A cura di Linda Borra
Abstract
Con il presente lavoro ci si propone di guardare al mondo dei videogames così come si configura in una società caratterizzata dal Fastnet (Bollas, 2015) e dall’iper-modernità (Kaes, 2012), con l’idea di contestualizzarlo all’interno del lavoro terapeutico con uno sguardo gruppoanalitico, che ne risalti quindi gli aspetti identitari e gruppali. L’articolo guarda nello specifico alla possibilità che la creazione di avatar e di gilde possa essere un tentativo di risposta adattiva, e per alcuni necessaria, ad un mondo caratterizzato dalla velocità e fragilità relazionale della società. Si auspica pertanto di proporre riflessioni utili al terapeuta che incontri sulla propria strada clienti fruitori di videogames, proponendo letture sulle funzioni che essi assolvono nello sviluppo dei processi di identificazione e socializzazione.
Parole chiave: videogame, Gilde, avatar, internet addiction, identità, gruppoanalisi
1. Premessa
Da anni ormai la ricerca scientifica internazionale si dedica alle “new addictions”, cioè quelle forme di dipendenza che riguardano delle pulsioni normali come sesso, cibo, amore, e che assumono aspetti di patologia quando raggiungono livelli di eccesso e/o pericolosità. Tali dipendenze riguardano quei fenomeni che presentano sul piano clinico proprietà analoghe alla dipendenza da sostanze quali craving, astinenza e tolleranza, e che coinvolgono strutture e circuiti cerebrali simili (rewarding system, rilascio di dopamina, ecc.). Eccetto il Disturbo da Gioco d’Azzardo – classificato nella sezione delle dipendenze patologiche (DSM-V, 2013)[1], sulle altre dipendenze di tipo comportamentale al momento vi è un forte dibattito su quelli che possano essere i corretti criteri diagnostici per la patologia. In essi si collocano anche quei fenomeni che riguardano la rete e l’online, i Social Networks e i videogiochi.
Difatti, nonostante siano trascorsi più di vent’anni dal primo caso documentato di Internet Addiction da parte di Kimberly S. Young (1996) e da quando Ivan Goldberg nel 1995 coniò il termine “Internet Addiction Disorder” indicando 5 criteri diagnostici (Cantelmi e Talli, 1998) e proponendone la sua introduzione nel DSM, ad oggi non esistono criteri universalmente condivisi che portano alla diagnosi di Internet Addiction[2] e non si sa nemmeno se considerarla una dipendenza, un cattivo o assente controllo degli impulsi, oppure una nuova normalità (Lancini, 2019).
Quando infatti si parla di Internet Addiction ci si riferisce, in termini generali, ad un’interazione eccessiva con la rete Internet caratterizzata da un rapporto di dipendenza, accompagnata da modificazioni dell’umore, fenomeni di tolleranza, astinenza, conflitto e rischio di ricadute (Griffiths, 1998 p. 24 in Lancini 2019).
Un passo significativo per una maggiore chiarificazione di alcune delle patologie Internet-correlate avviene nel DSM V (2013) dove l’Internet Gaming Disorder (IGD) è inserito come una condizione clinica che è meritevole di ulteriori approfondimenti. Tra i criteri diagnostici vi è l’uso frequente di videogiochi che si praticano tramite Internet, spesso giocando con altri giocatori, che determina una compromissione del funzionamento della persona.
Un ulteriore passo in avanti lo sta facendo l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, nell’undicesima revisione dell’ICD-11[3] – che andrà a sostituire dal 1° di Gennaio 2022 l’ICD-10 – definisce il “Gaming Disorder” come “un modello di comportamento di gioco persistente o ricorrente (“gioco digitale” o “videogioco”), che può essere online o offline, manifestato da: 1. controllo alterato sul gioco (ad es. inizio, frequenza, intensità, durata, termine, contesto); 2. aumento della priorità data al gioco nella misura in cui il gioco prevale sugli altri interessi della vita e sulle attività quotidiane; e 3. continuazione o escalation del gioco nonostante il verificarsi di conseguenze negative” (WHO, 2021)[4].
In questo contesto di mutevolezza ed incertezza nosografica e fenomenica, si inserisce la necessità del terapeuta di cercare quanto più possibile di stare al passo con i tempi e dunque, in questo caso, affrontare con uno sguardo curioso il complesso fenomeno dei videogames: guardarlo ed osservarlo, provando a leggerne ed interpretarnel’architettura e le dinamiche su cui si fonda, senza dover inscrivere in una dicotomia “giusto/sbagliato” l’uso dei videogames.
La gruppoanalisi dà invece la possibilità di confrontarsi con questo fenomeno di carattere individuale, culturale, economico e sociale, tenendo insieme più letture, offrendo l’opportunità di sostare, di lasciare aperti degli interrogativi sul come l’uso dei videogames possa avere ricadute sull’espressione ed identificazione di sé, sulle relazioni, sulle esperienze e sui contesti, nonché sul senso che può assumere all’interno della relazione terapeutica. In generale, approcciandosi ad una persona che usa i videogiochi e la rete, è importante tenere a mente che “l’aspetto caratteristico dello spettro di disturbi legati all’uso problematico e patologico di Internet è caratterizzato dalla sostituzione della realtà con una realtà mediatica e della saturazione dei bisogni emotivi attraverso esperienze virtuali. In entrambi i casi, il pericolo principale è che Internet diventi la parte centrale, e non limitata, della vita, non il mezzo ma il fine, perdendo la capacità di negoziare con le difficoltà identitarie e relazionali che la realtà propone. In una condizione simile, Internet viene assimilato a un rifugio della mente, un mondo onirico o fantastico che si preferisce al mondo reale” (Steiner, 1993, p. 24 in Lancini, 2019). Seguendo, dunque l’intuizione di vari autori che si occupano del fenomeno dei videogames nella prassi clinica, si sottolinea l’utilità di comprendere la valenza dei giochi, la scelta degli avatar, il modo in cui la persona/il cliente gioca nel videogame al di là della categoria diagnostica alla quale essa possa o meno appartenere.
2. Cenni storici e mercato dei videogames
Per fare ciò, serve dapprima conoscere il contesto storico, economico, culturale e sociale in cui nascono e si sviluppano i videogames. La storia dei videogames nasce negli Stati Uniti d’America alla fine degli anni ’40. Per quanto gli studiosi non siano all’unamimità concordi su quale sia stato il primo videogioco, alcuni sostengono essere il “Cathode Ray Tube Amusement Device” (dispositivo di divertimento a tubo catodico) costruito dal fisico Thomas T. Goldsmith Jr. e dal suo collega Estle Ray Mann nel 1947, e brevettato l’anno successivo ma mai commercializzato (Blitz, 2016; Kowert e Quandt, 2016; Wolf, 2012). Negli anni successivi nascono, in ambiti accademici, una serie di videogiochi con fini più didattici che ludici, tra cui “Noughts and Crosses” (più conosciuto in Italia come gioco del TRIS) del 1952, “Tennis for Two” (1958) e bisogna aspettare il 1961 per il primo videogioco creato a fine ludico: “Spacewar!” – inventato dall’informatico Steve Russel, allora studente del MIT[5] – fu in seguito clonato nel 1971 nel suo derivato Atari[6], “Computer Space”, ad opera degli ingegneri elettronici Nolan Bushnell e Ted Dabney. È con la consolle Atari (omonima della casa produttrice) che nel 1972, avviene la prima vera svolta dell’industria videoludica (Langshaw, 2013). Viene immesso sul mercato “Pong”, gioco arcade[7] che simula il ping pong, e che ebbe così successo che, nel 1975, venne prodotta la sua versione home-gaming per la console. Il poter giocare ad un videogioco sullo schermo TV di casa fu in quegli anni una vera e propria rivoluzione, e fece di Pong uno dei giochi più amati e conosciuti a livello mondiale. Oltre ad introdurre lo scoring (punteggio segnato sullo schermo), Bushnell spiega che la semplicità di Pong permise a questo videogioco di divenire una sorta di collante sociale, un’attività di intrattenimento che, data la sua natura multi-player, permetteva, se non addirittura incitava, scambi sociali mentre si giocava[8] (Next Generation. Imagine Media, 1995).
Dagli anni ’70 ai giorni nostri si sono susseguite diverse generazioni di consolle e di videogames, con qualità grafiche e sonore sempre più immersive, a costi relativamente contenuti che hanno permesso una diffusione dei videogames nella popolazione e cultura mondiale. Non a caso quasi tutti hanno sentito parlare di “PAC-MAN” (1980), di Nintendo (1983), di “Super Mario Bros”, di SEGA “Master System” (1985), di “TETRIS”[9] (1984); e ancora, di Game Boy (1989-2003). Allo stesso tempo, in quegli stessi anni nasce e si diffonde l’home computer[10]“Commodore 64”; arrivano “The Legend of Zelda” del 1987, videogioco che permette al giocatore di identificarsi con il protagonista e di affrontare nei panni di esso sfide volte a migliorare se stesso, e “Final Fantasy” (sempre del 1987), uno dei giochi di ruolo più famosi della storia dei videogames. Entrambi hanno avuto numerosissimi sequel. Questi giochi hanno dato vita ad un nuovo genere di videogiochi, in cui il giocatore deve, per poter procedere, interagire con il videogame e i suoi personaggi, e pensare a delle possibili vie e soluzioni.
