RIFLESSIONI SULLA CULTURA DELLO STUPRO DA UNA PROSPETTIVA GRUPPOANALITICA
A cura di Maria Luisa Bonura
Abstract
L’articolo sviluppa una riflessione in prospettiva gruppoanalitica sulla violenza di genere e, nello specifico, sul concetto di consenso nelle relazioni uomo-donna. Vengono esplorati alcuni temi-chiave ricorrenti nel confronto tra esperte/i e recentemente entrati nel dibattito pubblico anche in seguito al peggioramento del fenomeno in concomitanza con il diffondersi della pandemia da covid 19 e ad alcuni recenti fatti di cronaca. Tra questi: la cultura dello stupro, la vittimizzazione secondaria e fenomeni quali il victim blaming, lo slut shaming e il catcalling.
A partire da una ridefinizione del fenomeno della violenza maschile contro le donne come patologia dei contesti ed attingendo alla propria esperienza professionale nei servizi antiviolenza, l’autrice esplora le ragioni per cui urge una “cura culturale” del fenomeno e delle collusioni che lo alimentano, nella convinzione che la psicologia clinica e la gruppoanalisi possano offrire strumenti teorici e pratici per realizzare il necessario cambio di passo.
Parole chiave: violenza di genere, cultura dello stupro, consenso, catcalling, vittimizzazione secondaria
1. La violenza maschile contro le donne, una lettura gruppoanalitica.
I dati sulla diffusione della violenza contro le donne indicano nel fenomeno un gravissimo problema di salute pubblica mondiale (WHO, 2013) che la pandemia da Covid 19 ha addirittura peggiorato, tanto che le Nazioni Unite, nel sottolineare il peso devastante del problema, parlano in termini di “pandemia ombra” (UN – Unwomen, 2020).
In Italia, la violenza maschile contro le donne è agita soprattutto da uomini legati alle vittime da relazioni familiari, affettive o amicali. Le forme più gravi di abuso sono esercitate da partner, parenti o amici. Gli stupri sono commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Anche le violenze fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera dei partner o ex. Gli sconosciuti sono autori soprattutto di molestie sessuali (76,8% fra tutte le violenze commesse da sconosciuti), (Fonte: Istat, Indagine sulla Sicurezza delle donne, 2006 e 2014).
Nel 2020 le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019. A comunicarlo è l’Istat, presentando lo studio “Le richieste d’aiuto durante la pandemia”[1] (Istat, 2021) Tra Marzo e Aprile 2020, si è rilevato un primo picco di chiamate al 1522, il Numero Nazionale di Pubblica utilità contro la violenza (+176,9% rispetto allo stesso periodo del 2019) e, contemporaneamente, una deflessione del numero di denunce raccolte dalle forze di polizia per reati connessi alla violenza di genere; solo a partire da Maggio 2020 si potuto rilevare un nuovo incremento delle denunce (Fonte: Ministero dell’Interno), periodo in cui si è registrato anche un nuovo picco di chiamate e richieste di aiuto al 1522 (+182,2%, secondo l’Istat).
Nel periodo in cui le misure di contenimento del contagio da Covid 19 sono state più restrittive ed hanno previsto il confinamento in casa, si è dunque registrato un aumento del pericolo percepito e, conseguentemente, del bisogno di orientamento attraverso il contatto con un servizio gratuito e facilmente accessibile come il 1522, ma è contemporaneamente aumentato il sommerso e le vittime sembrano aver percepito meno praticabile l’opportunità di ricevere aiuto concreto.
Durante i primi 5 mesi del 2020 sono state 20.525 le donne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza. Tra le donne che si sono rivolte ai Centri nei primi 5 mesi del 2020, l’8,6% lo ha fatto proprio a causa di circostanze scatenate o indotte dall’emergenza dovuta al Covid-19, come ad esempio la convivenza forzata, la perdita del lavoro da parte dell’autore della violenza o della donna.
I report statistici relativi al 2020 raccontano inoltre un dato significativo: diminuisce il numero complessivo degli omicidi volontari e contemporaneamente cresce il numero dei femminicidi. Il Ministero degli Interni ha rilevato che, a fronte flessione del 19% degli omicidi volontari, la percentuale delle vittime donne è aumentata del 5%. Sulla base dei dati diffusi dalla Direzione centrale della polizia criminale, nel primo semestre 2020, i femminicidi sono stati quasi la metà del totale degli omicidi (il 45%): Secondo i dati del Ministero dell’interno, la maggioranza delle persone offese dal delitto di omicidio in ambito familiare-affettivo risulta essere di sesso femminile, nel 68% dei casi l’autore del reato era un partner o ex partner.
Dati inquietanti, ma non sorprendenti, con cui il fenomeno mostra il suo carattere di fenomeno strutturale, anche in mezzo a una pandemia mondiale.
La violenza contro le donne è oggi riconosciuta a livello internazionale come una multiforme e diffusa violazione di diritti umani fondamentali basata sul genere con radici culturali nell’immaginario collettivo socialmente condiviso e quotidianamente trasmesso attraverso i processi educativi e di comunicazione (cfr. Convenzione di Istanbul, 2011; WHO, 2013).
Pierre Bordieu ne Il dominio maschile (1998) definì violenza simbolica l’imposizione di una visione del mondo fondata sulla disparità di genere da parte della cultura dominante attraverso le pratiche comunicative, interazionali ed educative quotidiane. La violenza cui Bordieu si riferiva non coincide con soprusi e azioni dirette, ma ne costituisce la premessa su un piano simbolico e che, «in modo quasi invisibile agisce sul piano delle rappresentazioni cognitive e (…) si dà quando per pensarsi il dominato non dispone di altre categorie che quelle che condivide con i dominanti e che sono costruite dal loro punto di vista».
Se ci rappresentassimo la violenza contro le donne con la figura di un albero, atti come gli abusi fisici e sessuali più efferate e le violenze verbali corrisponderebbero soltanto alle parti più estreme e visibili della figura, come ne fossero i rami e i frutti.
