagio si è diffuso in Italia. Il 21 febbraio 2020, l’ISS (Istituto Superiore della Sanità) ha confermato il primo caso autoctono in Italia di trasmissione locale di infezione da nuovo coronavirus. Nel giro di pochi giorni si sono registrati nuovi focolai e il 23 febbraio è stato varato il primo Dpcm con urgenti misure di contenimento dei Comuni interessati e con l’individuazione della cosiddetta “zona rossa” dalla quale non sarebbe più stato possibile entrare o uscire, attuando misure di isolamento e distanziamento sociale per 14 giorni. In un modello organizzativo di questo tipo, le cause della crisi vengono attribuite all’intervento di fattori esterni imprevisti, che cercano di essere posti sotto controllo attraverso la ricerca di nuovi strumenti, senza mettere in discussione il modello organizzativo d’azione (Salvatore, Scotto Di Carlo, 2005). Sono state introdotte misure di contenimento delimitando un’area ben precisa, creando una sorta di “ghetto di contagiati”, utilizzando un meccanismo di espulsione della “parte malata” piuttosto che indagare la relazione inevitabile e fondamentale tra le parti. L’11 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che il focolaio internazionale di infezione da nuovo coronavirus poteva essere considerato una pandemia, a causa della velocità e della dimensione del contagio. I Dpcm dell’8 e dell’11 Marzo hanno sancito una svolta, una totale rottura dalle abitudini e dalle libertà cui eravamo soliti, in quanto le misure di contenimento sono state attuate su tutto il territorio nazionale, con la chiusura di tutte le attività. È stata vietata ogni forma di assembramento in luoghi pubblici, eventi e manifestazioni sportive, l’accesso ai parchi, alle ville e giardini pubblici; di svolgere attività ricreative all’aperto. Era vietato ogni spostamento verso abitazioni diverse da quella principale. È stato vietato a tutte le persone di trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati in Comune diverso da quello in cui si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza, ovvero per motivi di salute[2]. Il momento storico dovuto alla crisi da coronavirus ha fatto emergere l’incapacità del nostro sistema di sostenere la funzionalità organizzativa. Il sistema sanitario ha mostrato tutte le sue crepe, andando al collasso, non essendoci posti e macchinari per la terapia intensiva, non essendoci personale sanitario in grado di sostenere i turni lavorativi. Tutto ciò ha rappresentato il crollo non solo del sistema Italia, ma di tutti gli Stati industrializzati, motori della globalizzazione. Ciò significa che i nostri metodi, criteri e soluzioni, elaborati in condizioni e contesti diversi, non possono essere presi in considerazione, ma devono essere rielaborati per adeguarsi alla nuova sfida. Quindi, attraverso una lettura attenta, questa crisi è una possibilità di poter aprire a nuove interpretazioni del contesto storico-culturale-ambientale in cui si è immersi. Le misure varate nel primo periodo erano focalizzate sul fine, inteso come stato di realtà desiderabile socialmente, a cui mirano le azioni di blocco e distanziamento sociale. Fine sicuramente individuato nella guarigione e nell’individuazione del vaccino. Una prospettiva riparativa e di guarigione non basta per raggiungere degli obiettivi, intesi come risultato massimamente prevedibile di un comportamento tecnico scientificamente fondato (Colamonico, Montesarchio, Saraceni, 1990), quindi occorre mettere le persone nella condizione di poter pensare alla situazione e al loro sentire per produrre un cambiamento profondo. Se da un lato l’emergenza di ricercare il fine richiama il nostro bisogno di cura, di provocare una mutazione dei valori epidemiologici e quindi di allontanare la morte, è solo un cambio di mentalità, un passaggio dall’ottica riparativa ad una di promozione e di sviluppo, che ci permetterà di attuare cambiamenti profondi e duraturi.
Tutti i discorsi e le pratiche sociali, tenuti sia dai leader politici mondiali sia dal nostro vicino di casa, sono pieni e monopolizzati intorno a due segni principali: pandemia e Covid-19. La definizione di pandemia, da parte dell’OMS, ha sconvolto tutti gli Stati, ognuno dei quali però ha risposto attuando misure e decisioni molto diverse. Ecco perché la scelta di parlare di segni: non è l’evento reale in sé ad avere valore (le informazioni medico-scientifiche della diffusione, la percentuale di morti ecc..), quanto il significato affettivo che viene attribuito ad esso sulla base della cultura di appartenenza (Venuleo, Gelo, Salvatore, 2020). Se in un primo momento il Regno Unito aveva proposto di attuare “l’immunità di gregge” è sulla base di una cultura per cui, attraverso il coinvolgimento di tutti “insieme ce la facciamo”, è possibile affrontare una minaccia, diversamente dalla risposta degli Stati Uniti “del si salvi chi può”, mettendo in atto una corsa alle armi che è manifestazione evidente della cultura individualista per eccellenza per cui mors tua vita mea. Il segno “pandemia” va oltre il significato di “epidemia con capacità di diffusione rapida e vasta”, in quanto connota molti aspetti del panorama sociale, divenendo un’iper-generalizzazione comprendente: espressioni emotive quali paura, rabbia, morte, incertezza; pratiche sociali cariche di valori quali solidarietà, speranza, ammirazione; senso di appartenenza e d’identità nazionale in contrapposizione ad un nemico (che di volta in volta varia, dallo straniero, al politico corrotto, a colui che ha contratto il virus, all’Unione Europea). Questa generalizzazione non sorprende se rintracciamo l’etimologia della parola pandemia: dal greco pan “tutto” demos “popolo”, quindi “tutto il popolo”. In origine questa parola non era in nessun modo legata ad aspetti negativi, a malattie, anzi era un epiteto utilizzato da Platone per Afrodite quale dea dell’amore inteso sia nell’aspetto spirituale che in quello sensuale, amore come attrazione delle varie parti dell’Universo tra loro. Quindi un amore che appartiene a tutto il popolo. Non ci addentreremo nell’evoluzione del significato della parola, ciò che ci interessa è evidenziare l’aspetto generale e iper-esteso del segno pandemia e collegarlo alle modalità omogeneizzanti, globalizzanti e generalizzanti con cui interpretiamo la realtà. Pensando alla pandemia come ad un vaso di Rubin, l’alternanza figura-sfondo è determinata dalla ricorsività tra le dimensioni sanitarie e le dimensioni sociali: la situazione sanitaria dipende da come la società gestisce il blocco e quest’ultimo dipende dall’evoluzione epidemiologica. La pandemia è dunque il risultato di un intreccio di scenari e di una dinamica ricorsiva tra aspetti complementari e indivisibili, perché parti costitutive di un unico universo simbolico. Tale universo simbolico è la lente attraverso cui leggiamo il mondo: la paura come risposta ansiogena ad un evento inaspettato. Una reazione di paura, e più in generale un’attivazione affettiva di ansia, è la risposta comune a condizioni ed eventi che rappresentano una grave violazione dello stato previsto. La paura gioca un ruolo importante nell’adattamento, consentendo all’organismo di interrompere la routine e mobilitare le risorse cognitive e fisiche per far fronte ad un’emergenza. Epstein (1994, 1998) afferma che i