Con gli anni ’90 ha inizio l’era della grafica tridimensionale e arriva il primo videogioco “spara-tutto” in prima persona: “Wolfenstein 3D”[11] (1992). Esce poi “DOOM”, diffuso shareware[12] e dotato della possibilità di essere modificato e creato dagli stessi utenti in open source[13]. Questo permise un fiorire di programmatori tra i giocatori, alcuni dei quali fondarono poi loro case di produzione o furono assunti da società già esistenti. Non solo, nella sua modalità gratuita e multi-player permise l’aggregazione di giocatori che si sfidavano in deathmatch[14] o giocavano in cooperazione per passare di livello. Ciliegina sulla torta fu la creazione di “DWANGO” (Dial-up Wide-Area Network Game Operation), servizio di gioco online che permetteva e stimolava i contatti tra i giocatori.[15] Seguono poi “PlayStation” nel 1995 (di Sony – vendute più di 102 milioni di copie)[16] e nel 2000 “PlayStation 2” (consolle a 128-bit) che conquista il mercato con 157,70 milioni di copie[17] vendute. EA Games presenta al pubblico “The Sims”[18], primo e vero videogioco di simulazione della vita reale[19]. In questi anni entra nell’industria dei videogiochi anche Microsoft con “Xbox”, prima consolle ad avere un disco rigido al suo interno[20] (Dyer, 2011) e ad offrire un servizio live a pagamento per scaricare nuovi contenuti e mettere in contatto diversi giocatori. Tra il 2004 e il 2010 si susseguono numerose uscite di consolle sempre più performanti: complessivamente in questi anni vengono vendute 500 milioni di consolle. Il videogioco è ormai a tutti gli effetti un mezzo di interazione e comunicazione tra giocatori, tanto che prende piene la diffusione di molti accessori come cuffie, microfoni, webcam, controller.
Inoltre, grazie al parallelo ampliamento e potenziamento della rete Internet, si diffondono svariati multi-player videogames di ruolo on-line (MMORPG): videogames con giochi di ruolo giocabili via Internet in contemporanea a migliaia di utenti. Tra questi, “World of Warcraft” [21](2004) che è il MMORPG più giocato al mondo (Grasso, 2010; Tassi, 2015), con un picco di 12 milioni di abbonanti nel 2010; e “ULTIMA ONLINE” che fu il primo a superare 100.000 abbonati (Logiudice e Barton, 2009) e che segna un cambiamento di costume nelle abitudini dei giocatori. Si passa infatti da videogiochi giocati individualmente o in piccolo gruppo, a videogames da giocare in massa, dove si partecipa con personaggi e ruoli in ambientazioni fantastiche o simulanti la realtà, dove si vivono esperienze molto coinvolgenti.
Nel 2017 esce Nintendo “Switch”, consolle che supporta il gioco online tramite una connessione Internet sia standard che wireless, a significare quanto il mercato dei videogames online sia cresciuto in questi anni; non è un caso infatti che esploda anche il fenomeno dei giochi free-to-play scaricabili e giocabili online senza necessità di abbonamento[22].
Come si evince da questo breve excursus storico, dagli anni ’50 in poi l’industria videoludica è cresciuta fino a divenire punto di riferimento per il settore dell’intrattenimento. Nel mondo è stimato che ad oggi vi siano oltre due miliardi di videogiocatori (di età, genere, e nazionalità varie), dunque aziende importanti come Microsoft, Apple e Google ricercano costantemente nuove idee ed innovazioni per fornire sempre più servizi. Si stima tra l’altro che il mercato dell’industria videoludica, sempre più in crescita, arriverà nel 2022 a produrre entrate pari a 196 miliardi di dollari americani.
3. La conoscenza dei videogames nella pratica clinica
Considerando quindi l’enorme diffusione dei videogiochi nell’attuale società e avendo accennato a possibili problematiche derivanti da un abuso di un loro utilizzo, il terapeuta è chiamato ad avere molteplici aree di expertise e competenza in una complessità sociale che pare non arrestarsi. Nell’ambito della quale si intrecciano e concatenano, a volte confuse, questioni legate all’idea di “Internet Addiction”, o di un sovra-uso di videogiochi, o al ritiro sociale (es. Hikikomori) o al sovra utilizzo di device quali smartphone, tablet, PC per un problema di gioco d’azzardo online. Fenomeni che creano trend di comportamento nelle persone e che è quindi bene saper distinguere per capirne le singole ricadute sul quadro clinico di colui che si prende in carico.
A questa riflessione è importante aggiungere che non solo la conoscenza dei diversi fenomeni ci aiuta come professionisti a distinguere le situazioni che vengono portate in colloquio e dunque orientare le osservazioni cliniche, ma anche che è vitale tenere presente che tali fenomeni vanno calati nel contesto e valutati alla luce di quelle che sono le possibili diagnosi differenziali. Come ricordano Andorno e Lancini in un capitolo del libro “Il ritiro sociale negli adolescenti” (Lancini, 2019, pp.186-187) “la rete […] come disperato tentativo di mantenersi in contatto e aderire alla realtà. […] ha una funzione difensiva, controfobica, rispetto al reale e la sua dimensione parzialmente immaginaria impedisce che il blocco diventi psicosi, e consente a molti ragazzi in difficoltà di mantenere in vita processi di simbolizzazione affettiva e relazionali. Il superinvestimento della rete implica, spesso, l’inversione del ciclo cicardiano, ma anche l’annullamento dei confini della propria stanza, del corpo, del dolore e della solitudine.”
In accordo con Lancini (2019), è quindi importante comprendere e approfondire le competenze e conoscenze dei pazienti in materia di videogiochi, in quanto questo permette di entrare più a contatto con il loro mondo interno ed anche con il loro funzionamento. Per fare ciò, lo psicologo che si affaccia al lavoro con clienti che utilizzano le nuove tecnologie correlate all’uso della rete, tra cui i videogames, ha bisogno di accedere ad un livello di comprensione di quello che è il significato intrinseco dei videogiochi: dal ruolo che può assumere l’avatar (personaggio con cui si gioca), alle dinamiche che possono scaturire dalle modalità diverse dei giochi stessi. Se infatti da una parte si può parlare di un “rifugio della mente”, vediamo come in adolescenza il fenomeno dei videogames può essere considerato un mezzo che consente di “dar voce a molteplici aspetti psicologici e affettivi” (Lancini, 2019, p. 26). È scientificamente provato che il videogame, per come è strutturato, può attivare l’emotività a livelli profondi, permettendo e facilitando molteplici processi di identificazione. Può anche giocare un ruolo importante nella mentalizzazione del corpo (che spesso mette in crisi l’adolescente) e sviluppare delle competenze sociali e relazionali che possono essere trasposte nel mondo reale: “Internet e i videogiochi possono dunque rappresentare una palestra sociale in cui mettere alla prova le proprie competenze comunicative e sociali” (Lancini, 2019, p. 27). Partendo dalle teorie di Bion (1962) ed assimilando “la funzione della rete alla rêverie materna” è possibile parlare di una valenza del gioco online come di una “incubatrice psichica, in grado di mantenere in vita funzioni vitali come quella relazionale e di simbolizzazione, proteggendo, quindi, da rischi di agiti verso il Sé” (Lancini, Cirillo, 2013 in Lancini, 2019 pp. 30-31).