Ma un albero non è fatto solo del suo tronco, dei suoi rami e dei suoi frutti e il livello delle radici, generalmente invisibili ad un osservatore esterno, corrisponde non solo alle violenze psicologiche più sottili, ma anche ai modelli relazionali e ai ruoli di genere interiorizzati mediante l’humus culturale che riproduce e normalizza ineguaglianze, atteggiamenti, stereotipi e linguaggi sessisti costruiti culturalmente attorno alle differenze di genere.
Sebbene in letteratura la gran parte dei contributi sulla concettualizzazione della violenza maschile sulle donne come violenza primariamente culturale siano di matrice sociologica e filosofica, è possibile cogliere un’affinità ed una compatibilità tra questo tipo di lettura e la prospettiva gruppoanalitica.
La gruppoanalisi, emancipandosi dalle sue radici psicoanalitiche freudiane, ha superato la contrapposizione tra psicologia individuale e sociale teorizzando una fondazione collettiva e culturale dell’identità individuale.
Per Foulkes:
«ciò che è all’interno è all’esterno, il “sociale” non è esterno ma pure profondamente interno e penetra l’essere più interno della personalità individuale (…) la vecchia contrapposizione fra mondo esterno e mondo interno, costituzione e ambiente, individuo e società, fantasia e realtà, corpo e mente e e così via, non può essere mantenuta» (Foulkes, 1948, tr. it. 1991, p. 38-42).
Il concetto di transpersonale, introdotto per la prima volta dallo stesso Foulkes e poi ampiamente elaborato dalla scuola siciliana in anni più recenti, è una chiave teorica che bene evidenzia l’ottica radicalmente relazionale del modello gruppoanalitico.
In questo concetto – scrivono Di Maria e Formica (2009) – ciò che in altri ambiti disciplinari viene chiamato “cultura”, trova una referenza linguistica in ambito psicologico-clinico.
Si definisce transpersonale «la dimensione relazionale, culturale e familiare della mente che rende possibile comunicare emozioni, significati, esperienze» (Lo Verso, Papa, 1993).
La relazione è qui intesa come «trama di significazione simbolica che può essere del tutto inconscia o implicita» (Ferraris, Lo Verso, 1996) e contenitore che consente lo sviluppo psicologico umano (Ferraris, Lo Verso, 1988).
Il dato transpersonale è dunque il testo che in-segna l’essere umano ed entro il quale, ciascuno/a traccia (o dovrebbe avere la possibilità di tracciare) la propria soggettività a partire da processi di simbolizzazione del reale condivisi che consentono di comprendere e organizzare l’esperienza individuale entro le relazioni di riferimento, ma anche la simbolopoiesi (Napolitani, 1987), ovvero attraverso ri-concepimenti creativi del già noto.
Foulkes così si esprime: «benché la persona-individuo esista nella sua mente e nella nostra esperienza ed il suo corpo è indubbiamente un’entità individuale coerente, esiste una matrice mentale sovrapersonale» (Foulkes, 1975) che rende inconsistente da un punto di vista epistemologico la contrapposizione fra realtà esterna e interna.
In quest’ottica l’individuale è in sé intrinsecamente sociale dunque. Una lettura gruppoanaliticamente orientata della violenza maschile contro le donne rende possibile il superamento di quelle prospettive dicotomiche che per lungo tempo hanno contrapposto interpretazioni di tipo culturale-politico a letture che inquadrano il problema come questione individuale o tuttalpiù di coppia, riducendolo a patologia e devianza ora della vittima, ora del maltrattante, ora di una “coppia perversa”.
In questa prospettiva la violenza maschile contro le donne ci chiama inevitabilmente in causa tutti e tutte, in quanto con-viventi (Di Maria, 2000) perché cittadini/e di polis. in un’accezione di politica intesa come dimensione transpersonale e cioè: prodotto gruppale di simbolizzazioni della comunità da parte di menti umane che la condividono (Giannone e Lo Verso, 1996).
In quest’accezione di politica, riprendendo un significativo slogan del movimento delle donne, certamente il personale è politico ed il politico è personale.
La dimensione politica, in quanto dimensione transpersonale (Giannone, Lo Verso 1996). è necessariamente implicata in qualsiasi tentativo di comprensione del fenomeno violenza di genere e delle condizioni di sua perpetuazione e diffusione. Alla luce di queste considerazioni possiamo riconoscere la validità e lo spessore teorico della nozione di violenza strutturale (Cretella e Sanchez, 2014), espressione che ha trovato ampio utilizzo nell’ambito degli studi di genere e che individua la violenza di genere come prodotto di un’organizzazione sociale basata sulla diseguaglianza, dove la sofferenza prodotta nei suoi membri – in primo luogo sulle donne che ne sono vittime, in questo caso – è il frutto stesso delle strutture di potere su cui si basa.
L’ampia diffusione della violenza maschile, il misconoscimento e la tolleranza degli abusi basati sul genere e il silenzio – a volte protratto nel tempo – delle vittime hanno il medesimo fondamento: la partecipazione ad una comune matrice socio-culturale che andrebbe radicalmente messa in questione.
Ricordo a questo proposito le parole di Stefania, una donna accolta diversi anni fa presso un Centro antiviolenza: «Non si riflette mai abbastanza sul perché una donna non denunci e resti per tanti anni in silenzio, ma non si pensa che dietro e, soprattutto, dentro a lei c’è un’intera società che confonde e toglie la capacità di valutare e dare un nome alla violenza»[2].
2. Carla, Sandra, Eleonora e le altre[3]. Riconoscere la cultura dello stupro e i suoi costi.
Carla raccontava: avevo 19 anni e stavo trascorrendo la serata con un mio amico. Avevano entrambi bevuto. Stavano rientrando a casa dopo una serata in discoteca con altri amici, quando lui h accostato in una strada di campagna. Ogni tanto mi aveva corteggiata, ma io lo vedevo solo come un amico. Eravamo brilli tutti e due. Gli dicevo di riprendere la strada, ma sembrava non prendermi sul serio, ha cominciato a toccarmi sotto la gonna. Gli ho chiesto di finirla pensando che stesse scherzando e poi mi ricordo che ha detto “prima o poi dovrai pure sbloccarti, meglio perdere la verginità con un buon amico che con il primo che passa”. Questa è stata la mia “prima volta”.