cambiamenti più profondi non sono dovuti ad un’analisi razionale delle informazioni ricevute, quanto all’esperienza emotiva significativa che tali informazioni suscitano dal punto di vista psico-sociale. Questi studi, precedenti alla pandemia, sono coerenti con l’esperienza quotidiana che stiamo vivendo, in cui le emozioni di paura e ansia, sono il motore più efficace nel cambiamento di abitudini, piuttosto che il pensiero razionale. È ragionevole pensare che la risposta di paura diffusa abbia funzionato come un potente fattore scatenante di comportamenti protettivi (ad esempio, lavarsi spesso le mani, indossare le mascherine, uscire di casa solo per prima necessità), come un decisivo inibitore delle abitudini che dovevano essere spezzate per mettere in pratica le misure di blocco (Venuleo, Gelo, Salvatore, 2020). Non a caso, la maggior parte dei discorsi pubblici, delle trasmissioni televisive, ormai monopolizzate dall’argomento Covid. I social network hanno poi agito da amplificatori emotivi e sociali, coniando altri segni iper-densi, come ad esempio l’hashtag #iorestoacasa. Simbolo del distanziamento sociale, offre a chiunque lo utilizzi, uno spaccato della vita altrui in situazione di quarantena. La condivisione social degli scatti della propria “vita al tempo del Covid-19” crea quel sentire comune di senso di isolamento e distanziamento. Sembra quasi un paradosso: le misure di blocco che evitano e vietano ogni forma di assembramento e che quindi dovrebbero rompere, quasi slegare quelle connessioni sociali tra persone, producono, attraverso i social, modalità potentissime di condivisione emozionale e sociale, sia in positivo che in negativo, sia in un’ottica individualistica che comunitaria. Dal punto di vista individuale vi è sicuramente la paura di contagio, sia di essere fonte di trasmissione del virus e di mettere in pericolo gli altri, sia di essere oggetto del contagio da parte di altri. Questa preoccupazione individuale viene da una paura più profonda che è quella di morte e di conseguenza le persone sono rimaste a casa e hanno rispettato le misure di blocco. Il rimanere a casa dunque non è stata una risposta epidemiologica sistemica volta a ridurre la velocità di diffusione del virus, come è scientificamente provato, bensì una protezione personale a causa della paura di essere mortalmente infetti. Dall’altro lato ci sono le risposte di paura collettive e comunitarie: il covid è una minaccia per il sistema sanitario che non è stato in grado di reggere l’aumento della domanda. Il focus sulla collettività ruota anche intorno all’aspetto economico e lavorativo. Forte è il vissuto di incertezza, essendo questa una crisi globale che ha fatto crollare tutte le certezze, soprattutto quelle economiche. Tutto questo in situazione di estrema emergenza, che non lascia spazio al pensiero, ma ad agiti basati sul sentire comune di incertezza e confusione. È possibile affermare che la reazione comunitaria alla crisi, da parte del popolo italiano, caratterizzata da una risposta affettiva-emotiva di paura, è stata in grado di far fronte alla prima fase di crisi acuta e produrre dei risultati.
1.3 La paura come simbolizzazione affettiva
La nostra società ha risposto a questa situazione emergenziale attivando reazioni emotive di paura. Ciò è indicatore di come funziona la mente in condizioni di attivazione affettiva caratterizzate dall’incertezza: produce interpretazioni della realtà omogeneizzanti, generalizzanti e globali, anziché far emergere un pensiero analitico più dettagliato e differenziale. Tale processo detto semiosi affettiva rappresenta una risposta adattiva a breve termine all’emergenza. La semiosi affettiva è un processo di attribuzione e costruzione di senso, una forma di categorizzazione della realtà ad opera dell’inconscio. Quest’ultimo è concepito dunque come una specifica modalità di semiosi (Fornari, 1976, 1981, 1983), capacità tipicamente umana di significazione affettiva immanente, derivante dal modo in cui l’individuo vuole significare il rapporto tra sé stesso e il mondo, entro una dinamica tra pensiero conscio e pensiero inconscio. La simbolizzazione affettiva è il processo attraverso cui l’emozione si traduce in modo di rappresentare la realtà, una forma di categorizzazione emozionale inconscia (notturna), che si dispiega parallelamente alla categorizzazione operativa del pensiero razionale conscio (diurno). Quest’ultima riguarda codici convenzionali quali concetti, categorie linguistiche, mentre la simbolizzazione affettiva tratta gli oggetti della realtà come significanti di un significato emozionale generato da un codice affettivo primitivo. Nella teorizzazione di Fornari dunque il processo di attribuzione di senso è costituito dinamicamente e ricorsivamente da processi consci (secondari) e inconsci (primari). Il processo primario è una modalità di significazione naturale dell’uomo pre-categoriale, basata su categorie affettive ampie e dicotomiche quali ad esempio amico-nemico, piacevole-spiacevole, attivo-passivo (Salvatore, Freda, 2011; Salvatore, Venuleo, 2008). Il nostro comportamento quotidiano è attraversato, dunque, da livelli decisionali che si fondano su processi primari inconsci di simbolizzazione affettiva, che tendono a tradursi immediatamente in agiti. Quindi il comportamento individuale, le pratiche sociali, non sono altro che modi diversi che persone, gruppi, istituzioni hanno per esprimere il processo di simbolizzazione affettiva che le attraversa (Freda, 2008). Dopo Fornari la teoria della simbolizzazione affettiva ha avuto delle evoluzioni ad opera di altri autori, che si sono focalizzate soprattutto sul ruolo attivo dell’individuo come sensemaker, creatore di senso. Egli è impegnato in una continua creazione di senso e di interpretazione dell’esperienza (Salvatore, Valsiner, 2007). La semiosi affettiva è sempre attiva, anche quando fuori dal livello di coscienza e modella senza interruzione la relazione tra individuo e ambiente. Questo significa che non si limita alla connotazione di oggetti già sperimentati dal soggetto; piuttosto, la semiosi affettiva filtra e limita il campo di esperienza, in particolare gli elementi del campo che sono coerenti con essa. In questo senso, la semiosi affettiva è costitutiva dell’esperienza (Salvatore, 2016; Salvatore, Zittoun, 2011). Possiamo rintracciare la modalità omogeneizzante della semiosi affettiva nella tendenza, durante il primo periodo di crisi, a trasferire tutte le valenze negative associate al virus, ai membri di quella classe categoriale. Dato che le prime notizie di diffusione del virus sono venute dalla Cina, per generalizzazione categoriale, tutto ciò che veniva dalla Cina (prodotti, turisti) e la stessa popolazione di origine cinese che vive in Italia, è stata connotata affettivamente in maniera negativa come portatrice del virus. Per cui sono stati messi in atto meccanismi di polarizzazione e di dinamiche ingroup/outgroup. Un’altra caratteristica della semiosi affettiva è che vincola l’identificazione del sensemaker soltanto in quell’insieme di credenze e atteggiamenti disponibili nell’ambiente culturale in cui egli è inserito. Ciò significa che il modello di categorizzazione affettiva (amico/nemico, attivo/passivo ecc.) preferito dal sensemaker, opera come filtro, sintonizzandosi