4. Aspetti identitari nei Videogames
Per meglio comprendere il mondo dei videogames, è bene fare una digressione su quelli che sono gli aspetti del contesto storico e culturale in cui stiamo vivendo. Infatti, come visto, la comparsa dei primi videogames avviene a cavallo di eventi storici drammatici e traumatizzanti quali gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
Lo scenario viene ben descritto da differenti autori, tra cui Kaës, che nel saggio “Il malessere” (2012, ed. ita 2013, p.22) scrive: “[…] ormai stiamo vivendo un vacillamento che colpisce più radicalmente la nostra possibilità di essere al mondo con gli altri e la nostra capacità di esistere per noi stessi; questo vacillamento interroga le dimensioni ecologiche e antropologiche di tali mutazioni. […] La questione che ci interessa è quella relativa ai principali ostacoli che contrastano il processo della soggettivazione, il divenire Io, la capacità stessa di esistere, di stringere legami e di fare società”. Il pensiero di questo psicanalista francese aiuta a introdurre quello che viene parzialmente anticipato da Freud in “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte – Psicoanalisi della società moderna” (1915) e nel “Il disagio della civiltà” (1929), e successivamente ipotizzato da diversi autori, tra i quali Baumann (2000; 2012) e Bollas (2018) in cui la società moderna viene presentata, a seguito degli sconvolgimenti delle due guerre mondiali e della scoperta delle atrocità perpetrate in esse, come portatrice di un trauma, di un orrore indicibile, di un lutto continuo, che va a immettersi e condizionare lo sviluppo dell’individuo, considerando che “[…]ogni individuo subisce non solo l’influenza del suo attuale ambiente civilizzato, ma anche quella degli ambienti in cui vissero i suoi antenati” (Freud, 1915, p.55) e che allo stesso tempo la sofferenza psichica sia originata nella civiltà, “dalle reciproche relazioni degli uomini” (Freud, 1915/ibidem). Kaës (2012), con il termine “ipermodernità”, descrive un’assenza e/o disgregazione dei limiti, all’insegna di un’esasperazione emotiva e fattiva portata all’iper, all’estremo, e in cui si rendono ancora più forti ed evidenti “gli effetti persecutori, melanconici e maniacali dei lutti interminabili” derivati dalle fasi precedenti della modernità. In tal modo l’autore va oltre il concetto Freudiano di “disagio” (in cui è presente il nesso relazionale tra disturbi psichici ed aspetti sociali e culturali) proponendo il concetto di “malessere” inteso come dolore, sconforto e male nell’essere stesso dell’umanità. (Kaës, 2012)
Infine si può affermare che “Un mondo secolare senza ideali o significato verticale ha lasciato le popolazioni del 21° secolo vivere in un’era in cui lo smarrimento non è semplicemente un effetto secondario dei due secoli precedenti, ma una posizione difensiva. Se non possiamo costruire dei buoni sogni per noi stessi, per le famiglie, le regioni, le nazioni e il mondo; se quindi non possiamo costruire il futuro come oggetto mentale che raccoglie quei sogni ed utilizzandoli come matrici vitali che collegano i cittadini di tutte le nazioni in una progressione significativa, allora come creature adattive ci siamo rivolti a nuove strategie per camminare sull’acqua”[23] [mia trad. da Bollas, 2015, p.22 ].
Emerge quindi tutta la fatica dell’individuo di diventare oggetto nell’odierna società. Di Maria (1994) partendo dalla concezione del sociale di Pontalti, cioè come l’organizzazione mentale che serve a garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie, propone l’idea che questa organizzazione possa non solo difendersi ma anche avere delle funzioni di progettualità. Il sociale è dunque inteso come agente attivo nella costruzione di schemi mentali che permettono il passaggio da soggetto individuale a soggettività collettiva, in cui si possono generare processi creativi e di innovazione.
Quanto detto contribuisce ad elaborare un pensiero su quanto la società attuale sia sovraccarica di dolore e malessere, di lutti continui ed interminabili causati dalla tendenza odierna di negare la morte (Freud, 1915) e dal rendere, come suggerisce Christopher Bollas (2018) nel suo saggio sull’età dello smarrimento, il ritorno dell’oppresso. In questo testo, partendo dalla riflessione freudiana sull’impossibilità di vedere il futuro in maniera positiva e luccicante, nonché sulla perdita psichica avvenuta con le guerre (che Freud identifica come “assassini collettivi, di massacri tra un popolo ed un altro”), l’autore si domanda come sia possibile immaginare un futuro se il passato recente e il presente differiscono dalla visione umana. Ed inoltre si chiede se pensare al futuro, che è intrinseca funzione vitale per il sopravvivere della specie, offra la possibilità di formare una struttura mentale cruciale che possa raccogliere la visione inconscia (cuscinetti) di possibili futuri e orientare il sé nella temporale esistenzialità della durata della vita. (Bollas, 2015).
Partendo dunque da questi presupposti, è possibile constatare che vi è, al giorno d’oggi, un rischio – come già postulato in Kaës – di perdere la possibilità del diritto del Sé di essere (“self’s right to be”), e di spingersi, come propone Bollas, in quello che è il ritorno dell’oppresso. L’autore differenzia i termini “represso” ed “oppresso”: il primo implica l’idea di reprimere dalla coscienza informazioni e contenuti specifici che poi ritornano alla mente tramite nuove vie; il secondo, invece, si riferisce alla sospensione o distorsione del pensiero umano. Ciò implica che l’oppressione modifichi non il contenuto e le informazioni, bensì le stesse abilità e capacità della mente di funzionare, la maniera stessa in cui si forma il pensiero.
E se, come dice Bollas (2015), il Sé del XXI secolo è inserito in un mondo che ha come paradigma la velocità – il Fastnet (non a caso Fast = “velocità” e Net = “rete”) – e l’esigenza di approcciare a qualsivoglia problematica con rapidità (che richiama un’apparente efficienza), è palese come l’importante funzione riflessiva del pensiero scompaia o perda di valore. Cosa osservabile nelle modalità ideative odierne, dove vi è maggiormente concentrazione nella “replicazione” piuttosto che nella “creazione” di contenuti originali. Un esempio per tutti i “social” online come Tik Tok, dove vi è l’esercizio di riprodurre, ovviamente al meglio, in maniera performante, un balletto, uno scatch, ecc. Questo riprende tra l’altro proprio il concetto dell’omogeneizzazione, aggiunto da Bollas alla processualizzazione ed orizzontalizzazione del pensiero, cioè quella tendenza a promuovere l’omogeneità per ridurre le differenze, le tensioni, e quindi l’incremento presunto del potenziale produttivo dell’essere umano.
Va da sé che tutto questo produce un vuoto, un allineamento ed appiattimento di senso nel pensiero, nelle cose, nel Sè e quindi il disorientarsi, il perdersi, lo smarrirsi dell’essere umano. Smarrimento che ha radici profonde nella nostra storia. Già Freud nel 1915 ci informa sul fatto che “Poi, la guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, ed è stata per noi una fonte di… disinganno. Non solo essa è più cruenta e più distruttiva di tutte le guerre del passato, per i terribili perfezionamenti portati alle armi di difesa e d’attacco, ma è altrettanto, se non più, crudele, accanita, spietata, che qualunque di esse. Essa non tiene alcun conto delle limitazioni alle quali ci si attiene in tempo di pace e che formano ciò che chiamiamo il diritto delle genti, non riconosce i riguardi dovuti al ferito ed al medico, non fa alcuna distinzione tran combattenti e popolazione civile. Calpesta tutto ciò che trova sul suo cammino, e questo con una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovesse più esserci avvenire né pace tra gli uomini. Distrugge tutti i legami comunitari che ancora uniscono tra di loro i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro di sé rancori che renderanno impossibile, per molti anni, la ricostituzione di questi legami” (Freud, 1915, pp. 50-51 ), e se si pensa a tutte le successive altre guerre avvenute, macchiate di orribili e deprecabili genocidi, ed ogni più disgustoso atto contro l’intera concezione di umanità, e si riflette che le ultime generazioni di uomini sono state esposte a immagini sempre più crescenti di violenza senza però ricevere una adeguata – se si può così dire – contestualizzazione e/o spiegazione, è comprensibile che vi sia un pessimismo dilagante sull’avvenire, un’assenza di fiducia sul futuro, dove le istituzioni tradizionali si sentono come fragili, incerte, instabili. Non a caso si sente molto parlare di “fluidità”. Come se il movimento e mutamento continuo dato dalla velocità nelle cose, nelle esperienze e nel pensiero riducessero quel rischio di sentire l’angoscia, la paura, il vuoto, lo straniamento, la violenza, lo sconforto, tutti tratti salienti in questo attuale momento storico. Kaës (2012) infatti, riconduce al concetto di “traumi collettivi”, quelle esperienze impensabili e impensate, tanto da dover essere “sepolte di diniego, isolate dalla scissione”, generatrici di un male sentito come distruttivo ed estraniante. Questi traumi sono così tanto violenti, impensabili ed inintroiettabili, poiché nocivi, che l’autore propone, al fine di permettere un’identificazione, di inserire nella categoria dell’umanità, la categoria dell’inumano, dando quindi la possibilità all’individuo di escludere dall’esperienza umana quello che risulterebbe totalmente inaccettabile.