Arrivata a casa mi sono quasi scorticata la pelle di dosso a furia di lavarmi. Cercavo di non pensarci, due giorni dopo ho fatto un esame all’università.
Non riuscivo però a non pensarci. Mi sentivo una stupida e mi sentivo contemporaneamente in colpa e umiliata. L’unica amica a cui l’ho confidato, mi ha detto: renditi conto che in macchina con lui ci sei salita con i tuoi piedi e e che avevi bevuto e forse in fondo ne avevi voglia pure tu”. Poi mi sono messa a studiare e a lavorare forsennatamente, cercando di ripensare il meno possibile a quello che era successo. Non ne ho più parlato con nessuno per anni, a volte però mi tornavano in mente quei momenti e vomitavo ovunque mi trovassi.
Per anni ho fatto cure per la gastrite, invece era disgusto…
Sandra diceva: in quel momento non sapevo che quello era uno stupro. È piombato ad una festa a cui stavo partecipando con le mie amiche e mi ha fatto una scenata perché era geloso. Secondo lui ero vestita in maniera ammiccante e non avrei dovuto farlo. Abbiamo cominciato a discutere, mi ha baciata, mi ha dato uno schiaffo, mi ha detto che non avrei mai più dovuto farlo se davvero tenevo a lui. Mentre ancora piangevo, ha cominciato a strapparmi i vestiti di dosso lì nel parcheggio. Gli chiedevo di non farlo li, di smettere, ma era come se non mi vedesse e non mi sentisse più, mi sembrava preso dalla foga. Era il mio fidanzato, avevamo cominciato a vivere insieme da qualche mese. Mi sentivo uno schifo sia durante che subito dopo perché era come se fossi una bambola gonfiabile. Mi vergognavo di farlo lì ed ero terrorizzata dal fatto che ci vedesse qualcuno, ma nello contemporaneamente mi dicevo che la sua era come una passione bruciante e che quello che era successo aveva a che fare con la gelosia e quindi anche con me, con una mia parte in causa.
Mi sentivo sporca, come una “cosa usata”, ma ho capito che quello era stato la prima di molte altre violenze sessuali solo quando ho cominciato a parlare dei miei problemi ad una operatrice del centro antiviolenza…
Eleonora invece è stata stuprata da un militare durante una manifestazione alla fine degli anni 70, quando la violenza sessuale era per la legge italiana soltanto un reato contro la morale.[4]
Dice che una parte di lei è morta in quel momento. Ricordo le sue parole: Il mio funerale sarà durato una decina di minuti. La Eleonora di oggi è rinata dai resti di quelle esequie, quella di prima se n’è andata per sempre in quel vicolo. Sarebbe stata la parola di un rispettabile membro delle forze dell’ordine contro la mia, quella di una ventenne testa calda che si trovava dove era meglio che una ragazza non stesse.
Carla, Sandra ed Eleonora hanno età, esperienze e caratteristiche personali molto diverse, ma i loro racconti mettono in luce una costante di ogni esperienza d’abuso: lo stupro non ha mai a che fare con una incontinenza del desiderio, ma con il potere, con la sua imposizione attraverso un atto di sopraffazione sessuale.
Il termine desiderio deriva dal latino e risulta composto dalla particella privativa de- preposizione che indica dunque l’esperienza della mancanza e dal termine sidus che significa, letteralmente, stella.
Desiderare significa, quindi, etimologicamente sperimentare la lontananza del firmamento, dai suoi buoni auspici. Il termine porta già nel suo etimo la dimensione del limite, la constatazione di una mancanza che sospinge ad una ricerca e muove verso un orizzonte aperto, stellare. (Recalcati, 2012)
L’etimologia della parola allude dunque al riconoscimento della propria incompletezza e al conseguente scaturire di uno slancio appassionato. Propria del desiderio è quella nostalgica aspirazione che ci vede erranti verso l’alterità come meta e polo di un percorso mai del tutto compiuto (le stelle irraggiungibili). Il desiderio è per sua natura asintotico ed in questo si differenzia dal bisogno il cui punto d’arrivo può essere la soddisfazione, il compimento, il possesso.
Desiderio è, invece, «ciò che resiste a qualunque sogno totalitario, a qualunque impresa di omologazione» (Recalcati, 2012).
Il desiderio è perturbante. È tutt’altroche rassicurante perché ci consegna allo spazio aperto in cui ci si avventura nel confronto con la libertà dell’Altro, irriducibile a qualsiasi aspettativa o pretesa. Questo fa del desiderio il campo in cui l’imponderabile accade.
Alla dimensione del desiderare appartiene dunque il riconoscimento della propria condizione di esseri costitutivamente mancanti ed il trascendimento alla ricerca dell’altro.
Nell’esperienza dell’abuso, al contrario, sono negati tanto il limite personale, quanto l’Altro.
Mentre desiderio è, «ciò che resiste a qualunque sogno totalitario, a qualunque impresa di omologazione». (Recalcati, 2012), nell’abuso ha il sopravvento l’illusione di onnipotenza e la pretesa che l’altro/a – oggettivata e deumanizzato/a – ceda il suo statuto di soggetto e si conformi.
La dinamica dello stupro non ha mai che fare con l’erotismo giocoso della seduzione (dal latino se-ducere, condurre l’altro/a a sé), ma con la manipolazione, con il controllo e, in definitiva, con la negazione dell’alterità e della soggettività altrui.
Carla, Sandra ed Eleonora raccontano di storie letteralmente spezzate e disintegrate dall’esperienza dell’abuso. Vivere un trauma vuol dire patire un profondo danno narrativo. Il trauma inceppa la trama, introduce cioè una profonda discontinuità nel racconto di sé. Come un nucleo organizzatore tossico, continua a condizionare inconsapevolmente l’immagine di sé in relazione al presente e al futuro, producendo un vero e proprio danno narrativo quanto più a lungo rimane taciuto, scisso, negato e non integrato.