soltanto su una certa area dell’ambiente culturale. Quindi la categoria di significati affettivi preferita vincola la possibilità di interiorizzare visioni del mondo diverse, dove per interiorizzazione si intende la trasformazione della realtà interpsichica in intrapsichica (Venuleo, Gelo, Salvatore, 2020). In sintesi, la semiosi affettiva, struttura le connessioni tra la mente individuale e l’ambiente culturale sulla base del significato affettivo. Da un lato, la mente del sensemaker è strutturata su una base biologica di linguaggio affettivo; d’altra parte, questa semantica affettiva imposta la mente ad interiorizzare solo i significati culturali che sono coerenti con il modello affettivo preferito di significato (Salvatore, 2016). Terzo, la semiosi affettiva può avere una salienza variabile nella creazione di senso: non si ferma a lavorare come fondamento dell’interpretazione della realtà; il sensemaker può introdurre ulteriori dimensioni di significato (ad es. valori condivisi, contenuti semantici specifici come idee e credenze, quadri normativi, piani e scopi, informazioni, conoscenze scientifiche, criteri di validazione) in misura variabile, e in questo suo modo di pensare può aumentare o diminuire i livelli di differenziazione (Salvatore, 2016; Salvatore, Palmieri et al, 2019). Pertanto, la capacità di rilevare la complessità della realtà non dipende dal fatto che la semiosi affettiva è disattivata, piuttosto dipende da quanti componenti del significato vengono “aggiunti” al processo di sensemaking di base. Meno viene aggiunto, più l’interpretazione rifletterà la struttura di base di esperienza fornita solo dal significato affettivo. Maggiore è la salienza della semiosi affettiva, meno le persone sono in grado di usare la cognizione per esplorare, modulare, imparare dagli errori, valorizzare la pluralità di punti di vista, dunque ad andare oltre l’assolutizzazione del loro punto di vista e assimilare la dimensione sistemica del senso comune all’interno della loro vita soggettiva.
1.4 L’interpretazione della crisi mediata dalla simbolizzazione affettiva
L’interpretazione affettiva dello scenario pandemico, piuttosto che essere mediata dalle caratteristiche intrinseche del COVID-19, riflette gli schemi dei significati affettivi che fondano l’ambiente culturale nel momento in cui l’interpretazione è stata emanata. Pertanto, secondo l’ipotesi interpretativa di Venuleo, Gelo e Salvatore (2020), l’ansia è stata la prima modalità di creazione di senso dell’esperienza del rapido cambiamento del campo socio-istituzionale. Paura, preoccupazioni, sospetto e così via sono venuti dopo, come emozioni derivanti dall’ ancoraggio del significato affettivo dell’ansia a questo o quell’elemento del campo. Secondo la loro ipotesi, l’emozione viene dopo ed è fondata sull’ interpretazione affettiva dell’intero campo dell’esperienza, come un ulteriore elaborazione di esso. Questo punto di vista deriva dal principio che la persona interpreta per prima l’intero campo dell’esperienza, in termini di omogeneizzazione affettiva dei significati (ad es. in termini di piacevole / spiacevole) e solo allora, su questa base, seleziona e interpreta gli elementi discreti del campo. Di conseguenza, quando il modello di significato affettivo va oltre la soglia di attivazione e quindi entra nel focus della coscienza, questo stato deve essere interpretato. Pertanto, il sensemaker identifica l’elemento del campo di esperienza che lo aiuta a dargli un senso (Barlett Feldman, 2006). Dunque le persone non rispondono emotivamente alla pandemia in sé, ma alla media globale e allo scenario istituzionale che modella la rappresentazione della pandemia. Fornari (1977) ha sviluppato una riflessione sulla connessione tra processi di simbolizzazione affettiva, di comunicazione, di relazioni sociali e istituzionali. Ogni istituzione mette in gioco una “famiglia affettiva” in funzione dello scopo di lavoro e dei codici affettivi di cui sono portatori coloro che operano al suo interno e da cui dipende la distribuzione dei ruoli. La relazione tra ruoli si fonda su codici familiari inconsci che costituiscono la forza affettiva della vita dell’istituzione. A livello istituzionale la forza affettiva deriva dall’investimento su una determinata rappresentazione simbolica attribuita ai ruoli. Ad esempio, il Presidente del Governo, Giuseppe Conte, è stato simbolizzato, in base al ruolo che rivestiva, in termini dicotomici di: padre buono che sta lavorando duramente per portare la sua famiglia (stato italiano) ad una situazione di benessere dopo una profonda crisi, facendo emergere modalità di ammirazione e idealizzazione; oppure come padre cattivo che sta gestendo la crisi in modo autoritario, non lasciando libertà al singolo, divenendo così oggetto di rabbia e di dissenso. Altra grande istituzione è la Chiesa. Il Papa, è riuscito, con i suoi gesti e con le sue parole, a lanciare delle simbolizzazioni affettive e sociali molto forti e potenti. Attraversare sotto la pioggia Piazza San Pietro deserta durante la Via Crucis, per compiere quel cammino simbolico di sofferenza individuale per giungere poi alla “resurrezione”, alla rinascita collettiva e comunitaria, come metafora della situazione attuale. È riuscito attraverso il suo ruolo di vescovo universale della chiesa, ad omogeneizzare e universalizzare le rappresentazioni sul valore della sua istituzione, al punto che l’opinione pubblica non ha assolutamente manifestato forme di contrapposizione o dissenso. A livello inter-istituzionale sono in gioco le rappresentazioni simboliche attribuite alle relazioni tra istituzioni. Pensiamo alla relazione tra Stato italiano e Comunità Europea. All’inizio della diffusione della pandemia in Italia, gli altri stati europei hanno sottovalutato la portata e i rischi, attribuendo all’incapacità dello stato italiano la causa del dilagare del virus e non volendo assolutamente far fronte alle richieste d’aiuto. Quando poi il virus si è diffuso nel resto degli stati, non solo europei, ma del mondo, le risposte della Comunità Europea sono cambiate. Si sono attivati meccanismi di solidarietà sociale ed economica. Mentre in un primo momento la simbolizzazione affettiva risiedeva su un codice di significazione di tipo passivo, per cui l’Italia doveva gestire l’emergenza da sola in quanto riguardava una criticità sua e non degli altri; in un secondo momento, essendo diventato il virus un “problema globale” ha attivato un codice affettivo di tipo attivo, tutta la Comunità Europea e tutte le altre grandi Istituzioni mondiali si sono mosse e si stanno muovendo per fronteggiare e contenere la crisi. Parallelamente la rappresentazione con cui la comunità ha letto queste dinamiche si alterna sulla dicotomia amico/nemico, per cui le altre istituzioni vengono considerate nemiche in quanto ostacolano il governo italiano nelle misure di contenimento della crisi, oppure amiche qualora mettano in atto azioni di solidarietà quali l’invio di medici, di mascherine, di materiale sanitario, per fare alcuni esempi. Affinché questo processo produca crescita ed evoluzione è necessario che l’istituzione esplori e sia consapevole della propria cultura affettiva. Solo così sarà possibile integrare i codici affettivi e promuovere lo sviluppo dell’istituzione.