Bollas propone di affrontare il senso di smarrimento provato a causa del malessere della società, con “la sospensione del pensiero e dell’impegno, come forma di ritiro psichico, [queste] sono prove del suicidio del sé” (Bollas, 2015, p. 19). Il “suicidio del Sé”, potrebbe essere riletto come un tentativo di difesa dell’individuo da un transpersonale troppo carico di malessere; intendendo il transpersonale come “la rete delle relazioni inconsce nella quale è sedimentato il patrimonio biologico e culturale della specie umana e attraverso la quale si fonda la vita psichica” (Ferraro e Lo Verso, 2007, p.24) e dunque di risposta il “suicidio del sé (subjecticide) come auto-eliminazione dell’integrità del pensiero che supporta l’illusione dell’Io” (mia trad. da Bollas, 2015, p.19).
È in questo contesto sociale colmo di dubbi ed incertezze che si colloca nei tempi odierni la formazione dell’identità e del soggetto. E come si è visto l’esistenza stessa del soggetto e la sua possibilità identitaria sono inscritte nel gruppo sociale e non possono prescindere da esso. Ritornando all’odierno contesto storico e culturale, e pensando al fatto che “l’ipermodernità porta alle sue estreme conseguenze lo sviluppo dell’individualismo e con esso i valori d’intimità, di mondo privato, di distinzione e di affermazione della singolarità. Questa estensione è una protesa, allo stesso tempo, contro le costrizioni di civilizzazione e contro i fattori che la organizzano, i controlli, l’anonimato, la presa del collettivo. Ma nello stesso movimento, il privato si sottomette alle esigenze della sua spettacolarizzazione e della cultura della trasparenza” (Kaës, 2012, pp.120-121), l’autore si interroga su come sia possibile trovare un equilibrio tra le esigenze di un mondo sociale iper-moderno che sottostà alla cultura della trasparenza – al fine di verificare e controllare che niente ostacoli il corretto funzionamento delle istituzioni – e l’esigenza che l’individuo ha di “privato”, di “segreto” per poter entrare in contatto con se stesso e con la possibilità di pensare, e quindi di essere soggetto.
Questa oscillazione in un continum discontinuo di esigenze di trasparenza/esibizione e di privato, porta con sé un senso di incertezza e precarietà che l’individuo rischia di trasformare in quella che si può definire una cultura fobica che richiede l’uso di misure di difesa dal pericolo tramite rimozione, spostamento ed evitamento, nonché proiezione degli oggetti fobogeni all’esterno. A questo si accosta l’idea di “matrice eccessivamente insatura”[24] proposta da Ferraro e Lo Verso (2007), che produce una condizione di sofferenza psichica espressa tramite sentimenti di assenza e di vuoto molto profondi e radicati.
In questo turbine caotico, ricco di disturbi della simbolizzazione e del narcisismo, è possibile percepire che l’oggetto-ambiente non favorisca il costituirsi del bambino come un altro, un oggetto che esista indipendentemente dalle funzioni od esigenze narcisistiche dei genitori. La sofferenza psichica – causata dall’incapacità di mantenere la continuità e l’integrità dell’Io che ha sperimentato un’impotenza primaria – fa sì che le identificazioni fondamentali vengano minacciate, e che vi sia una perdita dell’autostima ed una scomparsa della fiducia. Questo ritiro della fiducia – oramai distrutta – genera sfiducia; di conseguenza il mondo, gli altri, e addirittura noi stessi non siamo più affidabili. Oggi “le dimensioni attinenti alle grandi aree culturali, ai miti, alle religioni, alle tradizioni, ai linguaggi, ecc. si sfrangiano (o in altri casi s’irrigidiscono) diventa difficile non solo la comprensione del mondo, ma anche la possibilità d’interiorizzare tutti quegli aspetti legati all’esperienza di appartenere che, perdendosi, diventano soltanto frammenti di un mondo essenzialmente incerto e provvisorio” (Ferraro e Lo Verso, 2007, p. 45).
5. L’avatar: una possibile risposta identitaria?
Il dubbio che sorge è se un “punto di forza” dei videogames – forza intesa come capacità di attrarre un pubblico sempre più crescente – sia la possibilità di crearsi immagini e rappresentazioni (altre) di sé, gli avatar, e di giocarle, interpretarle e sperimentarle all’interno di realtà virtuali costruite e dunque in un qualche modo chiaramente regolate, pre-definite, certe.
In esse è forse possibile stabilire quel rapporto minimo di fiducia necessario, e potenzialmente ormai perso nel mondo reale dell’ipermodernità, per permettere quel dialogo tra idem ed autós generatore della soggettività? Può essere l’avatar una risposta valida per la creazione/raggiungimento di una “vera” soggettività nell’ipermodernità?
Un aspetto interessante su cui soffermarsi è la possibilità di scegliere le caratteristiche fisiche – e nei videogames quelle personologiche, caratteriali e di abilità (in alcuni casi) – degli avatar. Questa possibilità di “plasmarsi in un’icona”, dunque di controllare l’immagine di sé che si offre nel mondo virtuale, può essere una modalità di espressione non solo di un altro da sé, ma addirittura una proiezione di un sé ideale, perfetto, che, negando la concretezza degli aspetti di corporeità, sembra appagare i bisogni narcisistici.
L’idea stessa, al limite dell’onnipotenza, di auto-crearsi a proprio piacimento e volontà, fa riflettere sulla funzione psicologica che assume l’avatar, nome non scelto certo a caso. Infatti, con il termine sanscrito “avatar”, usato nell’induismo per indicare la “discesa e incarnazione di una divinità” (Devoto-Oli, 2002), nel mondo informatico si indica una rappresentazione grafica e virtuale degli utilizzatori di siti web, app, videogiochi (role-play videogames soprattutto), social, forum e spazi on-line. Ogni utente può scegliere tra una serie preimpostata o creare un’immagine che lo rappresenti e raffiguri come un “personaggio”. Il personaggio può essere ispirato alla realtà, alla fantasia, può avere carattere fotografico, fumettistico, cartoons, testo, ecc.
In genere, nel mondo dei multi-player videogames di ruolo on-line (MMORPG), si può e si usa creare uno o più avatar, con la funzione di alter ego che assolva il compito di “rappresentare pienamente” la persona, facendone le veci (Treccani, 2020), e allo stesso tempo migliori l’esperienza di appartenenza alla comunità virtuale del videogame.
Bollas (2015) propone l’idea che alcune modalità di comunicazione e pensiero presenti nel XXI secolo possano essere lette come “psychic flight”, una fuga psichica per sottrarsi dal sovrastante peso di un mondo frantumato, sgretolato e distrutto dalla stupida insensatezza (dumb thoughtlessness) presente nei due secoli precedenti. Secondo questo autore Internet permette di fare voli psichicamente sistemici dal reale, mentre si vive in una realtà virtuale dotata di diversi avatar del sé. Spesso, infatti, la costruzione di avatar – alter ego permette ai giocatori di sperimentarsi in altri da sé: ci sono persone che scelgono avatar di età, sesso, look, ruolo diverso da quello che vivono nel mondo reale.
In questo caso, l’avatar può essere un mezzo di dis-velamento identitario, ma anche scoperta, ricerca ed esperienza di sé in un mondo altro, apparentemente più sicuro perché virtuale, ma soprattutto perché sotto controllo diretto dell’utente. L’utente dunque, come anticipato, diventa un “dio auto-creatore” di sé stesso, e in taluni casi, co-creatore (insieme alle case produttrici) del mondo virtuale in cui gioca e vive. Si pensi a come per l’utente di app e videogiochi, l’avatar abbia assunto nel tempo un ruolo così importante che tante compagnie e case produttrici di videogames guadagnano dalla vendita tramite micro-transazioni in app e giochi di accessori e dettagli volti a customizzare e dunque “personalizzare” l’immagine di gioco.
Si può ipotizzare che la costruzione dell’avatar possa essere un tentativo di (ri)appropriazione e sperimentazione di un’immagine identitaria di sé, che si avverte come fragile, incompleta, sgretolata, nella fantasia/volontà – come ci ricordano Ferraro e Lo Verso (2007, p.47) ed espressa nel Faust di Goethe – di riconquistare “Ciò che hai ereditato dai padri […], se vuoi possederlo davvero”, e poter dar voce a parti di sé ed integrarle in un unico Sé ristrutturato, in questo caso, anche a piacimento. Interessante qui da notare la rilevazione ad opera di Nick Yee e Jeremy N. Bailenson (2007; Yee et al., 2009) che parlano di Effetto Proteus, fenomeno per cui gli utenti dei mondi virtuali possono conformare il loro comportamento a quelle che sono le proprie ed altrui attribuzioni, aspettative e stereotipi riguardanti l’identità assunta tramite l’avatar. Effetto che può influenzare l’auto-percezione di sé nella persona non solo nella vita online ma anche in quella offline. Questo a significare quanto sia stretto e forte il legame tra l’avatar – sé virtuale, e il sé reale della persona, tanto che le esperienze vissute nel videogioco possono essere sentite come reali.