Paradossalmente, di fronte a un danno di simile portata alla salute (WHO, 2013), è proprio a loro – alle vittime – che si chiede conto di tali conseguenze, arrivando a considerarle complici dell’autore della violenza per non aver reagito energicamente o per non averlo denunciato immediatamente.
Il dibattito pubblico le chiama a spiegare perché mai non abbiano denunciato subito dopo l’accaduto, perché abbiano atteso mesi o anni, perché non abbiano lasciato un partner che le ha maltrattate per mesi o anni, come sia possibile che il giorno successivo al presunto abuso si trovassero a scuola o al lavoro apparentemente impeccabili, sorridenti ad una festa o a fare kitesurf in vacanza. Si va alla ricerca di ogni ragionevole (e irragionevole) dubbio sulla credibilità della vittima, come fosse l’imputata.
Si valuta ogni eventuale suo tornaconto nel gettare discredito sull’accusato e, il più delle volte, le si chiede – non solo in tribunale – di dimostrare in modo convincente la mancanza di consensualità. Un unicum che distingue il modo in cui affrontiamo i reati connessi alla violenza sessista da tutti gli altri e che pone le vittime in una condizione differente da quelle di qualsiasi altro reato.
Susan Brison, filosofa statunitense, mette in guardia sui pericoli di un distorto riferimento al concetto di consenso: «quando parliamo di furto, forse diciamo che esso si definisce in base al consenso o meno da parte della persona derubata? O se parliamo di un omicidio, teniamo conto della possibilità che la vittima possa acconsentire a una sorta di “suicidio assistito”? In questi casi il consenso è una possibilità che non teniamo neppure in considerazione: semplicemente perché dovremmo porci la questione? Il furto e l’omicidio sono reati di per sé e la responsabilità è di chi li commette»[5].
Le abitudini mentali nell’affrontare i casi di violenza sessista sulle donne evidenziate da Brison trovano fondamento nella cosiddetta cultura dello stupro, un concetto elaborato nell’ambito degli Studi di genere che ha grande valenza esplicativa.
A partire dalla fine degli anni 70 con l’espressione rape culture (cultura dello stupro) si è indicato quel complesso di codici rappresentativi e comportamentali attraverso cui la violenza maschile contro le donne viene sistematicamente tollerata, minimizzata, ascritta a provocazioni e atteggiamenti seduttivi o imprudenti di donne che avrebbero scherzato col fuoco – il proprio corpo-oggetto – e incendiato l’uomo, il maschio-paglia, da considerarsi, secondo queste premesse, un predatore naturale.
Nella cultura dello stupro si insegna alle figlie a proteggersi dalle aggressioni sessuali dei maschi evitando situazioni, luoghi, abiti e comportamenti considerati rischiosi, invece che ai figli a non rappresentarsi le femmine come prede sessuali.
Nel 1993, nel libro Transforming a Rape Culture, le autrici Buchwald; Fletcher e Roth definirscono la cultura dello stupro come «un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale è “un fatto della vita”, inevitabile come la morte o le tasse».
In questo orizzonte culturale «la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta» (ibidem), pertanto si rinforza sistematicamente una visione distorta del rapporto sessuale, come se fosse in fin deiconti una “violenza autorizzata” che dipende dalla bravura dell’uomo nell’ottenere il “permesso” (S. Brison cit. in E. Stanchina, 2019). Tutto ciò crea un profondo dislivello di potere e di opportunità a vantaggio degli uomini e a discapito delle donne, ma svilisce e degrada sia gli uni che le altre agendo sullo sviluppo dell’identità e producendo effetti necrotici sulle relazioni (cfr. Ciccone, 2009; Burgio, 2007; Gasparrini, 2016, ).
Nascere in una matrice socio-culturale sessista vuol dire che la banale esperienza di rientrare a casa in tarda serata sarà radicalmente differente a seconda del proprio sesso biologico; nella cultura dello stupro tutte le femmine – a differenza dei maschi – fanno, prima o poi, l’esperienza del cosiddetto catcalling, termine con cui si indicano le molestie in strada: commenti a contenuto sessuale, domande, gesti, strombazzi, fischi, avances. Si tratta di attenzioni unilaterali dirette da uomini a donne che si trovano da sole o in compagnia di altre donne, culturalmente tollerate e tutt’oggi eufemizzate come “apprezzamenti non richiesti”.
Uno studio interculturale ideato dal movimento Hollaback! e dalla Cornell University, condotto in 22 paesi tra cui l’Italia su oltre 16.000 donne, ha rilevato che l’84% delle donne subisce per la prima volta molestie di strada prima dei 17 anni (Hollaback!, 2016).
Che il catcalling abbia ben poco a che fare con i complimenti risulta evidente non appena ci si focalizza sul vissuto di chi ne è oggetto, uno stato di disagio: si percepisce che rispondere esporrebbe ad un potenziale pericolo, si tende ad abbassare lo sguardo e ad evitare quello del molestatore come forma di autoprotezione orientata ad una sorta di “disinnesco” di un atto che è già di per sé invasivo, anche se erotizzato dalla cultura di riferimento (Escove,1998; Fairchild, Rudman, 2008).
Nella maggioranza dei casi le ragazze e le donne oggetto di queste attenzioni invasive riportano la sgradevole sensazione di essersi sentite ridotte a corpi scrutati come oggetti sessuali, il cui volere non contava in quel momento assolutamente nulla.
Tra le risposte emotive più frequentemente riferite vi sono la paura, la rabbia, l’imbarazzo ma anche il senso di colpa, la vergogna, il dubbio di aver “provocato” e di essere quindi responsabile della molestia stessa (per gli abiti indossati, per essersi trovate da sole a quell’ora e in quel luogo ecc.), (Fairchild et al. 2008, Fisher et al., 2019). Senza contare gli effetti a lungo termine, gli studi di genere hanno ampiamente documentato che la continua esposizione all’oggettivazione sessuale porta le donne a interiorizzare una visione oggettivata del proprio corpo, anche detta auto-oggettivazione (cfr. Bonura, 2016).