1.5 La semiosi affettiva come polarizzazione delle dinamiche comunicative e sociali
Il processo di semiosi affettiva oltre che generare dinamiche ingroup/outgroup di vario tipo, ha fatto emergere dinamiche comunicative estremamente polarizzate su un linguaggio di guerra. La pandemia ha assunto, metaforicamente e a livello di simbolizzazione affettiva, la connotazione di “guerra da combattere”, all’interno delle corsie di ospedale, “le trincee”, ad opera di medici e personale sanitario, “eroi al fronte”. Queste dinamiche comunicative non hanno fatto altro che rafforzare componenti aggressive e violente sia a livello individuale, che sociale, generando una crescente cultura dell’odio, diretto sempre verso un “bersaglio” ben definito, ma che di volta in volta si modifica a seconda della percezione tra ingroup e outgroup, tra ciò che è dentro e appartiene alla stessa categoria simbolica e ciò che è fuori e in quanto diverso, da combattere. Una lettura psicoanalitica delle dinamiche interne e collettive che si generano in una situazione di guerra, può farci comprendere il perché dell’utilizzo, nel caso dell’attuale pandemia, di un linguaggio comunicativo basato su queste simbolizzazioni. Gabbard (2003, p. 43) afferma che “odiare significa aggrapparsi ad un oggetto interno in modo implacabile; non c’è altro che il desiderio di vendetta, il desiderio di distruggere l’oggetto (…). Diversamente dalla rabbia che vorrebbe eliminare l’oggetto, l’odio crea un legame indissolubile tra sé e l’oggetto”. Secondo Fornari (1966) la guerra ha un carattere ambiguo: da una parte rappresenta per gli uomini un atto d’amore, di protezione nei confronti della propria comunità di appartenenza, dall’altra la proiezione di parti cattive del sé nell’estraneo, vissuto come distruttore del proprio oggetto d’amore. La colpa proiettata sul nemico, fa diventare la guerra un dovere. Dal punto di vista psicologico, si presenta dunque come un’istituzione ammirevole, in quanto in caso di vittoria, salva il proprio oggetto d’amore, uccidendo il nemico su cui è proiettata la causa della colpa della distruzione. Il sentimento di odio verso il nemico ha funzione di alimentare l’amore e la coesione del gruppo e di proiettare la colpa sul nemico, determinando il processo di elaborazione del lutto (Longhin, 2010). Il senso di colpa, inconscio e negato e proiettato sull’altro, dà origine all’aggressività. Secondo gli autori su citati, la guerra avrebbe origine dunque da diversi meccanismi psicologici legati alla vita degli individui nei gruppi, finalizzati alla liberazione dall’ambivalenza. “La guerra può essere definita, dal punto di vista psicoanalitico, come un fatto criminoso, fantasticato individualmente e consumato collettivamente…” (Fornari, 1966, p.160).“… espone gli uomini a vivere come ansie realistiche e a verificare come distruzioni concrete quelle stesse angosce psicotiche, cioè illusorie, che finora essa aveva potuto mascherare e illusoriamente risolvere” (Fornari, 1979, p.215). La polarizzazione delle dinamiche comunicative sul segno della guerra può essere interpretata secondo due e indissolubili aspetti: da un lato ha permesso di proiettare sull’altro, il popolo cinese, percepito come lontano da noi geograficamente e culturalmente, le colpe e gli aspetti negativi del sé, inteso come società occidentale, che ha sottovalutato le conseguenze della diffusione del virus, non attuando per tempo misure preventive e portando alla morte milioni di persone; dall’altro lato il linguaggio di guerra ha determinato modalità collettive di coesione e condivisione che liberano il singolo dal senso di colpa. La dimensione collettiva permette di non sentirsi né violenti né colpevoli nei confronti dell’altro, considerato come nemico.
Il Dpcm del 17 Maggio 2020 ha dato inizio alla cosiddetta Fase 2. Si cercherà di dare una lettura di questa fase facendo riferimento alle teorizzazioni sulle dinamiche psico-sociali collettive e di massa.
2.1 Dall’individuo alle masse
Come avviene il passaggio dai processi e le dinamiche interne individuali a quelle sociali e collettive? Freud affermava che la contrapposizione tra psicologia individuale e quella sociale si rivela fallace, se consideriamo che nella vita dell’individuo l’Altro rappresenta sempre un modello, un oggetto. Secondo l’impostazione psicoanalitica freudiana quindi, la psicologia sociale ha il suo fondamento nella psicologia individuale, ossia nelle precoci relazioni oggettuali con le figure genitoriali e con i loro sostituti transferali, quali la persona amata, l’insegnate, il medico ecc.. La famiglia dunque diventerebbe quel “costrutto intrapsichico” che fonderebbe le relazioni sociali (Longhin, 2010). Secondo quest’ottica la partecipazione dell’individuo al collettivo gli permette di immettere “dentro di sé” qualità, parti dell’altro, dell’oggetto esterno. Anche le istituzioni operano psichicamente nell’individuo in quanto si inseriscono nell’ideale dell’Io per mezzo dell’introiezione dei loro rappresentanti. Freud riconduce il fondamento del collettivo al modello libidico-pulsionale, secondo cui l’uomo protegge la propria vita solo quando la pulsione di morte si rivolge verso oggetti esterni. Nelle teorizzazioni successive, si considerarono i fenomeni generati in queste condizioni collettive, come qualcosa di diverso e irriducibile all’individuo. Si iniziò dunque dal classificare le diverse forme di raggruppamenti collettivi e dal descrivere i fenomeni psichici che si producono in essi (Freud, 1922). L’individuo, quando si trova in una “folla psicologica”, agisce, pensa, sente in modo assolutamente diverso da quello che ci si sarebbe potuto aspettare se fosse stato da solo. “La folla psicologica è un’entità provvisoria composta da elementi eterogenei, momentaneamente congiunti, proprio nello stesso modo in cui le cellule di un corpo vivente formano con la loro unione un nuovo essere che presenta caratteri molto diversi da quelli di ciascuna di esse” (Le Bon, 1895). È come se, nella folla, la sovrastruttura psichica che ha avuto uno sviluppo variabile da individuo a individuo, venga distrutta, vengano meno i gradini della civilizzazione e venga messa a nudo la base inconscia, uniforme e comune a tutti. A questa omogeneizzazione si aggiungono però delle caratteristiche tipiche: l’individuo acquisisce, per il solo fatto di trovarsi in un gruppo numeroso e anonimo, un sentimento di potenza che frena il senso di responsabilità. Un’altra caratteristica individuata è il contagio mentale: in una folla ogni sentimento, ogni atto è contagioso al punto che l’individuo sacrifica il proprio interesse personale a quello collettivo. Questo era considerato manifestazione della suggestionabilità alla quale l’individuo era sottoposto. L’individuo in una folla veniva paragonato ad un ipnotizzato nelle mani di un ipnotizzatore, la cui vita mentale è paralizzata. McDougall (1920) aggiunge che l’uomo, inserito in un gruppo, prova una sensazione piacevolissima nell’abbandonarsi, nel fondersi nel gruppo, perdendo il senso della limitatezza individuale in un contagio affettivo. Il soggetto percepisce uno stato affettivo, che è tanto più intenso, quanto più grande è la folla ed egli stesso a sua volta lo intensifica in una induzione reciproca. La massa viene descritta come impulsiva, mobile e irritabile; obbedisce ad impulsi a volte nobili ed eroici, altre volte crudeli o vili, ma comunque talmente travolgenti da mettere a repentaglio la conservazione. È incapace di una volontà persistente per cui nulla è premeditato. La folla manca di senso critico, pensa per associazione di immagini, senza che l’istanza razionale sia in grado di giudicare la conformità alla realtà. A livello intellettuale la folla è sempre inferiore all’individuo, ma il suo comportamento morale può essere superiore, in quanto sotto l’influenza della suggestione, le folle sono capaci di massima devozione ad un ideale. Secondo la teorizzazione di Le Bon (1895) la folla si mette subito sotto l’autorità di un capo, senza il quale non è in grado di esistere. Nei suoi confronti si genera fede profonda e devozione, dovute al “prestigio” da lui esercitato, inteso come un fascino che paralizza le facoltà critiche, allo stesso modo delle suggestioni per un ipnotizzato. McDougall contrappone l’attività psichica delle masse semplici “disorganizzate” a quelle dei gruppi con “un’organizzazione superiore”. Attraverso l’evoluzione delle teorizzazioni di questi autori assistiamo ad una evoluzione di prospettiva per cui i processi collettivi non vengono più considerati come derivanti da processi inconsci individuali, bensì come processi che è possibile inscrivere e generare soltanto considerando la specificità della massa.