Bollas ipotizza che lo sviluppo di un sé virtuale, impegnato in comunicazioni veloci, poco profonde e scialbe, risponde a quel compromesso tra la necessità di trasparenza e un silenzio assoluto, accostabile all’esigenza del “segreto”, del “privato” prima proposti tramite Kaës. In tale maniera, l’utente utilizza avatar per entrare in contatto con il mondo, ma tenendo distanze di “sicurezza” dove non solo poco di lui viene esposto/donato all’altro, ma poco dell’altro rivelato/raccolto. Ci si può qui ricollegare al discorso della cultura fobica di relazione con il mondo, percepito come pericoloso in quanto carico di incertezze e di malessere, in cui da una parte forse si vorrebbe partecipare ma, per paura di smarrimento, non ci si vuole arrischiare ad entrare in un contatto profondo con l’altro. Contatto che, come visto nella letteratura gruppoanalitica, modifica, modella, cambia.
Non solo: anche la stessa esperienza di controllo che il giocatore può esercitare nel mondo virtuale, a partire proprio dalla costruzione del suo avatar, ricorda quella necessità di ricerca di certezze, nella “confusione emozionale nei confronti di sé e dell’altro” (Carli e Paniccia, 2003) della dinamica neo-emozionale del controllo.
Il paradosso e “rischio di inganno” però è quello di vivere più di un sé virtuale e non sperimentare le diverse possibilità di vita del sé nel reale. Il giocatore infatti sperimenta, muove e gioca i suoi altri-sé, si relaziona con il mondo virtuale, le sue regole e le sue comunità, appare come Deus ex machina nella storia di se stesso, nel tentativo – probabilmente anche inconsapevole – di risolvere la tragedia, la difficoltà, il malessere di una società presa dalla velocità, dal consumismo, dalla competizione, dalla produzione e dalla crescita economica portata ai massimi termini, in cui non riesce a conoscersi e riconoscersi.
Torna utile il concetto di “soggetticidio” precedentemente proposto, che esprime bene quel senso di blocco sia del pensiero sia dell’impegno attivo nel mondo, una sorta di un ritiro psichico, a cui si può accostare il pensiero di Teleghani sul suicidio visto non come desiderio di morte, ma come rifiuto di una certa vita, per il desiderio di vivere una vita diversa: “Per il suicida la morte tende ad assumere un valore liberatorio, perché essa riveste, paradossalmente, il significato di luogo dove si può stare sereni e tranquilli, finalmente liberati da una ‘cattiva via’ ” (p.176, in Nizzoli e Colli, 2004).
Rilancio quindi la questione sulla fattibilità di leggere la costruzione dell’avatar da parte degli utenti come possibilità di costruzione identitaria nell’ipermodernità, in cui, se da un lato effettivamente si nega il corpo reale (e il sé) e si rischia di incorrere nei pericoli annessi, dall’altro si permette a differenti corpi virtuali (e diverse parti del sé) di esistere e “vivere” vite diverse nell’irrealtà della realtà virtuale.
6. Aspetti gruppali dei videogames
Oltre all’avatar, letto alla luce del contesto socio-culturale dell’ipermodernità in cui viviamo e il suo possibile essere strumento di soggettivazione del sé, vi sono alcuni fattori che aiutano a spiegare il perché del successo sempre più crescente dei videogames nella popolazione giovanile e non. Tra questi un aspetto specifico dei videogiochi di ruolo online, la comunità virtuale, nello specifico i gruppi di azione, “le gilde” e il processo verso la reificazione delle relazioni che si instaurano online. Difatti, l’ipotesi proposta sul ruolo dell’avatar come strumento di narrazione ed espressione altra di sé, non può reggersi senza valutare la presenza di un altro punto di forza del mondo dei videogames giocabili on-line: la comunità virtuale, l’altro, con cui l’utente si relaziona ed interfaccia; questo potrebbero anche spiegare e forse risolvere l’ambivalenza precedentemente accennata che vede il contrapporsi pubblico/privato, trasparente/segreto, da solo/in compagnia, e nella necessità di trovare un punto di equilibrio tra i due poli/esigenze dell’individuo inscritto nel sociale.
La comunità virtuale, a cui partecipano i giocatori con i loro avatar, esiste nel momento in cui le persone si riconoscono ed identificano in una cultura e in una rete sociale governata da caratteristiche e regole peculiari interne, e come suggerisce Masullo (2005), dove siano disposte a comunicare con l’altro singolo.
Uso, non a caso, la parola “singolo” e non “individuo” in quanto osservare un fenomeno come quello dei videogames dal vertice gruppoanalitico vuol dire porsi in una modalità di ricerca che vuole superare un certo individualismo metodologico dove il pensare all’essere umano come individuo risulterebbe di per sé pregiudiziale (Montesarchio, 2019). L’intento è quello di porsi con uno sguardo curioso di osservazione e ricerca su questo fenomeno dei gruppi che si instaurano online e creano dei legami di appartenenza, col desiderio di aprire una “pensabilità” intorno al senso simbolico e metaforico della relazione tra le gruppalità interne degli individui che partecipano a un così nuovo e particolare contesto relazionale e il contesto stesso. La volontà quindi è di cogliere il portato antropologico e culturale, così da meglio capire l’“origine storico-relazionale” (Montesarchio, 2019) dei processi coinvolti nella costruzione identitaria di chi lo attraversa. Questo significa comprendere, ove possibile, “la trama di significazione simbolica implicita che, pur facendo parte del campo psichico […] lo trascende e lo attraversa” (Montesarchio, 2019, Atti Convengno Iter).
Napolitani parla di “gruppalità interne” intendendo l’insieme articolato delle relazioniche vengono interiorizzate e che vanno a comporre l’identità (Napolitani, 1987); da qui ne consegue che sia di importanza fondamentale il processo di identificazione con i gruppi sociali che genera l’appartenenza dell’individuo alla collettività (o alle categorie): è l’artefatto culturale dell’identità individuale. Infatti, il sentimento di appartenenza ad un gruppo permette sia la possibilità di essere visti e riconosciuti, sia l’auto-definizione di sé, di poter dunque possedere le parole per descrivere i propri vissuti, di essere definiti, limitati, confinati, dunque non-sfrangiati.
Il rischio del non-appartenere, del non essere categorizzati porta a possibili stati di ansia e di perdita del sé. Perché il non-appartenere significa non essere visti, non essere riconosciuti, essere fuori dalla collettività e quindi non esistere. E questo produce sofferenza psichica. Tale sofferenza, come ben analizzato da Ferraro e Lo Verso, (2007) assume contorni “polarizzati”: da una massima saturità a una eccessiva in-saturità delle reti che connettono le dimensioni del transpersonale e che stanno caratterizzando la società attuale e, quindi, l’evoluzione dello psichico nell’attualità globale.
Si può rilevare lo stesso fenomeno nel mondo dei videogames: la tendenza da parte dei giocatori di identificarsi ed etichettarsi in gruppi, come risposta alla necessità, intrinseca all’uomo, di appartenere, di essere parte di una comunità. La natura neotenica dell’essere umano lo porta in maniera naturale a stringere legami, formare attaccamenti e relazioni, per cui “la genesi del pensiero è data dal nutrimento relazionale ricevuto e dagli schemi familiari di relazione che agiscono sull’individuo, e la natura e le dinamiche di questi dipenderanno dall’interazione fra l’organismo e il suo ambiente” (Di Maria e Formica, 2009, pp. 210-211). Inoltre, secondo il pensiero esistenzialista proposto da Sartre nella sua intera opera, scoprire la propria soggettività implica scoprire l’altro; non ci si può infatti riconoscere senza riconoscere l’altro: “[…] l’uomo, che coglie se stesso direttamente col «cogito», scopre anche tutti gli altri, e li scopre come la condizione della propria esistenza. Egli si rende conto che non può essere niente […], se gli altri non lo riconoscono come tale. […] L’altro è indispensabile alla mia esistenza, così come alla conoscenza che io ho di me.” (Sartre, 1946, p. 65) Il filosofo e scrittore francese, parla dunque dell’intersoggettività e di come le persone siano interconnesse tra loro e questo implica che decisioni, scelte, azioni dell’uno ricadono anche sull’altro: “[…] ed è in questo mondo [l’intersoggettività] che l’uomo decide di ciò che egli è e di ciò che sono gli altri” (ibidem). A rinforzo di quanto proposto da Sartre, si può vedere come Gallese (2003), mutuando dalla teoria dell’attaccamento e dallo studio delle relazioni interpersonali, mette in evidenza il carattere sociale della mente umana. Parla dell’origine dell’intersoggettività come di uno spazio paradossalmente privo di soggetto, uno spazio noi-centrico, multidimensionale e interpersonale (Sé-altro), in cui, all’inizio della vita, le persone vivono, condividono e formano, anche per mezzo dei neuroni specchio, dei modelli di oggetti ed eventi, che permetteranno al soggetto di interagire e conoscere il mondo in età adulta (Di Maria e Formica, 2009).