La reiterazione delle esperienze di catcalling è solo uno dei tanti modi attraverso cui si viene educate precocemente al gioco delle parti previsto della cultura dello stupro.
Nel nostro Paese il catcalling è nominato come una forma di molestia basata sul genere con un suo specifico nome – seppur mutuato da un’altra lingua – solo da poco tempo, si stenta dunque anche solo a riconoscerne la problematicità e appare ancora lontana l’idea di una punibilità, ma nella cultura dello stupro in realtà si fa fatica a delegittimare anche forme di violenza più gravi e lesive come la violenza sessuale e lo stupro di gruppo.
Dove la cultura dello stupro prospera, i padri e le madri solidarizzano più facilmente con i figli abusanti che con le figlie abusate, condonando ai primi la violenza derubricandola a bravata o intemperanza e biasimano, più o meno esplicitamente, le figlie, se non altro per non essere riuscite a prevenire l’esposizione al pericolo.
Di qui fenomeni sociali lo slut shaming, termine utilizzato per indicare la stigmatizzazione di scelte, desideri e comportamenti sessuali – reali o presunti – percepiti come non appropriati per le donne e il victim blaming, la colpevolizzazione della vittima, il sospetto e l’indagine intrusiva sulle sue caratteristiche e scelte di vita alla ricerca di antecedenti, insinuando che, con ogni probabilità, “se l’è cercata”.
Come scrive la giornalista e attivista statunitense Laurie Penny (2017): «non è necessario aver subìto uno stupro per subire le conseguenze della cultura dello stupro. Non è necessario essere uno stupratore seriale per perpetuare la cultura dello stupro. Non è necessario essere un convinto misogino per beneficiare della cultura dello stupro».
3. Per una cultura del consenso.
Riconoscere la cultura dello stupro di cui le nostre comunità sono intrise svela contemporaneamente l’assenza di una cultura del consenso (Penny, 2017), delineando uno scenario in cui si persiste nel mistificare il concetto stesso di consenso. Si seguita cioè a intenderlo come la mera assenza di un chiaro ed esplicito dissenso.
Diverse assoluzioni si basano sull’assenza di un sufficiente dissenso da parte della vittima, sulla mancanza di esplicite e dimostrabili minacce e inequivocabili segni di costrizione fisica. Ne è un esempio una sentenza del tribunale di Modena che nel 2015 assolse due ragazzi dall’imputazione di stupro nei confronti di una ragazza in stato di ubriachezza indicando tra le motivazioni della sentenza quanto segue: «se è vero che il comportamento passivo della vittima e il fatto che scivolasse nella doccia avrebbero dovuto indurli a sospettare che la stessa avesse perso la lucidità necessaria per presentare un valido consenso all’atto sessuale è altrettanto vero che l’assenza di azioni di respingimento e di invocazioni di aiuto avrebbero potuto ingenerare la convinzione che la sedicenne fosse consenziente» (cit. in Siviero, 2017).
Il consenso – dal latino consensus, letteralmente: l’esperienza del sentire insieme – appartiene al campo della reciprocità e implica uno scenario relazionale in cui sia possibile compiere scelte libere, consapevoli, non condizionate da una dinamica di assoggettamento, da manipolazioni o ricatti emotivi o materiali, da svantaggi troppo alti o dalla minaccia implicita o esplicita di ritorsioni di tipo fisico o emotivo. E non si è nel campo del consenso quando non si è lucide perché in uno stato di significativa alterazione in seguito all’assunzione – anche volontaria – di alcool o droghe.
Non ci può essere consenso libero e autentico dove c’è anche solo uno di questi elementi.
Il consenso, inoltre, non dovrebbe mai essere irrevocabile. Eppure, quando si parla di relazioni e/o di rapporti sessuali tra uomini e donne, spesso lo si intende come fosse una sineddoche: il consenso manifestato in un dato momento e in determinate condizioni viene inteso come un consenso per tutto ciò che segue e per ogni altra condizione (Siviero, 2017).
In nessuna relazione umana l’assenso inizialmente dato in forme verbali o non verbali dovrebbe destituirci dalla condizione di soggetti di desiderio e consegnarci all’altro come oggetti d’uso.
L’equiparazione fra consenso e mancante (o insufficiente) dissenso rimanda inoltre ad un enorme problema che coinvolge la psicologia clinica chiamandola ad uno sforzo di maggiore incisività: vengono ancora comunemente ignorate le molte conoscenze sulle risposte al trauma che psicologia e neuroscienze oggi offrono e che pure sono oggetto di divulgazione (cfr. Van der Kolk, 2015; Montano, Barzì, 2019), evidentemente non ancora sufficiente.
Lo sanno bene le sopravvissute a violenze sessuali che frequentemente riportano esperienze di freezing ovvero di paralisi/congelamento; di fright o flag, reazioni passive caratterizzate da una immobilità rispettivamente di tipo tonico o flaccido, tipiche risposte neurobiologiche comunemente associate alla sopraffazione fisica e/o sessuale ampiamente documentate dalla letteratura scientifica (van der Kolk, 2015; Montano et. al., 2019).
Lo sanno bene le donne coinvolte in legami traumatici (Dutton et al. 1981 che non si sono opposte a rapporti sessuali che avevano la connotazione di veri e propri “doveri coniugali” non eludibili e accettati come strategia di sopravvivenza per la chiara percezione che un rifiuto avrebbe peggiorato la situazione innescando sottili ritorsioni nella vita quotidiana e ulteriori aggressioni fisiche e/o psicologiche.
Lo sanno bene le sopravvissute, la cui mente si protegge attraverso difese dissociative, nel tentativo disperato di un impossibile distacco definitivo da un trauma in corso o dai ricordi che in ogni momento possono riattivarlo (Herman, 1992; Reale, 2011; van der Kolk, 2015; Montano et al. 2019).