2.2 Dalle masse al gruppo
Sebbene l’esistenza dei gruppi umani è data per scontata, il termine “gruppo” è stato oggetto di molte controversie teoriche. Il gruppo può essere considerato la somma di più individui oppure è un’entità reale a sé state ma in relazione reciproca con il singolo? Per alcuni teorici la caratteristica del gruppo è l’esperienza di un destino comune (Lewin, 1948); per altri, l’elemento chiave è l’esistenza di una certa struttura sociale formale o implicita, sotto forma di relazioni di status e di ruolo (Sherif, 1969); una terza scuola di pensiero invece suggerisce che i gruppi sono tali per il fatto di essere composti da individui in interazione faccia a faccia (Bales, 1950). La definizione, precedentemente riportata, di Le Bon e McDougall di mente di gruppo venne duramente criticata da Allport, secondo il quale non era possibile osservare un’entità dotata di consapevolezza, separatamente dagli individui che la compongono. Molte teorie e ricerche successive sono andate nella stessa direzione e quindi sono rimaste su una prospettiva individualista, che credeva che i fenomeni di gruppo potessero essere ricondotti a processi psicologici individuali. Tuttavia si è fatta strada una visione che pone in rilievo il carattere reale e distintivo dei gruppi sociali, ritenendoli dotati di proprietà uniche che emergono dalla rete di relazioni tra i singoli membri. Per Asch e Sherif la realtà dei gruppi emerge dalle percezioni comuni che le persone hanno di sé stesse in qualità di membri della medesima unità sociale e nelle varie relazioni reciproche all’interno di tale unità: “l’essere membro di un gruppo e comportarsi come tale ha conseguenze psicologiche che sussistono anche quando gli altri membri non sono immediatamente presenti” (Sherif, 1967). La svolta in psicologia sociale è avvenuta ad opera di Kurt Lewin, che applicò la teoria del campo alla personalità da lui definita dinamica in quanto l’individuo si modifica in riferimento ad un campo, lo spazio di vita in cui esso si situa. La persona dunque, smette di essere osservata indipendentemente dal suo spazio di vita, ossia dal gruppo di cui fa parte. Tale interazione dinamica viene formulata con l’equazione C= f (PA), ossia il comportamento è funzione dell’interazione tra la persona e l’ambiente. Il campo psicologico comprende tutto ciò che nasce dall’interazione tra ambiente ed individuo, come ad esempio bisogni, motivazione, risorse, norme, scopi, azioni ecc. Da queste premesse Lewin afferma (1951) che il gruppo è “qualcosa di più, o per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha una struttura propria, fini peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza che li definisce come totalità dinamica. Ciò significa che il cambiamento di stato di una sua parte o frazione qualsiasi, interessa lo stato di tutte le altre.” I gruppi sociali sono costituiti dunque da un certo numero di individui che interagiscono con regolarità l’uno con l’altro. Questa regolarità di interazione fa sviluppare interdipendenza che porta i membri a identificarsi nel gruppo, stabilendo un certo grado di coesione che permette all’individuo di soddisfare degli scopi. Una volta che il gruppo si è costituito e funziona, le attività e le esperienze fatte in comune stimolano in ogni membro sentimenti di somiglianza parziale con gli altri membri e dissomiglianza con le persone estranee al gruppo. Ciò consolida i processi di identificazione reciproca. Una forte coesione di gruppo produce un alto grado di interdipendenza, che favorisce l’accettazione degli scopi proposti dai vari membri. La ricerca teorica e metodologica sul gruppo ha portato a numerose evoluzioni, arrivando a concepire il gruppo come un artefatto metodologico che come tale non esiste, mentre esistono le organizzazioni e le fenomenologie emozionali e simboliche che lo attraversano determinando la componente istituzionale (Colamonico, 2017). Per Napolitani (1987) il gruppo è una necessità antropologica a con-esserci, esso è materiale storico, contingente e ideale e si configura come materia mediante la quale le forme del reale producono cambiamenti nelle identità individuali e collettive. Il fare insieme qualcosa di comune, l’agire contingente caratterizzato da vincoli di tempo e di spazio, può avere la funzione di base sicura, costituendosi come matrice relazionale complessa che contiene le relazioni tra gruppi di soggetti in interazione (Di Maria, Falgares, 2005). Queste concezioni fondano un nuovo orizzonte nella prospettiva gruppoanalitica. Il gruppo è “un campo simbolico-affettivo plurale generato da scambi dialogici e generativo di nuove narrazioni… prodotto da matrici singolari, ma non riconducibili ad esse. È quello spazio relazionale plurale in cui le narrazioni condivise dai partecipanti sono analizzate ed elaborate allo scopo di rendere possibili nuove modalità di pensiero” (Montesarchio, Venuleo 2010).