Questa premessa serve a proporre l’ipotesi che nel mondo dei videogiochi MMO – Massively Multiplayer Online – il gruppo inteso come comunità virtuale non solo innesti quei forti meccanismi identitari per cui l’utente si riconosce nell’avatar, ma anche assolva la funzione di aggregatore sociale e permetta quindi lo sviluppo di realtà altre, non solo virtuali, in cui la persona entra in relazione con gli altri, e possa dunque risolvere, sentendosi gratificata (da queste relazioni), il conflitto con l’ipermodernità.
Allo stesso tempo, sempre mediante il rapporto con il gruppo, e aumentando la conoscenza dell’altro, sembrerebbe che i gamers arrivino a conoscere meglio se stessi per mezzo dell’espediente dell’avatar che potrebbe proporsi come strumento di alfabetizzazione: se ciò fosse vero, a questo ne conseguirebbe la possibilità generativa di una ri-narrazione di sé e dunque lo scoprirsi nuovamente, attraverso modi rinnovati seppur in un mondo virtuale comunque certo e controllato. Controllato e quindi, plausibilmente, privo di quella dimensione che richiede competenza a stare in rapporto con l’incertezza.
Per quanto detto, potrebbe essere interessante indagare se appartenere ad un gruppo/gilda/forum permetta un passaggio relazionale dal virtuale al reale per mezzo di un processo di abituazione alla dimensione gruppale e sociale tramite l’online, un superamento della “noi-centricità” con lo sviluppo di una cultura di gruppo e l’instaurazione di una forma sicura di attaccamento, con una conseguente ricerca e generatività delle/nelle relazioni e narrazioni.
7. Gilde, clan, forum: conoscersi attraverso il videogioco.
Quando i videogiochi “sparatutto” sono diventati popolari, si pensò alla possibilità di aumentare la competizione con gruppi, “clan”, composti da una élite di giocatori. In genere questi gruppi di giocatori si strutturano con delle regole di gioco precise quali la scelta di usare solo una determinata arma, compiere solo determinati tipi di azioni; le regole vengono rinforzandosi man mano che si gioca insieme e se piacciono alla “squadra”; o viceversa, un giocatore si unisce se si riconosce in quelle specifiche regole e cultura. Questi gruppi-squadre sono generalmente definiti gilde, ma può capitare che in alcuni giochi siano chiamati in diverse maniere, a seconda del videogame e del suo tema: “corporazioni”, “alleanze”; “coalizioni”; “associazioni di giocatori”; “supergruppi”; “linkshells” ; ecc.
Da questo si può evincere quanto sia importante, per la comunità afferente ad un videogame, la costruzione ben precisa e definita della realtà virtuale a cui viene collegata una specifica cultura gruppale, a volte anche di nicchia.
La gilda nel mondo dei videogames consiste in un gruppo di giocatori che si riconoscono sotto lo stesso stemma. Sono in genere gruppi di azione permanenti all’interno del videogioco, con una strutturazione gerarchica e ben definita. Per entrare in una gilda servono competenza ed abilità di gioco; può essere richiesto all’utente un requisito di ingresso. Nel momento in cui si è accettati, si ha accesso diretto ad un “canale” per interagire con gli altri membri del gruppo, i gildani, per organizzare appuntamenti e sessioni di gioco. Non solo, nel momento in cui si appartiene ad una gilda, si ricavano vantaggi di gioco: si possono stringere alleanze con altri giocatori, fare nuove amicizie, giocare con i propri amici, ed è più facile fare scambi e transazioni gratuitamente. Inoltre, si ha accesso in genere a chat e forum esclusivi. Far parte di una gilda però prevede anche delle responsabilità: giocare e migliorare l’esperienza di gioco per tutti i gildani; partecipare alle battaglie; giocare in modalità gilda VS gilda; unirsi in esplorazioni di mappe nelle spedizioni di gilda che permette di ottenere poteri per il gruppo e chiaramente anche individuali; fare donazioni alla “tesoreria” della gilda; aumentare i poteri della gilda.
Appartenere ad una gilda garantisce vantaggi, ma costa fatica ed impegno atteso dal resto dei membri del gruppo. Dunque, se i videogiochi apparentemente possono servire ad entrare in una realtà virtuale e a staccare la mente dal mondo reale (dove possono esistere dinamiche relazionali faticose, impegni e responsabilità), perché i videogiocatori entrano a far parte di una gilda?
Si potrebbe ipotizzare si tratti di un semplice fine “economico”: stare in un gruppo d’azione, in una gilda, porta vantaggi (es. l’accesso a bonus e avere un gruppo che protegge, che permette di rimanere aderenti ai propri obiettivi di gioco). In realtà se si naviga un po’ nei diversi forum di videogiocatori, le gilde sono proposte come mezzi che promuovono la socializzazione, dove è possibile fare amicizia, stringere legami, conoscere persone nuove. Si vede infatti come questi gruppi di giocatori online, persone che giocano usando avatar e nickname, si possano ritrovare nei canali/chat riservate ai gildani, nei forum a loro dedicati ed incontrare nei festival.
Ecco come la motivazione al gioco, e quindi al compimento/raggiungimento di obiettivi dettati dalla stessa strutturazione dei videogames, sottende la necessità di entrare in contatto con l’altro, conoscerlo e farsi conoscere. Nelle gilde e in genere nelle chat di videogame gli utenti possono scriversi o addirittura parlarsi durante le azioni di gioco, con un linguaggio veloce, fatto di rapide sigle, misto a termini stranieri (potendo gli utenti in gioco essere internazionali).
Per conoscersi e discutere sul mondo dei videogames e non solo, gli utenti preferiscono usare i forum, che per come sono strutturati permettono di dar più spazio al dialogo. Internet ne è piena: alcuni si scambiano informazioni sulle tecniche di gioco, alcuni commentano le news sul mondo dei videogiochi, altri sono dedicati agli amanti degli eSport, molti sono specifici (es. Play Station 5, Nintendo Wii, FIFA 21, ecc.), ma il fil rouge che li lega è l’essere luoghi di scambio.
Si vede dunque come nel tempo, per aumentare la competizione, si siano creati gruppi-gilde di giocatori in cui le persone trovano una struttura contenitiva, cristallizzata nel sentimento di appartenenza; partecipando poi alla promozione di processi di socializzazione tra le persone tramite forum, e alla creazione, quindi, di campi relazionali in cui si condividono ed elaborano narrazioni, tanto da far insorgere e produrre nuove e diverse modalità di pensiero (Montesarchio e Venuleo, 2010).
8. Festival, convention e fiere: conoscersi oltre il gioco, fuori dal mondo virtuale
L’esigenza neotenica (relazionale/sociale) dell’uomo di stringere legami non si ferma al forum. Ed ecco che iniziano a comparire conventions, fiere, festival, in cui i videogiocatori escono dallo spazio online non solo perché gli sviluppatori, i designers, le case produttrici mettono in mostra le novità del mercato, permettono ai videogiocatori di sperimentarle in anteprima, ma anche e soprattutto perché gli utenti dei videogames qui si possono incontrare, conoscere faccia a faccia, privatamente e in gruppo, trasportando nel mondo reale le comunità virtuali.
Questa necessità è evidente se si guarda al fatto che il fenomeno dei festival e delle fiere del mondo dei videogiochi sta crescendo anno dopo anno in Italia e nel mondo. Si pensi che al Lucca Comics & Games, hanno partecipato, nell’edizione 2018, 250.263 visitatori con biglietto e 793.818 presenze complessive; l’Australasian Gaming Expo (AGE) di Sydney ha richiamato 9.009 visitatori nel 2019; il PAX (Penny Arcade Expo), convention americana della città di Seattle, nota come la “Woodstock per i giocatori”, da 3.300 persone nel 2004 è così cresciuta che è stata suddivisa in tre conventions: PAX West, PAX Est e PAX South. Nel 2011 infatti ha visto 70.000 persone partecipare.
Dopo aver dunque interagito in chat, aver compiuto commerci e missioni insieme online, dopo aver scambiato informazioni ed opinioni nei forum e nei siti dedicati, dopo aver scoperto che l’altro è simile, essersi quindi rispecchiati e ri-conosciuti, si sente il bisogno di traslare sul piano reale, all’interno del contesto di vita quotidiano, quei rapporti ed amicizie nate nel videogioco online, nelle gilde, nei forum. I gamers si incontrano ai festival e alle fiere dove, uscendo dal virtuale, reificano le relazioni. Qui ci si può incontrare tra membri della stessa gilda e della community, a volte vestiti e abbigliati come i propri avatar, per farsi anche riconoscere dal gruppo e notare dalla popolazione – la grande comunità – che partecipa all’evento. È in questo spazio che molte persone fanno cosplay, cioè si travestono e interpretano i personaggi dei giochi; allo stesso tempo possono anche stringere legami reali (di amicizia, d’amore, ecc.), scambiarsi i contatti e iniziare a frequentarsi fuori dal videogioco.