Le diverse possibili distorsioni del concetto di consenso che abbiamo finora preso in considerazione hanno un impatto significativo sul modo in cui viene affrontata la violenza di genere, ma se il consenso rimane ancora un “illustre sconosciuto” lo si deve anche alla sua banalizzazione nel dibattito pubblico e ad alcune strumentalizzazioni, in special modo, sui social. Ne è un esempio la recentissima polemica sul cosiddetto “bacio non consensuale del Principe azzurro a Biancaneve”.
La sintesi della vicenda è presto fatta: il 2 Maggio 2021 due giornaliste statunitensi esprimono una considerazione sul sito SFGate (emanazione del quotidiano San Francisco Chronicle) in un articolo dedicato alla riapertura di Disneyland dove commentano in particolare un’attrazione dedicata alla nota favola dei fratelli Grimm. Mentre negli Stati Uniti il dibattito rimane circoscritto per lo più tra i lettori di SFGate, in Italia la considerazione delle due giornaliste viene ampiamente rilanciata sui social per diversi giorni perfino anche da autorevoli testate giornalistiche nazionali e riportata in modo del tutto decontestualizzato come pericoloso esempio di “cancel culture” ovvero di un fantomatico movimento censorio – una sorta di complotto secondo alcuni – con cui per ideologia e bigottismo si vorrebbe limitare la salvaguardia della tradizione e la libera espressione di narratori e artisti vari perfino retroattivamente[6].
Le due giornaliste si esprimono molto positivamente sullo spettacolo che commentano, ma nell’articolo si soffermano sulla scena finale: nella narrazione dei Grimm, così come nello spettacolo, il bacio “del vero amore” ed, in quanto tale, salvifico, è quello ricevuto da una principessa dormiente, per forza di cose impossibilitata a scegliere alcunché.
Poi chiosano chiedendosi se non sia oggi possibile immaginare un finale meno asimmetrico. E concludono “con le luci scintillanti tutt’intorno e gli splendidi effetti speciali, quella scena finale è eseguita magnificamente, a patto che la si guardi come una fiaba, non come una lezione di vita”.
Benché l’origine della polemica esplosa sui social sia stata ben presto persa di vista, di fatto, il semplice parere espresso su una testata locale da Julie Tremaine e Katie Dowd – che, per altro, non invocavano alcuna censura – è diventato il pretesto per il proliferare di narrazioni allarmistiche: “la cancel culture vuole rimuovere Biancaneve e il suo principe, le fiabe, la libertà d’opinione ecc. in nome del politicamente corretto”. Ci sono stati diversi antecedenti, altre polemiche esplose con un meccanismo analogo attorno ad altri film, narrazioni, libri ecc. Probabilmente la vicenda in sé dice qualcosa sui rovinosi risvolti di un meccanismo sciatto dell’informazione contemporanea e ben poco su questioni come genere e violenza, ma il risultato è, ancora una volta, la banalizzazione del confronto sul tema cruciale del consenso nelle relazioni uomo-donna e il sospetto su una pratica semplice quanto vitale che nulla a che fare con la censura: rileggere in modo critico le narrazioni del passato, inventarne di nuove, ampliare l’immaginario.
4. Oltre la collusione, curare la cultura
Di notte, più del canto dei grilli,
mi impressiona il silenzio di milioni
di formiche che ascoltano.
Tudor Vasiliu
Come abbiamo visto, la violenza contro le donne non ha bisogno di agenti singoli per essere esercitata, può essere agita anche in modo indiretto ed è già in essere nelle premesse culturali di un contesto culturale che giustifica e rende plausibili gli agiti violenti da parte di singoli individui. La violenza maschile contro le donne non è un’eccezione perversa, non è un’aberrazione di micro-contesti relazionali, ma il prodotto – di largo consumo – di un sistema strutturato che ha espressioni simboliche (implicite e invisibili) e materiali (si pensi, solo per fare alcuni esempi, alla scarsa rappresentanza di donne nel mondo del lavoro, al divario occupazionale e retributivo evidenziato su scala mondiale dal global gender gap e aggravato dagli effetti della pandemia da Covid 19)[7].
Uno sguardo clinico sul fenomeno della violenza sessista non può più eludere una riflessione complessa sulle implicazioni della immersione – tanto degli uomini quanto delle donne – in un simile bagno culturale.
Decostruire la cultura dello stupro vuol dire allora liberare l’orizzonte del desiderio (Penny, 2007), riconoscerci esseri umani complessi, de-condizionare e ri-concepire (Napolitani, 1987) il campo relazionale liberandolo da vincoli asfittici.
Occorre ridefinire in termini più umani il significato della parola consenso: non un sì da estorcere, una liberatoria da ottenere o “un’arma del delitto” da ritorcere in tribunale contro chi lo avrebbe prestato, ma la qualità processuale di relazioni in cui sia possibile sentire-con e scegliere continuamente, nel divenire di un’interazione libera.
Così come il consenso non è un oggetto, la sessualità non dovrebbe essere intesa come qualcosa in cui qualcuno può vincere o perdere, al contrario, come sostiene Laurie Penny (2017), «l’idea che di una “battaglia dei sessi” combattuta nelle camere da letto, nelle cucine o ai tavoli dei ristoranti in giro per il mondo, occulta la verità che o tutti/e vincono o nessuno/a vince» (ibidem).
Anni fa, durante un incontro di sensibilizzazione sulla violenza di genere svoltosi nel periodo in cui si diffuse in tutto il mondo il movimento di denuncia delle molestie sessuali nel mondo dello spettacolo denominato Me Too[8], una donna si alzò in piedi e affermò: “faremo qualche passo avanti in direzione del progresso soltanto il giorno in cui le mogli picchiate denunceranno al primo schiaffo e le attrici in cerca di successo molestate durante i provino non aspetteranno più anni prima di denunciare, per poi farlo alla fine solo dopo avere ottenuto successo!”.
In questa visione tutto sembra dipendere dalle vittime, dal loro coraggio di denunciare o meno. A loro è delegata il compito di debellare la violenza e di realizzare il progresso.
Ma perché mai nel 2021 questo tipo di “progresso” dovrebbe risultare maggiormente praticabile?