2.3 Pensare di gruppo
Nulla nel mondo è isolato, ma ogni cosa è inestricabilmente intrecciata e connessa ad altre. Nel corso della vita veniamo educati e spronati a diventare individui, a essere autonomi e indipendenti, ma questa è una contraddizione in termini. Se il vertice epistemologico fosse individuale e non gruppale, non avrebbe senso avanzare queste richieste e perseguire questi obiettivi in quanto sarebbero già dati. Ecco perché, come affermano Montesarchio e Venuleo (2010), l’epistemologia individualista, che propone la rappresentazione dell’uomo che pensa “da solo” indipendentemente dai contesti sociali in cui è inscritto, sta cedendo il posto ad un’epistemologia contestuale. Il soggetto conosce “in situazione”; abbandona dunque un’interpretazione intrapsichica del processo di conoscenza e ne riconosce il carattere sociale e situato. La concezione dialogica e intersoggettiva della mente pensa agli individui come attori che parlano e agiscono attraverso il contesto (Colamonico, 2017). Gli individui, per le loro narrazioni, utilizzano risorse di senso disponibili entro il proprio contesto, in ragione del loro esser parte di un sistema di appartenenza, di un gruppo sociale. Per Mitchell (1988) la mente affettiva non preesiste alla relazione ma emerge entro e in funzione dei processi di scambio comunicativo. L’identità, in questa prospettiva, è una pratica sociale, in quanto il pensiero è un processo dialogico che si dispiega in uno specifico mondo culturale (Montesarchio, Venuleo, 2003). La mente non nasce nel vuoto contestuale, bensì è funzione del nostro posizionamento rispetto al mondo di significazione, che da un lato ci ha generato e che dall’altro contribuiamo a generare. La mente dunque è ciò che comunemente chiamiamo gruppo. Il gruppo può essere definito perciò come un’organizzazione mentale, un operatore psichico, un sentimento di appartenenza, un vissuto, e anche un complesso di relazioni psichiche tra persone (Di Maria, Lavanco, 1995). L’accostamento gruppo-mente deriva dalla lettura secondo cui la mente non è confinata nell’individuo, né a-contestuale e dotata di una sua autonomia di funzionamento. La mente si sostanzia di processi intersoggettivi, di costruzione del significato in cui le unità individuali, come punti nodali, concorrono a costruire il contesto simbolico che chiamiamo mente. Il gruppo-mente sarebbe dunque quella matrice dinamica foulkesiana alla cui costruzione concorrono le matrici personali degli individui, ma non riconducibili ad esse in quanto dimensione sovra-personale, che da un lato genera processi di significazione e dell’altro ne è generata. Per cui non esiste individuo senza contesto e contesto senza individuo (Carli, Paniccia, Lancia, 1988). Il gruppo rappresenta dunque il transito dai processi individuali a quelli sociali, dalla dimensione diadica del dialogo ad una aperta alle relazioni e alle reti comunicative. Attraverso il gruppo è possibile attuare un superamento dei modelli monistici, che si ricollegano a valori universali assoluti e implicano una descrizione della realtà nella logica aut-aut. Da qui la differenza tra pensare in gruppo e pensiero di gruppo. Il primo indica una funzione individuale esplicata in un contesto ambientale di tipo gruppale, mentre il pensiero di gruppo fonda un pensiero che riguarda il Noi, le relazioni interpersonali e il mondo sociale. Il pensare di gruppo come interpretazione, azione, trasformazione dei processi di comunicazione e scambio che consentono un legame di convivenza, e nello stesso tempo, lo determinano. Il gruppo transita dall’esistenza alla coesistenza, in quanto non è realtà statica, ma un progetto che nasce, si sviluppa, si disperde. Permette perciò di dialogare con il cambiamento attraverso la dicotomia resistenza-trasformazione, in una dinamica di decostruzione del pensiero saturo verso un pensiero di cambiamento (Montesarchio, 2002). Il pensiero di gruppo rende possibile la connessione tra il transculturale, cioè l’intersoggettivo e l’intrapsichico individuale. Quando questa connessione non si realizza si produrrebbero le ideologie, che a livello sociale rappresentano il tentativo di impedire lo sviluppo del pensiero articolato, attraverso l’imposizione di modelli culturali dogmatici. Prodotto primario del pensiero di gruppo è il concetto di Noità, che rappresenta la sistematizzazione del livello di attivazione delle funzioni superiori del gruppo, secondo una triplice modalità di funzionamento (Di Maria, Lavanco, 2002):
Il gruppo permette dunque di superare la contrapposizione tra sociale e individuale. La dimensione transpersonale è fondamento sia del legame sociale che le istituzioni realizzano, sia delle possibilità per ogni individuo di svilupparsi in quanto soggetto distinto da altri, con i quali condivide un’identità pre-individuale. Dunque i gruppi sociali organizzati rappresentano il mantenimento degli individui con la matrice collettiva della loro identità e la difficoltà di accedere a questa dimensione espone a gravi disagi sia le Istituzioni sociali, sia la capacità di preservare la vita psichica dei singoli senza esasperarne le differenze. L’identità dell’individuo viene concepita come una molteplicità di relazioni identificatorie storicamente definite, dunque ogni gruppo sociale in cui l’individuo prenderà parte, sarà la replicazione drammatica della sua gruppalità interna, intesa come dispositivo di codifica e interpretazione del mondo e del proprio rapporto con esso (Napolitani, 1987).
Alla terza notte stiamo per giungere. In questa crisi non è il chronos, il tempo lineare scandito dall’orologio, a poterci guidare, orientare e scandire i limiti. Possiamo pensare alla terza fase come al kairos, il momento opportuno, di un tempo non-ancora accaduto, ma da poter costruire attraverso un pensiero sociale sull’accadente. È nella costruzione della terza notte e della terza fase che possiamo attivare un percorso di presa di consapevolezza, partendo dal riconoscimento dei propri desideri, di quelle mancanze, necessarie per costruire legami, per incontrare l’Altro, per creare, trasformare il vecchio modo di vivere e pensarne uno nuovo.