Osservando quali processi si stiano generando nel passaggio dal virtuale all’esperienza nel vivo è legittimo chiedersi se, in fondo, il mondo dei videogames non si stia proponendo come uno dei teatri possibili ove dar vita/abitare una trans-culturalità, ossia quell’occasione di colloquiare gruppalità entro differenti culture grazie a un senso trasversale di appartenenza che, per altre vie, sembra esser divenuta un’utopia nell’attuale stato di cose della contemporaneità.
9. Conclusioni
La gruppoanalisi dispone di una teoria della relazione sociale, del contesto e dell’inconscio, e guarda alla mente come una funzione sia processuale che semiotica, che emerge dalle esigenze e necessità discorsive contingenti al contesto (Rizzo, 2010) e dunque, con una valenza di tessuto connettivo, in quanto “non si trova dentro l’individuo” (Montesarchio, Venuleo, 2009), ed è inoltre rappresentabile “come «un repertorio di versioni» messe in atto e costruite con altri, in ragione dell’ambito discorsivo e di significazione in cui il soggetto è collocato” (Montesarchio, Venuleo, 2009, p.73), allora, tale sistema teoretico fa sì che lo psicologo divenga un interprete dei cambiamenti nei sistemi di convivenza (Mannarini, 2010).
Il mondo dei videogames, unito a Internet, sta modificando alcune modalità di vivere l’identità, il gruppo e la collettività. Non solo: il mondo dei videogiochi sta modificando la cultura. Basti pensare come nelle ultime campagne elettorali americane, i vari candidati abbiano utilizzato il mondo dei videogames per captare i potenziali elettori inviando anche tramite questo mezzo messaggi elettorali. Ad esempio, Joe Biden, ex- vicepresidente americano, e attuale Presidente, ha utilizzato per la sua campagna elettorale USA 2020, Animal Crossing – popolare videogioco per famiglie della Nintendo – per farsi pubblicità (Luna, 2020); Barack Obama (ex presidente USA) usò i videogiochi in entrambe le sue campagne elettorali facendo un accordo con EA[25].
Se consideriamo il fenomeno dei videogames come un contesto web-abitato, in quanto legato oggi giorno all’online, al virtuale, è importante studiarlo come un “contesto dialogato” in cui le culture locali, la realtà entrano, lo permeano e ne sono a loro volta permeate, co-costruendo portati matriciali. Portati e loro matrici che possono andare dall’estrema saturazione all’opposto. Essere dunque svuotate e in alcuni casi smagliate.
Dall’iper-visibilità di contenuti (in questo caso profili) ad un avvilimento degli stessi, non si è chi si è online, ma si è la rappresentazione di sé che si vuole o deve dare online; si passa dalla sostituzione dell’azione al parlare dell’azione, cioè, come osserva il sociologo canadese Erving Goffman (1959), si passa dal fare qualcosa ad esprimere di fare, ovvero la differenza tra provare un sentimento e trasmetterlo.
Difatti, se da una parte è possibile pensare al fenomeno dei videogames come un mezzo, seppur complesso, usato dall’individuo per raggiungere una definizione di sé, nonché una possibilità di relazione con l’altro, tutelata da un processo tranquillizzante di abituazione alla collettività, al sociale, come postulato in questo scritto, dall’altra parte non è possibile analizzare questo fenomeno come avulso dal contesto del web con tutte le sue insidie. Infatti, come suggerisce Jia Tolentino nel saggio “La i di io in Internet” (2020), l’online (il web e Internet) si è nel corso dei decenni modificato, fino a stravolgere i potenziali positivi iniziali. Questa autrice così descrive il passaggio dal primo Internet (web.1.0) al web 2.0: “Durante gli anni Ottanta e Novanta, le persone si radunavano su internet nei forum aperti, attirati dalla curiosità e dalla competenza altrui […] Gli utenti davano consigli, rispondevano alle domande, facevano amicizia e si chiedevano che cosa sarebbe diventata questa nuova internet.” (Tolentino, 2020, pp. 4-5) Rispetto al web 2.0, e parlando dei primi blog, l’autrice afferma che la prima internet “era social […], e metteva in qualche modo l’identità individuale al centro di tutto […] La blogsfera era anche piena di transazioni reciproche, che servivano per dare eco e importanza. […] Con l’emergere dell’attività di blogging, le vite personali diventavano di dominio pubblico e gli incentivi sociali, come l’essere apprezzati e l’essere visti, si trasformavano in incentivi economici. […] Internet, nel promettere un pubblico potenzialmente illimitato, iniziava a sembrare il luogo naturale dell’espressione di sé”. (Tolentino, 2020, p. 6) Questo è un fenomeno che osserviamo facilmente ai giorni nostri con la presenza di famosi youtuber, instagrammer, tiktoker, opinioninsti e influencers di ogni genere che adeguano e modellano la loro vita in base a quello che devono promuovere, vendere e far apparire. Allo stesso tempo, è possibile osservare movimenti ed atteggiamenti online in cui si passa dall’iper-criticità e aggressività spesso gratuita (trolls e haters) al conformismo per cui si consumano “principalmente notizie che corrispondono al nostro allineamento ideologico, che è stato messo a punto per farci sentire giusti e anche arrabbiati” (ibidem, p.28). Questo sta a significare che vi è ad oggi una perdita della “realtà civica condivisa” (ibidem) e dunque un freno alla vera costruzione dell’identità dell’individuo che non colloquia, dialoga con l’altro da sé, con la polis e il mondo, ma che invece svuota di significato l’essenza della sua soggettività mettendo in scena performance per aumentare i “like” del suo pubblico.
Come infatti ricorda Goffman (1959), ogni persona nel mondo reale ha un qual grado di rappresentazione e messa in scena di sé, a volte fatta in maniera consapevole, altre in maniera meno conscia, la differenza con l’esposizione di sé nel virtuale è che il “palcoscenico e il pubblico”, che variano per forza di cose nella realtà dell’individuo – che quindi ha la possibilità di “essere” più o meno se stesso a seconda del contesto – non terminano mai di essere in Internet. “Goffman osserva che abbiamo bisogno sia di un pubblico che assista alle nostre prestazioni, sia di un’area dietro le quinte in cui possiamo rilassarci, spesso insieme a dei «compagni di squadra» che si sono esibiti al nostro fianco”. (Tolentino, 2020, p.13) Online questo non accade: il “pubblico può ipoteticamente continuare ad espandersi per sempre e le prestazioni possono non finire mai. […] Online, la prestazione si ferma per lo più nel regno del nebuloso del sentimento, attraverso un flusso ininterrotto di cuori, like e occhi […] non c’è backstage su internet, mentre il pubblico offline si svuota necessariamente e cambia, il pubblico online non se ne va mai.” (ibidem, p.14) Uno dei rischi del fenomeno dei videogames web-abitati è dunque nascosto in questo collegamento con il mondo del web 2.0, il rischio di falsare l’identità, distruggere la collettività se non si esce nel mondo reale.
Come ci ricordano Ferraro e Lo Verso (2007, p. 84) riprendendo Bauman (1999), tra gli aspetti centrali della società attuale vi è “il fatto di vivere la propria vita e l’impegno rispetto quella altrui «come se», cioè provando a recitare piuttosto che vivere pienamente la realtà e gli incontri, che di fatto si rivelano come incontri mancati, senza impatto. Oscillare, pizzicare innumerevoli esperienze affettive, sessuali, lavorative, ecc., senza viverne pienamente alcuna, come se tra l’esperienza e la potenzialità non esistesse veramente un abisso […]”.
Ed ancora, altro rischio insito nella realtà virtuale, soprattutto quando vissuta come totalizzante, è che “agisca come fattore di de-realizzazione, ripercuotendosi sulla realtà giornaliera con fenomeni di evidente disadattamento e de-personalizzazione” (Ferraro e Lo Verso, 2007, p. 90).
D’altro canto possono essere mosse critiche e visti i possibili rischi del fenomeno quando connesso all’online, allo stesso tempo si può pensare che il videogame – visto come funzione sociale, nonché mezzo attraverso cui vengano espresse e sperimentate parti di identità, permettendo non solo un confronto con se stessi, ma anche con gli altri gamers – possa essere considerato uno strumento proficuo per chi, probabilmente perché più fragile, non riesce, nell’ipermodernità, a trovare una strada meno complessa per fare gruppo, collettività.