Non abbiamo alcuna valida ragione per credere che i tempi in cui Eleonora (vedi paragrafo 2) rinunciò alla sola possibilità di pensare ad una denuncia al militare che la stuprò siano definitivamente superati.
Al momento della scrittura di questo contributo, su stampa, trasmissioni televisive e social si moltiplicano i commenti relativi ad un noto personaggio politico (Beppe Grillo) che ha diffuso attraverso il suo blog (seguito da milioni di Italiani) un video in difesa del figlio ventenne accusato di stupro in gruppo nei confronti di una diciottenne che sarebbe anche stata obbligata ad assumere ingenti quantità di alcool.
Al di là della verità processuale, che ovviamente verrà indagata e definita in ambito giudiziario, ciò che qui interessa evidenziare è che nel video-messaggio in questione vengono utilizzati tutti i topoi della cultura dello stupro. Non viene negato il fatto (documentato da un filmato realizzato con un telefonino e ora agli atti degli inquirenti), ma la sua connotazione di atto violento e non consensuale (“C’è tutto il video, si vede che è consenziente, si vede che c’è il gruppo che ride – dice Grillo – si vede che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano col pisello di fuori”).
Il video-messaggio prosegue nell’apologia degli accusati insinuando il dubbio sulla credibilità della ragazza: “non c’è stato niente perché chi viene stuprato non fa una denuncia dopo 8 giorni”, afferma Grillo, lasciando così intendere che la consensualità sia resa evidente dal tempo trascorso prima della denuncia e dal fatto che per di più alcune ore dopo il presunto stupro la ragazza si trovasse a fare kitesurf. Questi, a detta di Grillo, sarebbero già di per sé elementi di inverosimiglianza in grado di far crollare l’accusa su sé stessa.
A pochi giorni dalla diffusione del video di Beppe Grillo con le polemiche e le attestazioni di solidarietà per la sua “sofferenza di padre” inviategli pubblicamente da numerosi e numerose personalità note, i media diffondono la notizia di un’altra denuncia per stupro di gruppo: in Sicilia, a Campobello di Mazzara, quattro ragazzi sono stati accusati di violenza sessuale da una diciottenne. Il padre dalla ragazza, a poche ore dalla denuncia, si sarebbe presentato ai Carabinieri per dichiarare che sua figlia era ubriaca e pertanto non in grado di capire che cosa stava accadendo, “quelli sono bravi ragazzi” avrebbe affermato.
Sui social si sprecano gli insulti, mentre vari intellettuali in tv, su blog e giornali analizzano il paradosso. Questo padre viene immediatamente etichettato come deviante e colluso.
L’opinione pubblica si indigna e, prendendo le distanze, si autoassolve.
Eppure, dove, se non proprio nella “pubblica opinione”, questo padre – che ne è parte e partecipe come tutti/e noi – avrebbe potuto trarre l’argomento con cui ha, di fatto, creduto di poter ridurre la responsabilità degli accusati?
Al netto di caratteristiche individuali che non ci sono note e di altre vicende che possono aver avuto un ruolo in questo accadimento, la dimensione pubblica, con la sua trama di simbolizzazioni affettive condivise inerenti i ruoli di genere, è l’humus in cui trova radice l’idea che l’ubriachezza di una figlia e/o la sua inefficacia nel manifestare un chiaro dissenso possa discolpare quei tre “bravi ragazzi” che lei ha denunciato per violenza. È proprio nella dimensione pubblica che ogni giorno co-creiamo e riproduciamo refrain narrativi che distorcono o banalizzano il concetto di consenso.
È senz’altro necessario un approfondimento e una più ampia diffusione delle conoscenze sui vincoli psicologici generati dalla dinamica della violenza agita e sull’impatto traumatico dell’abuso basato sul genere contro le donne nelle sue molteplici possibili forme e l’integrazione dell’approccio trauma-informed negli interventi di contrasto alla violenza di genere, ma è altrettanto necessario e non più differibile un approccio orientato alla complessità che prenda in carico anche i contesti sociali che generano e riproducono la cultura dello stupro, non solo le vittime e gli abusanti.
È urgente affrontare la collusione sociale (cfr. Montesarchio, 2002), quel cum-ludere (letteralmente giocare insieme) che regge il “gioco” alla violenza e la perpetua nei più diversi contesti relazionali. È indispensabile curare le culture.
La pandemia in corso – scrive Paolo Giordano nel panphlet “Nel contagio” (2020) – svela inequivocabilmente «qualcosa che prima sapevamo, ma faticavamo a misurare: la molteplicità di livelli che ci collegano gli uni agli altri, ovunque, nonchè la complessità del mondo che abitiamo, delle sue logiche sociali, politiche, economiche, ma anche interpersonali e psichiche».
Come sottolinea lo scrittore, il movimento simultaneo di sette miliardi di esseri umani ha rappresentato la rete di trasporto del coronavirus ed il contagio – scrive Giordano – è oggi «misura di quanto il nostro mondo è diventato globale, interconnesso, inestricabile». (ibidem)
Sono molte le possibili analogie con le logiche di mantenimento di una cultura sessista: nemmeno la “pandemia-ombra”, la violenza contro le donne (UN-Women, 2020), con le sue gravi conseguenze sulla salute pubblica (WHO, 2013), si esaurirà in assenza di strategie per produrre cambiamenti nelle reti che la riproducono.
La più importante lezione della pandemia da Covid 19 riguarda l’urgenza di una cultura della cura orientata allo sviluppo di sistemi relazionali ed economici che promuovano e mantengano la salute attraverso il buon governo delle risorse, l’investimento sui beni comuni attraverso strategie di lungo termine che implementino la qualità della vita e la capacità di co-esistere e con-vivere.È però importante capire quale cura ci occorre. La lingua inglese dispone di due diversi termini per descrivere ciò che noi indistintamente chiamiamo cura: cure e care. Se cure è il referente linguistico più appropriato per indicare trattamenti di tipo medico con precise procedure empiriche, il termine care, rimanda invece al prendersi cura, una seconda e più ampia accezione del curare. L’impatto drammatico della pandemia ha in breve tempo messo in evidenza le falle di un sistema basato sull’incuria della complessità, che ha cioè troppo a lungo trascurato di occuparsi con sufficiente lungimiranza delle condizioni di sviluppo, sostenibilità e manutenzione delle nostre vite interconnesse (The Care Collective, 2021)
La cura, in questa accezione, non è mai atto puntuale, al contrario, è sempre processo attivo che riguarda «la nostra abilità, individuale e collettiva, di porre le condizioni politiche, sociali, materiali ed emotive perché la maggior parte delle persone e creature viventi. possa prosperare insieme al pianeta stesso» (ibidem).