3.1 Il gruppo come costruzione della Koinonia
Il gruppo offre, a coloro che partecipano, opportunità relazionali del qui ed ora, nuove possibilità di dialogo, di cooperazione, fondamentali per la costruzione della Koinonia, ossia la consapevolezza che siamo interconnessi con tutte le forme di vita esistenti, consapevolezza che consente di guardare a sé stessi, ma anche agli altri e al mondo interno. L’acquisizione di questa consapevolezza parte dal riconoscimento dei propri desideri, quelle mancanze necessarie per costruire legami, per incontrare l’altro. L’Altro viene riconosciuto come soggetto portatore di risorse, in un rapporto reciproco di scambio, che porta alla costruzione della koinonia, di una comunità che è in grado di contenere interessi diversi, spazi e relazioni che permettano di andare oltre i confini e i conflitti. Il verbo “convivere” deriva dal latino cumvivere ossia vivere con l’altro, dunque la convivenza è un pensiero sulla relazione tra sé e l’altro, sui gruppi interni che l’altro rappresenta. In questa dimensione comunitaria, il gruppo costituisce il luogo più adatto ad elaborare i conflitti rendendoli parlabili (Colamonico, 2017). Non tutti i gruppi raggiungono la koinonia. Perché ciò accada il gruppo deve essere in grado di raggiungere una situazione di equilibrio tra alcuni principi fondamentali e dicotomici, individuati da Kaës (1999):
Solo l’equilibrio dinamico tra questi principi permette al gruppo di divenire una comunità autentica. La comunità si struttura man mano che gli individui, come membri di gruppi informali, sviluppano legami reciproci di affiliazione ad una varietà di organizzazioni e istituzioni formali. “Sentirsi comunità vuol dire sentirsi uno che comprende molti, fra i quali, in quel preciso momento, sono in atto relazioni comunitarie” (Lavanco, Novara, 2005). L’espressione “l’uno comprende molti” fa riferimento, non solo gruppoanaliticamente ai gruppi interni e al transpersonale; quel “molti” è inteso come collettivo, identificabile con il senso di comunità. È riconosciuto che un buono sviluppo del senso di comunità accresca il benessere collettivo, in quanto legami interpersonali forti e duraturi sotto il profilo affettivo ed emotivo, vengono riconosciuti come fonte di sostegno, di riconoscimento e di benessere (Amerio, 2000). A sostegno di questa tesi ci sono molti studi sulle reazioni ai disastri umani a causa di calamità naturali, dove la capacità di fornire una risposta riparatoria al danno è direttamente connessa al carattere di fenomeno collettivo per il quale si danneggia o si altera, in modo parziale o esteso, un’intera comunità. Il grado di destabilizzazione del sistema sociale coinvolto nel disastro, si inscrive nella fitta rete di rapporti umani su cui quel sistema può contare e sulla capacità dello stesso di riorganizzarsi in funzione dell’emergenza. Una comunità con un senso di appartenenza forte e con un alto grado di coesione interna riuscirà a superare lo stress collettivo, mobilitando le risorse a disposizione e attuando forme di sostegno sociale, meglio di quanto potrebbe fare una comunità disgregata. Un senso di comunità maggiore si riscontra spesso in comunità di dimensioni contenute, in quanto comunità allargate presentano una diminuzione del senso di sicurezza personale e di senso di appartenenza. Più il senso di comunità è elevato, maggiore potrebbe essere il rischio che la comunità sviluppi comportamenti reattivi nei confronti di agenti esterni ad essa e per ultimo di appiattire qualsiasi forma di cambiamento e progettualità collettiva. È possibile proporre un parallelismo tra questi studi e la crisi attuale generata dal Coronavirus, per dare una lettura del fenomeno in chiave comunitaria. Come affermato nel primo paragrafo, la risposta riparatoria all’emergenza è stata quella di chiudersi in casa e rispettare il distanziamento e le misure di contenimento fisico. Questa risposta attuata dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, non è stata determinata dalle implicazioni medico-sanitarie di diffusione del virus, bensì dalla dimensione comunitaria della pandemia che ha apportato un danno all’intera comunità italiana e mondiale. Per cui nella nostra società, dove forte è l’ancoraggio alle tradizioni e all’appartenenza, una crisi generale ha risvegliato un forte senso di comunità, che ha permesso di superare l’emergenza nonostante le enormi perdite di vite umane, ma anche finanziarie. L’alto grado di coesione interna ha portato inoltre a mettere in atto strategie solidaristiche e di sostegno sociale, dalle più articolate e formali quali raccolte fondi per gli ospedali, per la protezione civile, a forme solidaristiche di quartiere come ad esempio il cesto appeso tra le vie di Napoli con su scritto “chi può metta, chi non può prenda”. Questo elevato senso di comunità e coesione interna ha determinato, di contro, una reattività aggressiva verso i gruppi altri, quali le comunità cinesi che vivono in Italia. Ciò dimostra che non sempre un forte senso di comunità porta allo sviluppo della koinonia intesa come possibilità di vivere con l’altro e sviluppare un pensiero consapevole sulla diversità. La realtà sociale e culturale attuale, chiamata globalizzazione, perché attivi progettualità e cambiamenti, deve pensare alle reti come transitorie, in grado di sciogliersi e ricostruirsi attorno e per mezzo delle risorse collettive contingenti, in modo da generare un pensiero flessibile e nomade, che sappia transitare ricorsivamente tra l’Io, il Noi, l’Altro (Lavanco, Novara, 2005).
3.2 La polis come spazio della convivenza
Il setting gruppoanalitico nei grandi gruppi, va oltre il contributo del sociale nella formazione della mente individuale. Si configura infatti come il movimento opposto in cui la soggettività può confrontarsi con il sociale, con un pensiero della polis inteso come pensiero della coesistenza e del dialogo con l’altro, con il valore della diversità. Consapevoli dell’indivisibilità psicologica tra il sé e la polis, tra l’esserci e il con-esserci, occorre superare l’illusione che sarebbe possibile conoscere e comprendere la persona indipendentemente dal contesto politico-culturale in cui è immersa. Il sociale ha una funzione attiva nella costruzione degli schemi mentali ed ha lo scopo di garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie (Gehlen, 1978). Sostenere che la psiche riguarda ontologicamente il soggetto umano, vuol dire non riconoscere la primaria culturalità della psiche ed il suo esserci nella cultura e dunque non riconoscere il soggetto come cittadino della polis. La polis diviene dunque lo spazio della convivenza in cui la soggettività è concepita come il punto nodale di una rete sociale che l’individuo si impegna attivamente a strutturare (Di Maria, 2000). Non può esistere soggettività senza un mondo che la strutturi, e che a sua volta, dialogando con le soggettività che lo abitano, subisce la loro stessa azione trasformativa. Intendere la polis come spazio di convivenza ci permette di allargare l’indagine dall’ambiente di vita più immediato del soggetto quale la famiglia, alla realtà dei gruppi, della comunità e del contesto sociale e politico in cui è inserito (Lavanco, Novara, 2005). La polis è possibilità di pensare e attivare un cambiamento in quanto luogo di convivenza dinamica tra la soggettività e la socialità, tra il desiderio/bisogno e le risorse/problemi, per far in modo che l’appagamento del bisogno individuale come risoluzione ad un problema, divenga il desiderio di costruire qualcosa di nuovo facendo leva sulle risorse interne ed esterne alla persona e alla comunità. La polis, così intesa, è lo spazio della creatività e dell’attraversamento, della trasformazione e della messa in discussione degli equilibri precostituiti. È quello spazio infra (Di Maria, Lavanco, 1991) “che si colloca nell’intersecazione dello spazio senza e dello spazio con…lo spazio senza si caratterizza per la messa in crisi delle matrici di base