È infatti importante ricordare che la rete, e in questo caso anche i videogames, possono attrarre anche quelle persone che ricercano nel web qualcuno con cui connettersi, nella possibilità di sentirsi meno soli e alla ricerca di relazioni e accettazione e che “basta scavare appena sotto la superficie per scorgere la vera natura di queste relazioni: essenzialmente irrisolte, contradditorie, frammentarie e decadenti, tant’è che molti pazienti riferiscono fallimenti e sensazioni inquietanti rispetto al passaggio dalla relazione on-line, all’incontro off-line, come se tutta la conoscenza dovesse ricominciare da capo e ripartire dal corpo” (Ferraro e Lo Verso, 2007, p. 90) che nel mentre è stato fatto fuori: “la vista, il suono, il tatto, l’olfatto sono dimensioni accessorie […] il corpo stesso [come] una macchina obsoleta nell’era della rivoluzione digitale” (ibidem). Credo, però, che il giocare connessi, raggrupparsi in gilde, darsi delle regole comunitarie, o aderire ad esse, condividendo scopi, hobbies e passioni, per poi in taluni casi fare quel passaggio dal virtuale al reale, incontrandosi, confrontandosi, correndo il rischio anche di far entrare il corpo, il concreto, il pubblico nell’incontro e quindi darsi la possibilità di non piacersi oppure al contrario fare amicizia, sia da ritenersi un passo in avanti verso il collettivo, il sociale.
In quest’ottica, è possibile postulare che l’uso come “funzione socializzante” dei videogames possa essere un tentativo attuale di soluzione delle estreme conseguenze dell’ipermodernità, cioè di sviluppare l’individualismo ed insieme ad esso i valori dell’intimità, del mondo privato, della distinzione e dell’affermazione delle singolarità (Kaes, 2012) e che sia ancora troppo prematuro dare una netta valenza positiva o negativa a questo fenomeno.
Per quanto detto e in considerazione dell’ottica socio-costruttivistica entro cui si inscrive la gruppoanalisi – all’interno della quale il mentale è sia risultante che punto di intersezione e unione tra universi sociali, storico-culturali e le consuetudini interpretative e narrative di uno scambio sociale che accade dentro un determinato contesto locale (Guidi, 2009) – ritengo possa essere interessante nel futuro osservare, studiare, ed esplorare se (e quali) cambiamenti i videogiochi e i nuovi contesti web, stiano apportando nell’assetto culturale della convivenza, tenendo in considerazione che le persone stanno sempre più intessendo legami circolari tra l’iperconnessione e l’esperienzialità dal vivo.
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L’autrice
Linda Borra: psicologa psicoterapeuta gruppanalista. Si è interessata alla ricerca in psicologia clinica, sociale e cross-culturale. Attualmente lavora nel campo delle dipendenze comportamentali presso il Servizio di Dipendenze dell’Azienda USL di Ferrara.
[1] Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, 2013.
[2]Al momento si contano tantissime definizioni diverse della dipendenza da Internet; le denominazioni più frequenti nella comunità scientifica sono Pathological Internet Use (PIU) e Internet Addiction Disorder (IAD). (Lancini, 2019, p. 24)
[3] International Classification of Diseases – Classificazione Internazionale delle Malattie.
[4] Mia traduzione dal testo originale inglese: “Gaming disorder is characterised by a pattern of persistent or recurrent gaming behaviour (‘digital gaming’ or ‘video-gaming’), which may be online (i.e., over the internet) or offline, manifested by: 1. impaired control over gaming (e.g., onset, frequency, intensity, duration, termination, context); 2. increasing priority given to gaming to the extent that gaming takes precedence over other life interests and daily activities; and 3. continuation or escalation of gaming despite the occurrence of negative consequences.” (WHO, “ICD-11 for Mortality and Morbidity Statistics”, versione 5/2021, sul sito web https://icd.who.int/browse11/l-m/en#/http://id.who.int/icd/entity/1448597234 consultato il 5/11/2021.)
[5] Massachussetts Institute of Technology
[6] Atari, Inc. è stata una società americana produttrice di videogiochi, console domestiche e arcade game. Fondata in California nel 1972 da Nolan Bushnell e Ted Dabney, è considerata la società che più di ogni altra ha contribuito alla nascita dell’industria videoludica. (Langshaw, 2013)
[7] Arcade: “Un videogioco arcade […]è un videogioco che si gioca in una postazione pubblica apposita a gettoni o a monete, costituita fisicamente da una macchina posta all’interno di un cabinato”. (Thomas, D., Orland, K., Steinberg, S., 2007)
[8] Bushnell – così viene dichiarato in “What the Hell has Nolan Bushnell Started?”(Next Generation. Imagine Media (4): 11. April 1995.) – dice di Pong “In fact, there are a lot of people who have come up to me over the years and said, ‘I met my wife playing Pong,’ and that’s kind of a nice thing to have achieved.”
[9] TETRIS, realizzato da Pazitnov, è esplicativo del fatto che non è così importante la grafica perché un videogioco funzioni, ma il game-play.
[10]Computer da casa, diffusosi negli anni ’80, come oggi il Personal Computer.
[11]Secondo Getsy (2011), Wolfenstein è uno tra i giochi che ha permesso la diffusione dei videogames nei personal computer.
[12]La diffusione shareware è “un tipo di licenza software molto popolare sin dai primi anni novanta. Vengono distribuiti sotto tale licenza in genere programmi facilmente scaricabili via Internet o contenuti in CD e DVD quasi sempre allegati alle riviste di informatica in vendita in edicola”. (Wikipedia, consultata il 1 marzo 2020)
[13]Open Source: “Software di cui l’utente finale, che può liberamente accedere al file sorgente, è in grado di modificare a suo piacimento il funzionamento, correggere eventuali errori, ridistribuire a sua volta la versione da lui elaborata. L’esempio più noto è il sistema operativo Linux. La distribuzione di un software in formato o. presuppone la rinuncia da parte dei programmatori al diritto di proprietà intellettuale”. Definizione Vocabolario Treccani online consultato il 16 Marzo 2020.
[14] Sfida – incontro mortale fra due o più giocatori che devono eliminarsi a vicenda.
[15]DWANGO è stato uno tra i primi servizi per videogioco online nato nel 1994 in USA. (About DWANGO, dwangounited.org. URL consultato il 20-09-08 – archiviato dall’URL originale il 4 luglio 2008.
[16]www.playstation.com; Sony PlayStation 102,49 milioni di copie vendute. Ultima rilevazione dati Gennaio 2018. (Delli, 2020)
[17]Dati aggiornati al 24 Dicembre 2014. (Delli, 2020)
[18]Ideato da Will Wright, ideatore anche di SimCity, per EA Games.
[19]In questo i personaggi , i Sims, si differenziano tra loro per caratteristiche fisiche e personologiche, possono nascere, riprodursi e morire; posseggono case, lavorano e hanno relazioni tra loro. Due Sims, ad esempio, possono innamorarsi, e decidere di fare un figlio insieme; se il neonato viene correttamente accudito può trasformarsi in un bambino e divenire anch’esso gestibile e controllabile dal giocatore; se invece viene trascurato, viene “portato via dai Servizi Sociali”. Interessante è che i Sims possono essere personalizzati dai giocatori nel modo di vestire, nei tratti somatici e nelle caratteristiche di personalità.
[20]“The Life and Death of the Original Xbox”, IGN, 23 Novembre 2011.
[21]Della casa Blizzard Entertainment. Ha avuto un picco massimo di 12 milioni di abbonati nel 2010; ad oggi ha 5,2 milioni di iscritti attivi.
[22]Le case di produzione di questi giochi guadagnano sia da micro-transazioni di denaro che gli utenti che lo desiderino fanno per sbloccare alcuni contenuti, personalizzazioni dei personaggi, ecc., sia dalla possibilità di pubblicità interne al gioco . I giochi free-to-play sono stati criticati sia dalle associazioni dei consumatori perché le micro-transazioni non permettono di controllare facilmente la cifra di denaro che si spende, sia dai giocatori stessi in quanto comperare contenuti facilitanti il gioco va contro la cultura del videogioco stesso per cui servono abilità e strategia per vincere (Cella, 2014).
[23]“A secular world without ideals or vertical meaning has left the populations of the 21st century living in an era where bewilderment is not simply an after effect of the previous two centuries but a defensive posture. If we cannot construct good dreams for selves, families, regions, nations and the world; if we therefore cannot construct the future as a mental object collecting those dreams and utilising them for vital matrices that connect citizens of all nations in a meaningful progression, then as adaptive creatures we have turned to new strategies in order to tread water”. (Bollas, 2015, p. 22)
[24]Matrici prive di vincoli ed incentrate sui quei vissuti familiari che portano all’estremizzazione di stili relazionali non differenziati, caotici o abbandonici.
[25]EA- Electronic Arts è una società americana che sviluppa, crea, pubblica e distribuisce videogiochi. (Wikipedia, consultato il 5/12/2021)