Una lezione, questa, fondamentale anche nel campo del contrasto alla violenza contro le donne, fenomeno affrontato sinora per lo più in termini securitari ed emergenziali, con investimenti insufficienti e neppure continuatavi da parte del Governo italiano e con una estrema carenza di sistematicità ed efficacia soprattutto nelle azioni che incidono sul piano culturale ed economico: la prevenzione, l’occupazione femminile, l’educazione su tematiche inerenti le costruzioni culturali inerenti il genere e le relazioni uomo-donna, l’affettività e la sessualità.
La psicologia clinica e la gruppoanalisi potrebbero offrire strumenti teorici e pratici per realizzare il necessario cambio di passo: dal contributo alla rilettura del fenomeno, al miglioramento della comunicazione sul tema, dalla programmazione di interventi coerenti con una inquadratura culturale e gruppale del problema, alla prevenzione, dall’intervento clinico con le vittime per curare le conseguenze del trauma a quello con gli autori di violenza per prevenire le recidive dei comportamenti disfunzionali, senza dimenticare l’indispensabile lavoro con i gruppi professionali e di volontariato che incontrano vittime, sopravvissute, bambini/e esposti alla violenza assistita ai danni delle loro madri o autori di violenza. E infine, ma non meno importante e urgente, il lavoro gruppale con le comunità per la promozione del benessere e l’educazione diffusa a relazioni libere dalla violenza sessista.
Come psicologi clinici abbiamo spesso, a nostra volta, colluso proprio attraverso un distorto riferimento al concetto di collusione in relazione alla vittima. Abbiamo cioè storicamente contribuito, come professionisti/e, a letture fuorvianti del fenomeno e a quei processi di vittimizzazione secondaria[9] con i quali si finisce, malauguratamente, con l’equiparare sul piano della realtà il ruolo di chi compie un crimine con quello di chi lo subisce. Questo è quel che accade quando si sposta il focus su eventuali tratti dipendenti di personalità, sulla vulnerabilità delle vittime o sul presunto masochismo caratteriale delle donne abusate e quando si adotta impropriamente una logica dicotomica, di tipo giudiziario, che porta a leggere “concorsi di colpa” dove potrebbero semmai essere riconosciuti incastri traumatici fondati sulla condivisione di una matrice culturale che legittima la violenza sessista e la occulta.
È tempo di riparare.
La sfida che possiamo accogliere riguarda il superamento di un’idea riduttiva di cura. Si tratta di rispondere all’urgenza di un lavoro complesso nei gruppi e con i gruppi.
Si tratta di pensare in termini di campi terapeutici, dove le matrici culturali e le trame relazionali sono contemporaneamente strumenti e target di ogni possibile intervento.
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L’autrice
Maria Luisa Bonura: Psicologa e psicoterapeuta gruppoanalista. Dal 2010 si occupa di percorsi di uscita dalla violenza ed ha lavorato in diversi servizi dedicati. Conduce interventi formativi per associazioni e gruppi multiprofessionali di diverse realtà territoriali. È autrice del volume “Che genere di violenza. Conoscere e affrontare la violenza contro le donne” (Edizioni Erickson, 2016).
[1] Lo studio analizza i dati del servizio telefonico 1522, dei centri antiviolenza e delle case rifugio nell’anno 2020.
[2] Testo tratto da una testimonianza riportata in “Che genere di violenza. Conoscere e affrontare la violenza sulle donne” (Bonura, 2016).
[3] Carla, Sandra ed Eleonora sono nomi di fantasia, utilizzati per proteggere la privacy di donne incontrate in diversi servizi antiviolenza e nella pratica clinica. Le narrazioni riportate sono state ricostruite attraverso le note cliniche dell’autrice e non sono quindi trascrizioni verbatim di colloqui o interviste.
[4] Tale sarebbe rimasto ancora per lungo tempo e precisamente fino al 1996, quando la legge n. 66 “Norme contro la violenza sessuale”, ha per la prima volta affermato il principio per cui lo stupro è un crimine contro la persona, che viene coartata nella sua libertà sessuale, e non contro la morale pubblica.
[5] Intervento al Convegno Internazionale Affrontare La violenza contro le donne, svoltosi presso il Centro Studi Erickson di Trento nell’Ottobre 2019 e riportato nell’articolo di E. Stanchina “Susan Brison e la violenza contro le donne” disponibile online al link: https://www.erickson.it/it/mondo-erickson/articoli/susan-brison-e-la-violenza-contro-le-donne/
[6] Per un approfondimento sulla strumentalizzazione del concetto di cancel culture nel dibattito sul consenso si veda:
– Avallone F. Cancel Culture; dalle origini alla propaganda dell’estrema destra in USA alle farneticazioni in Italia. (8 Maggio 2021) https://www.valigiablu.it/cancel-culture-origini-italia/
[7] Fonti: World Economic Forum, Global Gender Gap Report 2021 – https://www.weforum.org/reports/global-gender-gap-report-2021 e Save the children, La maternità in Italia, report 2021 – https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/le-equilibriste-la-maternita-in-italia-2021
[8] Movimento di denuncia contro le molestie e gli abusi sessuali sul lavoro che ha avuto ampia diffusione soprattutto a partire dal 2017, anno in cui negli USA numerose celebrità accusarono pubblicamente di violenze sessuali il produttore statunitente Harvey Weinstein.
[9] Si parla di vittimizzazione secondaria quando la vittima di un crimine viene ritenuta parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto ed indotta ad autocolpevolizzarsi (Cretella, Sanchez, 2014).