derivate dall’ambiente familiare; esso è, dunque, il momento di smarrimento… che segna la fine dell’eternità e l’affacciarsi verso l’ignoto…lo spazio senza prefigura il superamento del delirio di continuità ed anticipa lo spazio con… Ma le due aree non sono contigue, né di semplice continuità: lo spazio tra il crollo e la fondazione è lo spazioin–fra, il quale porta con sé il doppio valore di transito (fra) e di apprendimento (in). Tra l’abbandono della matrice di base e la costituzione della matrice dinamica è possibile evidenziare uno spazio e un tempo della prefigurazione, del vuoto-pieno in cui il soggetto scandaglia la sua progettualità di essere altro, ma anche assume il transito verso gli altri. Lo spazio in-fra come spazio della trasformazione… dove si origina e concepisce l’inventum…inteso come pensiero capace di trasformare i semplici dati osservati in costrutti soggettivamente significativi. L’inventum, al contrario dell’eventum, rimanda al non–ancora piuttosto che al già noto, ad un inconscio che più che in termini di passato non riconosciuto deve essere individuato come appartenente alla dimensione del futuro come il non-ancoraaccaduto, che proprio per questo, viene agito esplicitamente nei processi gruppali della matrice dinamica fondata nello spazio con…”. Da qui il collegamento alla politica, nella sua funzione dinamica di controllo dell’incertezza sociale, tra contenere il caos e nello stesso tempo evitare che l’ordine costituito decada in disordine. Se da un lato è un sistema di conservazione della vita, come cura dell’equilibrio, dall’altro può svolgere questa funzione solo se rigenera, se turba l’equilibrio e promuove il dialogo con il disordine (Lavanco, Novara, 2005). La politica, intesa in questo modo, dovrebbe garantire alla polis cambiamenti interni e dialogo con le diversità, possibilità di “rivoluzionarsi”. Di Maria e Lavanco in vari scritti parlano appunto di polis “rivoluzionaria”, traslando il concetto di personalità rivoluzionaria di Fromm (1963). Quest’ultimo definisce rivoluzionaria una personalità che si identifica con l’umanità e perciò trascende i limiti della propria società, essendo in grado di criticarla e di criticare anche le altre. È in grado di distaccarsi dagli avvenimenti e di osservarne la psicodinamica con sguardo critico, non escludendo il coinvolgimento con essi. Il pensare politico in gruppo è la possibilità di influenzare ciò che accade all’esterno e di essere vicendevolmente influenzati dal mondo circostante. Per comprendere il cambiamento è necessario avere chiara la fonte di stabilità e quella di modificazione, perché è sulla base di queste che è possibile individuare gli elementi che mutano rispetto a quelli che rimangono stabili. In ogni società evocare il cambiamento coincide con mettere in atto una resistenza ad esso, ecco perché il parallelismo con la metafora degli eroi e dei capri espiatori. Simbolicamente qualsiasi fondazione è caratterizzata dallo spargimento di sangue o dall’attesa di un eroe-profeta che permetta di far vincere la polis buona su quella malvagia. Ciò anziché favorire, blocca il cambiamento e porta ad utilizzare il capro espiatorio come meccanismo per rinforzare l’identità di una realtà statica. Il nemico rassicura, in quanto permette di attribuire su di lui l’insicurezza derivata dalla molteplicità e dal caos. Si sviluppa così l’anticomunità, espressione di resistenze al cambiamento, in grado di distruggere le loro stesse risorse. Essa non deve essere intesa però come una realtà ipostatica, in dicotomia con una comunità buona, bensì come un processo altamente variabile attivato dal timore della comunità di perdere il già noto e affrontare quote ignote e sconosciute che il cambiamento comporta. Come afferma Spaltro (1969), la scelta non è tra cambiare e non cambiare, ma tra cambiare o lasciarsi cambiare, tra changing e change. La polis non deve essere intesa dunque come la città-stato greca, chiusa all’interno delle sue mura per difendersi dal nemico Altro, bensì come spazio di convivenza che attiva “soggettività in cambiamento” (Lavanco, Novara, 2005).
3.3 Scenari futuri di convivenza
Possiamo pensare alla comunità italiana come ad una polis, spazio di convivenza? La crisi prodotta dalla pandemia ha sicuramente messo in discussione il già noto, la realtà sociale, istituzionale, politica, economica italiana e mondiale tutta, attivando un inevitabile processo di cambiamento. In questo momento di trasformazione è necessario uscire dal suddetto changing e da dinamiche di anticomunità, fenomeni preponderanti nella prima fase della crisi, e attivare soluzioni che promuovano il community development, la crescita del capitale sociale. Esso consiste nella fiducia interpersonale, nelle norme che regolano la convivenza e le reti sociali, orientando l’azione sociale verso l’integrazione e la cooperazione. Così come l’identità di un individuo si forma attraverso l’azione, allo stesso modo l’identità sociale si fonda attraverso l’azione sociale, nel passaggio dalla passività all’attività, spinti da interessi collettivi. Essere una comunità vuol dire saper progettare il cambiamento al di là delle condizioni esistenti, muovendosi verso possibili mondi alternativi (Amerio, 2000). Una comunità è attiva quando è in grado di far emergere la dimensione attiva di conoscenza, di pensiero, di parola e di azione, dunque di presa di responsabilità, grazie alla quale si passa dalla politica passiva all’azione critica. Non si tratta solo di un fare materiale, ma di un fare sociale, riguardante le inter-relazioni tra interessi individuali e gruppali. Il luogo in cui è possibile produrre capitale sociale e azione sociale è la comunità partecipante. La partecipazione è la capacità di mettere in rete forze individuali e collettive, che hanno origine dal coinvolgimento diretto dell’individuo e dei gruppi all’interno dello scambio con la comunità di appartenenza. Una comunità partecipante investe sul rapporto tra sfera pubblica e privata, a volte lontane e inconciliabili. Una comunità è partecipante se è fondata sul principio della relazione. I gruppi, cui il soggetto appartiene, riproducono la dimensione collettiva più ampia, in cui poter trovare conferme sulla rappresentazione di sé e sperimentare forme di partecipazione. Partecipare non significa aderire a qualcosa che già esiste, ma significa costruire, fondare, amministrare forme nuove di capitale sociale. Come ogni crisi, anche la attuale necessita di essere attraversata per mezzo di una “coscienza partecipativa” che prevede la possibilità che le differenze non vengano appiattite, per approdare ad uno stato ideale di risoluzione dei conflitti, ma che vengano fatte comunicare. Alla domanda iniziale, se possiamo considerare la comunità italiana come spazio di convivenza, la risposta è che Noi, in quanto soggetti attivi di comunità, abbiamo la possibilità e la responsabilità sociale di renderla pensabile e realizzabile. Possiamo pensare dunque alla cosiddetta fase tre di ricostruzione come uno spazio in-fra, tra il crollo e la fondazione, spazio in cui è possibile inventare nuovi, possibili e infiniti scenari di convivenza.
Parliamo allora di premesse di futuri accadimenti non ancora narrabili, origine per l’inventum di future narrazioni.
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Le autrici
Clarissa Marrazzo: Psicologa, Psicoterapeuta in formazione presso la scuola di specializzazione ITER. Vicepresidente di Ariadne – Associazione di Promozione Sociale, consulente e progettista di interventi psicosociali.
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Ottavia Galiero: Psicologa e Psicoterapeuta di Gruppo. Docente Formatore per docenti – psicologi (corsi post- universitari) – operatori sociali. Orientatrice – percorsi individuali e di gruppo, bilancio di competenze, accompagnamento al lavoro e ricerca attiva. Esperta di gruppi in ambito scolastico. Vice- Presidente C.R.eT.A.
[1] Tratto da “Le notti bianche” di Fëdor Dostoevskij